TOLSTOJ. IL GRIDO E LE RISPOSTE

Tolstoj. Il grido e le risposte

Tolstoj, il grido e le risposte

Presentazione della Mostra. Partecipano: Valentina Alekseeva, Conservatrice del Museo Tolstoj di Mosca, Russia; Giovanna Parravicini, Fondazione Russia Cristiana. Introduce Francesco Braschi, Dottore ordinario della Biblioteca Ambrosiana.

 

FRANCESCO BRASCHI:
Benvenuti a questo incontro di presentazione della mostra “Tolstoj. Il grido e le risposte”. Abbiamo con noi Valentina Alekseeva, che è vicedirettore del Museo Statale Tolstoj di Mosca e ne è anche la Conservatrice generale. Dal 1971 lavora sui fondi del Museo Tolstoj ed è quindi una profonda conoscitrice dei testi e dei manoscritti di questo scrittore. Abbiamo poi la dottoressa Giovanna Parravicini, ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana e addetto culturale della Nunziatura Apostolica presso la Federazione russa. Tradurrà l’intervento della dottoressa Alekseeva Marta Dell’Asta, anch’essa ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana. Terminate le presentazioni entriamo subito nel vivo del nostro incontro. Probabilmente qualcuno di voi avrà già visto la mostra di cui parliamo, altri avranno prenotato la visita per i prossimi giorni. Diciamo innanzitutto che questa mostra è stata concepita da Giovanna Parravicini, nell’ambito della Fondazione Russia Cristiana in collaborazione con il Museo Statale Tolstoj di Mosca, con l’Istituto Puskin di San Pietroburgo e questa mostra nasce come il tentativo di proporre, attraverso la figura di Lev Tolstoj e dei suoi interlocutori, quel tema che sta al centro del Meeting di quest’anno, ovvero il tema delle periferie esistenziali, nelle quali il Mistero non ha lasciato da solo l’uomo. Io vorrei dare innanzitutto la parola alla dottoressa Valentina Alekseeva, che ci porta il saluto del Museo Tolstoj e ci lascia anche una presentazione di questa mostra e del coinvolgimento che l’istituzione che lei rappresenta ha avuto nella preparazione. A lei la parola.

VALENTINA ALEKSEEVA:
Buonasera, cari amici. Ho il piacere di portarvi i saluti del Museo Statale dedicato a Tolstoj, a questa grande iniziativa culturale che è il Meeting 2014. E’ un grande piacere incontrare un lavoro così professionale, così acuto su quest’autore ed è interessante notare quale interesse abbia incontrato in un pubblico italiano. Tolstoj chiamava felici le persone che potevano dedicare tutta la vita al servizio degli uomini. A cent’anni dalla sua morte il mondo ha ancora bisogno di tornare sempre di più alle problematiche che lui aveva sollevato. E quindi vuol dire che il mondo ha ancora bisogno oggi di Tolstoj e attraverso la sua lettura e l’ascolto della sua parola deve rivolgersi alla sua opera. Un vero pensatore, un vero artista non può mai sedere sugli allori contento della propria opera, ma un vero pensatore, un vero artista deve soffrire per le proprie idee e servire gli uomini in questo modo. La tristezza di Tolstoj è il tentativo di essere spietatamente onesto verso se stesso e verso gli uomini. E questo toccherà sempre l’anima degli uomini che tentano, a loro volta, di trovare la propria strada. Quanto Tolstoj fosse necessario ai suoi contemporanei si può giudicare leggendo le lettere che riceveva da tutto il mondo che conserviamo nell’archivio. La mostra che vediamo oggi ci permette di affrontare questo stesso cammino per risolvere, per affrontare le eterne domande dell’uomo, domande cui mai si può dare una risposta definitiva. Allora, Tolstoj amava dire che gli uomini amano unirsi per realizzare un’idea comune che li unisce e che anche per il bene bisogna fare lo stesso, bisogna essere capace di unirsi. E oggi la realizzazione di questa mostra, in qualche modo, serve lo stesso scopo, cioè un’idea buona che unisce l’umanità. E’ bene che gli uomini abbiano ancora oggi la possibilità di unirsi per cercare una risposta a queste domande. Quando terminava di scrivere il romanzo Guerra e pace, Tolstoj scriveva, annotava nel suo diario: “Lo scopo dello scrittore non è quello di dare delle risposte precise e definitive alle domande importanti della vita, ma piuttosto ha il compito di porre queste domande e di portare, di costringere gli uomini a riflettere su queste domande”. E lo scopo della sua vita è stato quello di mostrare agli uomini come si fa. Grazie.

FRANCESCO BRASCHI:
Ringraziamo la dottoressa Alekseeva di questa testimonianza. Lei diceva: “Ancora oggi il mondo ha bisogno di Tolstoj a più di 100 anni dalla sua morte”. Quello che possiamo dire riguardo alla realizzazione di questa mostra è che è stata una realizzazione corale. Abbiamo già menzionato appunto il Museo Tolstoj, l’Istituto Puskin di San Pietroburgo, la Fondazione Russia Cristiana, ma bisogna anche dire che coinvolti nel lavoro di preparazione di questa mostra, che è durato dall’autunno scorso, quindi praticamente dal mese di ottobre, e che non si è ancora concluso, coinvolti in questo lavoro sono stati molti studenti universitari italiani, ma anche un ampio numero di scolaresche di scuole superiori italiane di diverse parti del nostro Paese. Perché questo? Perché il lavoro iniziato quasi un anno fa, che ha come tappa significativa la mostra che tutti potete vedere, si concluderà solo nel mese di novembre. Infatti, nel mese di novembre ci sarà a Milano l’annuale convegno della Fondazione Russia Cristiana, che sarà ospitato dall’Università Cattolica, e nell’ambito di questo Convegno ci sarà anche la presentazione di una serie di lavori che studenti delle scuole superiori hanno realizzato quest’anno, proprio prendendo spunto dai testi di Tolstoj e dalle problematiche sollevate dalla mostra. Questo già ci dice la verità di quanto affermava la dottoressa Alekseeva, perché ci dice proprio che ancora oggi c’è una possibilità vera di accoglienza del pensiero di quest’uomo e di lavoro su di esso. Allora io vorrei proprio, partendo da questa constatazione, porre a Giovanna Parravicini alcune domande che le permettano di illustrarci il significato di questa mostra. Ed io vorrei proprio chiederle: ma in che senso, nella mostra su Tolstoj, si parla di periferie? Quali sono le periferie cui la mostra allude, che ci propone di andare a visitare? Quali sono gli interrogativi che la mostra suscita o impone in qualche modo a noi oggi? Quali interrogativi di Tolstoj sono assolutamente contemporanei a noi? E come, attraverso questa mostra, siamo sollecitati a vivere quelle due dimensioni che Papa Francesco ci ha consegnato, la dimensione, appunto, dell’amore per la realtà e la dimensione dell’essenzialità, dell’andare al cuore del messaggio evangelico.

GIOVANNA PARRAVICINI:
Allora, grazie a tutti, io cercherò di rispondere a queste domande, che sono state proprio il cuore con cui abbiamo cercato di creare questa mostra. La mostra su Tolstoj nasce non a caso nel Meeting delle periferie, e mi ha molto colpito nel messaggio del Papa stamattina, che lui sottolineasse come le periferie non sono solo dei luoghi, ma sono delle persone. Io potrei dire che la mostra di Tolstoj è in qualche modo la descrizione della periferia che ciascuno di noi è, così lontano dal centro, così dissipato, così centrifugato dal centro, ma al tempo stesso dotato di uno strumento infallibile, di una calamita che potentemente ci riporta al punto, al centro, che vedremo essere il cuore dell’uomo, ma proprio in quanto il cuore dell’uomo è capace di riconoscere il Mistero. “Il mio cuore è inquieto finché non riposa in Te, Signore”, diceva Sant’Agostino agli inizi dell’epoca cristiana, e Tolstoj non a caso scriverà, nel 1880, Le confessioni, la sua confessione, proprio per dire: l’uomo del razionalismo, dell’illuminismo – quell’uomo di cui Dostoevskij aveva detto: “Ma può un europeo colto dei nostri giorni, credere veramente nella divina umanità di Cristo?” -, e questa stessa domanda è la domanda che in qualche modo tormenta il cuore di Tolstoj tutta la vita. Tolstoj non arriverà mai, è inutile volere cercare di battezzarlo, non arriverà mai a pronunciare questo nome, anzi in alcuni momenti sarà addirittura blasfemo; ma al tempo stesso Tolstoj ci testimonia che non si può mai chiudere la partita, che non si può mai rimarginare la ferita, che ciò che razionalisticamente io nego, tuttavia poi nella mia esperienza non posso non cercarlo. Questa è proprio la periferia umana di Tolstoj, che vuole essere innanzitutto una provocazione a ciascuno di noi per trovare il centro. Naturalmente voglio chiarire che questa mostra su Tolstoj non è una mostra che pretenda di esaurire Tolstoj, uomo, pensatore, artista… Tolstoj è una cosa immensa! Vuol proprio in qualche modo porre un dialogo: il dialogo che Tolstoj ha avuto con i suoi contemporanei, con il mondo, con la realtà, ma che direi ha avuto innanzitutto con se stesso. E qual è questo dialogo, qual è il centro di questo dialogo? Tolstoj dice – noi l’abbiamo usato un po’ come logo della mostra – si può vivere in due modi: “L’uomo può vivere o ignorando che esista l’infinito, ovvero vivendo così, senza porsi domande, come una bestia; oppure non può non vivere volendo in qualche modo scoprire in ogni finito, l’infinito”. Noi diremmo, volendo scoprire nel contingente, in quello che è di questo minuto, di adesso, volendo scoprire il tutto. Ecco, questa è stata la grande sfida. E tutto il mondo ha guardato a Tolstoj. Tolstoj è stato un grande paradigma per la Russia del suo tempo, ma anche per uomini di ogni parte del mondo. Pensate, dal dottor Schweitzer, dal nostro Giovanni Pascoli, che gli dedica una poesia, una poesia in cui così lo descrive: “Cercava sempre, ed era ormai vegliardo. Cercava ancora, al raggio della vaga lampada in terra, la perduta dramma”. Che cosa state cercando, che cosa cercate? Ecco, Tolstoj è l’uomo della domanda, di una domanda che resta aperta, perché pensate che, dopo avere vissuto nella sua vita una serie di peripezie interiori (educato in una famiglia benpensante, cristiana del tempo, passa attraverso l’ateismo, poi ritrova la fede ortodossa, poi a un certo punto il rifiuto della fede ortodossa così come tradizionalmente veniva professata, fino a un rifiuto della divinità di Cristo e dei sacramenti, tanto che a un certo punto la Chiesa ortodossa, nel 1901, è costretta a scomunicarlo, o meglio, a dire: “Con queste sue idee, con queste sue teorie, il conte Tolstoj si è messo fuori dalla Chiesa”; e la Chiesa ortodossa aveva ragione, perché effettivamente le sue teorie erano teorie errate, pericolose, e fuorvianti rispetto alla sana dottrina cristiana), eppure Tolstoj continua la sua ricerca e, a ottantadue anni, si mette di nuovo in moto: scappa di casa, lascia i suoi segretari, i suoi collaboratori, i suoi familiari, quelli che in qualche modo avevano contribuito a creare questa macchina dell’ideologia tolstojana, scappa di casa come un ragazzino, come un adolescente. E dove va? Arriva al monastero in cui era stato già molti anni prima (all’epoca, nel periodo in cui era credente), e si presenta dai monaci, si presenta sulla soglia del monastero, e per un giorno intero, appunto essendo fuggito di notte, di nascosto dai suoi, resta sulla soglia del monastero, pensando: “Ma io vorrei entrare e bussare, parlare ai monaci, ma io sono uno scomunicato. E se mi mandano via?”. E siccome il conte Tolstoj era anche un uomo molto orgoglioso, non ebbe il coraggio di bussare alla porta. E le cronache del monastero di Optina tramandano che i monaci guardavano fuori dalla finestra, e dicevano: “C’è qui il conte Tolstoj”. Immaginatevi che Tolstoj era l’uomo più famoso della Russia, e tutti dicevano: “Beh, lui è uno scomunicato, se bussa noi lo facciamo entrare, ma deve fare lui il primo passo, come possiamo noi uscire?”. Ebbene, provate a pensare, provate a mettere al posto di queste persone, Papa Francesco: io sinceramente devo dire che ho concepito questa mostra quando ho visto il dialogo, la discussione tra Papa Francesco e Scalfari, ed io ho pensato a quante volte magari a persone, colleghi, vicini, interlocutori che magari accusano la Chiesa a torto o a ragione, quante volte io, di fronte a queste persone, me la cavo ributtando lì delle idee altrettanto ideologiche, solo di “marca” cristiana, e senza comunque scommettere, senza sperare sui miei interlocutori: così è stato per Tolstoj le autorità e la Chiesa del suo tempo. E così Tolstoj ha perso quest’occasione, poi ha ripreso il viaggio perché aveva il terrore che i suoi di casa lo raggiungessero, si è messo in viaggio di nuovo, ha avuto un malore, l’hanno fatto scendere dal treno, l’hanno ricoverato nella stazioncina di Astàpovo, e nel giro di pochi giorni è morto. Ma questa sua grandezza è proprio la grandezza dell’uomo alla ricerca, dell’uomo che cerca, e questo gli vale innanzitutto l’idea che tutta la Russia si era fatta, tutta la Russia e tutto il mondo. Provate a pensare non soltanto l’europa ma Gandhi: Gandhi incontra il cristianesimo europeo attraverso Tolstoj, e capisce che, noi lo tradurremmo in un altro modo, “che le forze che muovono la storia sono le stesse…”, meglio, “le forze che muovono il cuore dell’uomo sono le stesse forze che muovono la storia”. E impronta tutta la sua lotta di liberazione per i contadini in Africa prima, e in India poi, proprio al cristianesimo tolstojano. Per questo, non ti sembrerà strano che l’eretico Tolstoj, in un disegno del 1910 circa, viene così rappresentato, tra le braccia di Cristo, quel Cristo cui non è mai riuscito a dire di sì esplicitamente (non sappiamo cosa è successo poi nel momento supremo della morte), eppure tutta la gente lo ravvisa, lo ritrova così, tra le braccia di Cristo, tra le braccia della verità. Ma è impressionante come in molte sue opere, nei suoi racconti innanzitutto, noi vediamo che Tolstoj nega razionalmente… Non so, c’è la figura per esempio di un terrorista, di un condannato a morte, che al momento della morte, della ribellione (sta per essere portato via), a un certo punto si scopre a dire: “Signore, pietà!”. E si dice: “Ma io non credo in Dio, non ho mai creduto, Dio non può esistere”. Eppure, dice, “questa Presenza che stava di fronte a lui e cui lui si rivolgeva era molto più vera di tutto quello che lui sapeva e aveva saputo fino a quel momento”. E, dice Tolstoj, “prova ne fu che in quel momento si sentì invaso da una grandissima pace e libertà”. E Tolstoj non fa mai una differenza, nei suoi personaggi, tra buoni e cattivi: li fa tra veri, o meglio, vivi e morti. Tutti quelli che stanno intorno a questo condannato, e lo vedono portare via verso la forca, si accorgono che lui è luminoso: una cupa mattina autunnale, pioviggina, e tutto il cielo è bigio, e questo giovane biondo è tutto circondato da un alone di luce, è l’uomo vivo, è il buon ladrone del Vangelo, perché tutto quello che avviene sulla terra (come diceva Dostoevskij) avviene al cospetto di Dio, per l’eternità. Ed è proprio questa sua ricerca che lo rende così grande, lo rende… questa è una caricatura: lui, di fronte allo zar. Lo zar piccolissimo, e lui grandissimo, è visto sempre come un gigante, un gigante proprio perché è un uomo intero, è un uomo che non rinuncia alla sua statura, che non si accontenta di risposte preconfezionate, che non si accontenta di schemi, che vuole andare all’essenza. C’è quest’altro disegno che rinnova in qualche modo le tentazioni di Cristo, la vignetta dice: “Ma pèntiti, cosa ti costa? E noi ti riempiremo di onori, ti daremo la croce dell’ordine, il cappello, le insegne…”, e invece Tolstoj resta intero, resta di fronte a se stesso, di fronte alla propria umanità. Oppure questa vignetta che lo descrive di fronte al giudizio universale: io vi giuro che la prima volta che ho visto questa vignetta pensavo che si trattasse della propaganda sovietica antireligiosa, perché poi in epoca sovietica noi vedremo molto spesso vignette di questo genere, dove c’è una satira molto feroce, molto forte nei confronti della Chiesa. Ebbene, è una vignetta del 1901: siamo in Russia, la Chiesa è una Chiesa ufficiale, prospera, però voi vedete che Padreterno è il funzionario imperiale, che è raffigurato qui a lato nella fotografia, Konstantin Pobedonoscev. C’era stato vent’anni prima un episodio che segnò terribilmente e la vicenda di Tolstoj e la vicenda della Russia: marzo 1881, viene assassinato lo zar Alessandro II, e due persone… I terroristi, vengono presi. Era lo zar liberatore, quello che aveva abolito vent’anni prima i servi della gleba, che c’erano ancora in Russia. I terroristi vengono presi, e viene loro comminata la pena capitale. Solo due voci in Russia si levano contro la pena capitale: quella del giovane Vladimir Solov’ev, e quella di Tolstoj. Perché? Non perché loro dicessero che il regicidio era giusto, non perché giustificassero in qualche modo l’assassinio dello zar, ma perché dicevano: “Per rompere la spirale di odio e di violenza che si è creata…” – pensate alla nostra situazione, pensate al mondo e ai terribili conflitti che ci sono – quale può essere la soluzione? L’unica soluzione è il perdono. “Tu” (entrambi si rivolgono a pochi giorni l’uno dall’altro), “tu, o sovrano – figlio dell’assassinato, Alessandro III – devi concedere il perdono, perché tu non sei solo un capo politico, tu sei l’imperatore, sei il depositario della fede, dell’identità cristiana del popolo russo; e allora tu devi dare il perdono ai tuoi assassini, per fare vedere che tu non agisci secondo la legge del taglione, ma secondo la legge di Cristo, che è diventato Re salendo sulla croce”. E’ interessante la risposta che Pobedonoscev… Pobedonoscev era l’ufficiale statale che era di fatto a capo della Chiesa. A quell’epoca la Chiesa ortodossa era stata ridotta a una sorta di ministero dei culti. Pietro il Grande aveva abolito il Patriarca, e quindi la Chiesa era retta da un collegio di vescovi, con a capo un funzionario imperiale, e il funzionario imperiale dice allo zar: “Ma lei non vorrà mica perdonare! Bisogna che questo sangue di suo padre venga vendicato!”. Pensate, il funzionario che rispondeva della Chiesa di fronte all’autorità civile: niente perdono, ma la vendetta. Lo zar gli dice: “Stia tranquillo, io voglio farli fuori tutti”. E poi Pobedonoscev si rivolge a Tolstoj, dicendogli: “Io non ho neppure fatto avere la sua supplica allo zar, perché il suo Cristo non è il nostro Cristo. Il suo Cristo è un poveraccio che perdona, è un debole; il nostro Cristo è un Cristo forte, è il Cristo che ha il potere in mano. E la sua fede non è la nostra fede, perché la nostra fede si basa su delle regole, su dei modelli etici fondamentali”. Provate a pensare all’enorme attualità che tutto questo ha, provate a pensare a come Papa Francesco ci invita continuamente a ricercare l’essenziale, a lasciare tutto ciò che è secondario, e veramente ad attraversare tutte le periferie, a incontrare tutte le persone, portando sempre e soltanto Cristo. E allora, appunto, di fronte a questa situazione in cui Tolstoj invece viene visto come il gigante della verità umana, di fronte ad una Chiesa, di fronte ad uno stato che hanno perso la propria identità, che sono diventati a loro volta delle periferie – perché è la Chiesa che ha dimenticato gli uomini o gli uomini che hanno dimenticato la Chiesa? Una Chiesa che si vergogna di Cristo, una Chiesa che si dimentica di Cristo e che preferisce far difendere tutti i valori etico-morali a suon di leggi, a suon di prescrizioni giuste, col potere, con la polizia, con i gendarmi… E’ questo che noi vogliamo? Per questo, proprio paradossalmente, all’eretico Tolstoj, a questa periferia che è Tolstoj, è dato il compito di difendere il centro, il cuore dell’uomo, e lo difende nei confronti e delle autorità civili e anche della Chiesa precostituita, della Chiesa, in qualche modo, della gerarchia ecclesiastica. Ma… ecco, e queste sono altre caricature che vengono fatte. Questa come vedete è scritta in tedesco: sono gli strali che vescovi, ecc., gli lanciano addosso, la scomunica, e che non fanno né caldo né freddo a Tolstoj. Ma non è tutto qui. Non è che Tolstoj sia un eversore: la Chiesa è comunque la depositaria della verità. Il paradosso è lo stesso paradosso per cui, come Benedetto XVI ha richiamato nel discorso alla Curia romana che ha fatto nel 2005, il paradosso per cui proprio al movimento dell’Illuminismo a un certo punto è stato dato di difendere quello che era un valore, quello che era la luce contenuta nella Chiesa stessa, e per moltissimi cristiani l’incontro con Tolstoj è stata la possibilità di prendere sul serio proprio quel cristianesimo che si era un po’ smarrito, che era diventato formale, e di andare a riscoprire la verità stessa del cristianesimo. Guardate, faccio come un paragone con Leopardi: quando Tolstoj appunto parla dell’infinito, del finito… Vi ricordate come Leopardi per don Giussani è stato una persona, una presenza importantissima, fondamentale? Tanto che quando lui era ragazzino in seminario, c’è stato un periodo che lui dice: “Leggevo tantissimo Leopardi fino addirittura a un po’ trascurare lo studio”, e addirittura dice: “Io non so cosa ne avrebbero pensato i miei superiori, ma addirittura pregavo una poesia di Leopardi come ringraziamento dopo la Comunione”. Ma Leopardi per lui era una personalità inquietante; poi a un certo punto il suo professore (Figini, o Carlo Colombo, adesso non ricordo, uno dei due) gli parla: “Il Verbo si è fatto Carne”, cioè la Bellezza, la Verità, si è fatta Carne, cioè Cristo presente in mezzo a noi. “E allora”, dice don Giussani: “E allora a questo punto Leopardi mi divenne amico, perché era come se io capissi bene di che domanda era quella domanda, di che esigenza era quell’esigenza, proprio perché io avevo incontrato la risposta”. Io penso che per noi Tolstoj può diventare amico proprio perché noi la risposta l’abbiamo incontrata, e per questo per tanti cristiani in Russia Tolstoj è diventato l’occasione proprio per riscoprire quella verità del cristianesimo che poi, paradossalmente, Tolstoj non ha mai incontrato. Questa è sua sorella Maria, la vedete da una parte nella sua giovinezza, e dall’altra suora. Maria non tutti sanno che è un prototipo di Anna Karenina, cioè Tolstoj scrive questo romanzo, romanzo sulla passione fatale tra Anna Karenina e questo giovane Vronskij, ed è impressionante vedere come, in fin dei conti, Anna Karenina lascia per quest’uomo il marito che amava così così, il figlio, che amava, lascia tutto; Vronskij lascia per Anna Karenina la vita brillante di ufficiale, le tante donne che fino a quel momento aveva avuto; ma – ed è Tolstoj che lo racconta – dopo avere, noi diremmo, realizzato il loro sogno, dopo un anno in cui l’amore reciproco era l’unica cosa cui pensavano, quando finalmente soddisfano questo loro desiderio, si guardano in faccia, e Tolstoj dice: “Si guardano in faccia come due complici che avessero ammazzato un uomo”. E qual era il cadavere di quell’uomo, di quella persona che avevano assassinato? “Avevano assassinato il loro amore”. Tolstoj stesso capisce che il vero amore è quello che don Giussani ci ha ricordato tante volte leggendoci la poesia di Ada Negri: c’è questa verginità per cui tu ami l’altro perché c’è, non perché lo possiedi; ami l’altro perché fai un passo indietro e vedi il Mistero che è. “Niente mi basta. L’amore di un altro non mi basta, perché l’anima dell’uomo è fatta per l’infinito”. Ebbene, la sorella fa esattamente questa esperienza: sposata, lascia il marito perché lui la tradiva, ha un altro uomo, ha una figlia illegittima, pensa al suicidio, ma (l’altro finale di Anna Karenina) incontra la fede. E quindi in età adulta, in età matura, dopo avere sistemato i figli, si farà suora, ed è esattamente la persona da cui Tolstoj correrà quando scapperà di casa, come dicevo, a ottantadue anni sulla soglia della morte. Quindi per tante persone Tolstoj è stato proprio la possibilità di un incontro, ma anche per persone come Mihail Novosjolov. Quest’uomo è un martire che è stato canonizzato dalla Chiesa ortodossa russa. Era un suo ragazzo, un suo adepto, era appassionato di Tolstoj, ma a un certo punto si accorge che proprio in nome della grandezza della verità umana di Tolstoj c’è qualcosa che non gli basta; lascia il suo antico maestro e incontra Cristo. Incontra Cristo, e però scriverà un libro in cui parla del fatto che l’unica via per incontrare l’uomo è l’esperienza, proprio un’esperienza che ti dica la verità, la verità proprio come testimonianza, come presenza di Cristo a te stesso. Ecco, per tantissime persone Tolstoj è veramente diventato la possibilità di un incontro con la verità; paradossalmente è stato lui, ateo… no, non lui ateo, lui non cristiano ortodosso, lui così uomo alla ricerca, così diviso, in contraddizione, tra ricerca di Dio e rifiuto del cristianesimo, è diventato un’occasione potente per moltissimi di incontrare la fede. Provate a pensare a quante volte ci viene detto di come il nostro male, il nostro peccato, il mondo scristianizzato che abbiamo intorno, è un’occasione potente, proprio attraverso questa ferita per rinnovare la nostra fede, per incontrare la verità. E dunque, io direi, cercando di rispondere alle domande che sono state fatte: Tolstoj è certamente la mia periferia di uomo moderno, eppure Tolstoj è anche il richiamo, il richiamo al centro che il cuore dell’uomo è. Quando io sono sincero col mio cuore, quando sono vero e autentico col mio cuore, io non posso non incontrare ciò per cui il mio cuore è fatto. E questo è evidente. Volevo farvi vedere l’ultima immagine… Questa è un’immagine dei suoi funerali, Tolstoj non è stato sepolto in terra benedetta, non ha avuto funerali cristiani, perché apparentemente non si è convertito; appunto, quando lui si è sentito male l’hanno raggiunto i suoi seguaci, l’hanno blindato, non hanno lasciato entrare i monaci che volevano andare da lui, non hanno lasciato entrare neanche la moglie, lui è morto solo, e nella prigionia dei suoi carcerieri. Eppure provate a guardare i suoi contadini, la gente che lo circonda, che sono inginocchiati, e vivono effettivamente quella religiosità profonda che Tolstoj ci trasmette.

FRANCESCO BRASCHI:
Grazie a Giovanna Parravicini, perché questa non è soltanto una sintesi o una presentazione della mostra, ma è un invito a intraprendere un cammino personale che si nutre di quello che si potrà vedere alla mostra, ma che poi interpella ciascuno di noi. L’ultima parte di questa presentazione vogliamo viverla insieme con voi, accogliendo uno scritto che ci ha mandato Ol’ga Sedakova. Ol’ga Sedakova è una poetessa vivente russa, probabilmente la più importante, la più conosciuta anche tra noi in Italia. Ol’ga Sedakova ha collaborato a questa mostra. Ricordo tre anni fa le prime conversazioni in cui accennava, nella sua dacia estiva, appunto a quanto Tolstoj ancora fosse da studiare sotto l’aspetto del suo pensiero religioso… Ecco questa poetessa ci ha offerto un messaggio in cui prova a puntualizzare alcuni aspetti del lavoro fatto, da par suo, mi viene da dire. Allora abbiamo il suo testo che è stato tradotto in italiano. Scrive Ol’ga Sedakova:
«I confini del romanzo europeo mi vanno stretti», ammetteva Tolstoj lavorando a Guerra e pace, un’epopea che Thomas Mann definì come l’Iliade e l’Odissea della letteratura russa . In effetti, la vastità e la portata volute da Tolstoj si respirano solo nelle prime e più antiche opere: Omero, i tragici greci, le storie di Abramo e di Giuseppe nel Libro della Genesi, il Rgved, i canti popolari… Là dove la voce del narratore emerge dall’oceano del coro umano, e a questa voce pressoché anonima fa eco l’universo con i suoi fiumi, picchi rocciosi, stelle, uccelli, cavalli… A Tolstoj andava stretto il mondo individuale, il mondo della «cultura» contrapposta alla «natura» nel suo XIX secolo. Ma questa «strettoia» cominciava già molto prima: già Shakespeare gli sembrava angusto e «artificioso». Gli stava stretta ogni forma costituita, ogni ruolo sociale. Gli stava stretto l’essere scrittore, proprietario terriero, pedagogo, predicatore, uomo del suo ceto e del suo tempo. Gli stava stretto ciò che viene considerato «pensiero» (non la mandava a dire agli «intelligenti» e alle «idee intelligenti»), e ciò che viene considerato «sentimento». Gli stava stretta quella che siamo abituati a considerare la «vita solita»: la cosa fondamentale in questa vita, per lui come per i suoi personaggi, non era la trama dell’esistenza come tale (che sentiva e sapeva rendere come nessun altro), ma i suoi strappi, i «fori, attraverso cui faceva capolino qualcosa di più alto». Questi «fori», per Tolstoj, erano la morte e la nascita. Ma anche l’innamoramento, la compassione; la musica e la poesia… I momenti in cui «l’anima si innalzava a una tale altezza che essa non aveva mai compreso prima e dove il ragionamento non riusciva più a starle dietro» (Anna Karenina). Gli stava stretto essere non solo uno «scrittore» o un «pensatore», ma «Lev Tolstoj»! E trovò per sé una via d’uscita da «Lev Tolstoj». Nei Diari egli descrive un modo particolare per rimettere al suo posto il «Lev Tolstoj» che aveva dentro di sé: «Bisogna chiedersi: sono io a volere questo o è Lev Tolstoj? Se è Lev Tolstoj, vada con Dio». Quell’«io», che in lui pronunziava il giudizio su «Lev Tolstoj», era, come lui lo definiva, la «coscienza di tutto il mondo», la «vita di un’anima» che non apparteneva soltanto a lui personalmente, un’anima che faceva parte di una totalità senza misura . Il racconto Padrone e servitore raffigura esattamente questo miracolo, l’uscire dell’uomo dall’«io» che lui e tutti gli altri conoscono, in direzione di un altro e autentico «se stesso». Il protagonista del racconto, il padrone (un personaggio univocamente «negativo», meschino) davanti alla morte improvvisamente si rende conto che la sua anima, la sua vita è la vita del servo che sta congelando, e lo salva proprio perché vuole salvare se stesso. Io invidio chi non ha ancora letto Padrone e servitore: lo attende un’esperienza stupefacente. Il precetto evangelico dell’amare il prossimo, con la precisazione «come se stesso» (su cui di solito non ci soffermiamo), svela qui il suo significato immediato e categorico. Tu non sei il «tu» che ti ritieni e la cui vita, in tutti i suoi particolari, hai tanto a cuore, di cui ti dai tanta pena. Tu sei lui. Tat tvam asi, in sanscrito.
Ancora sulla ristrettezza. Nelle sue memorie su Jasnaja Poljana Maksim Gor’kij dice curiosamente che a Tolstoj Dio stava stretto, come se fossero due orsi nella stessa tana. Il paragone è nello stile di Tolstoj, ma io credo che Gor’kij non avesse capito tutto: a Tolstoj andava stretta la dottrina su Dio. Lui polemizza, e molto duramente, con dogmi e miracoli, ma mi sembra che ciò che più lo disgusti nella vita della Chiesa sia sempre questo senso di ristrettezza. Non ho intenzione di prendere in esame il doloroso tema di Tolstoj e la Chiesa. È un’altra la cosa che mi interessa: ciò che Tolstoj ci svela.
Nella ribellione di Tolstoj contro ogni ristrettezza, contro ogni forma precostituita, ogni schema e convenzionalismo è facile ravvisare la caratteristica anarchia, il nichilismo russo. È facile vedere in essa l’antesignano dei movimenti controculturali contemporanei. Ed effettivamente, se togliamo a questo atteggiamento l’essenziale, otterremo indubbiamente l’anarchia russa, come pure la controcultura e la «decostruzione». Invece l’essenziale consiste nel fatto che in Tolstoj questo movimento non è una fuga nel nulla, non è un gesto di disperazione, ma un movimento verso l’alto, in uno spazio infinito, nella «vita dell’anima» che è governata dalle «leggi dell’amore e della poesia», per usare le sue parole.
Io penso che il primo dono che riceviamo dalla lettura di Lev Tolstoj sia il senso, chiaro come il giorno, della vastità cui tende l’anima umana, tanto che nient’altro è in grado di bastarle. È il fascino di un «io» che noi ancora non conosciamo dentro di noi, ma che attendiamo, consapevolmente o inconsapevolmente. L’anima non si acquieta se non in questa immensità infinita e, contemporaneamente, nella partecipazione alla totalità, al tutto. Tutto il resto ci va stretto.
In particolare, sta stretto ciò che viene chiamato il «nostro tempo». Il fantastico anacronismo di Tolstoj, che parla con gli antichi sapienti della Grecia, dell’India o della Cina come un loro contemporaneo e in un certo senso coetaneo, dona anche al suo lettore la possibilità di liberarsi dal diktat di ciò che viene considerato «contemporaneo» e «attuale». E non è certo poca cosa. Infatti, la paura di non essere al passo con la contemporaneità, con le sue forme e dogmi è una delle forme più gravose della nostra mancanza di libertà. Nell’approccio «antistorico» di Tolstoj a ciò che oggi viene messo tra i «monumenti» o considerato un «retaggio culturale» (che quindi non hanno un riferimento diretto alla nostra vita) è racchiusa una diversa concezione della contemporaneità. Non dell’«atemporalità», ma proprio della contemporaneità. È un’intuizione magnificamente espressa dal poeta Aleksandr Veličanskij, che così risponde alla famigerata «contemporaneità»:

Tu non esisti: l’uomo è contemporaneo solo a Dio:
al Dio sempiterno nell’istante tutte le età son contemporanee.

Le persone solitamente si estromettono da questa contemporaneità. Lev Tolstoj si sentiva contemporaneo di Dio. La sua non era un’idea: era un sentimento.
Lev Tolstoj è l’artista e il pensatore del sentimento. Io definirei l’incontro con il mondo di Tolstoj un’educazione dei sentimenti. In ogni caso, a me è capitato così, dal momento in cui nei primi anni di scuola ho letto la sua novella giovanile Infanzia.
I lettori del Senso religioso di don Giussani sono in grado di capire che cosa intendo. Non mi riferisco a un determinato stato emotivo, come si pensa generalmente usando la parola «sentimento» (tra l’altro, generalmente al plurale). Quei «sentimenti» sono molteplici, mentre il sentimento di cui parlo io è uno solo. È una percezione immediata, libera, assoluta della realtà, che interessa l’uomo nella sua totalità. In questo senso il sentimento non si contrappone all’intelletto e al pensiero (se non al raziocinio astratto). Tolstoj riconosce come pensiero nel pieno senso della parola solo il pensiero che scaturisce dal sentimento, cioè dall’uomo nella sua interezza, dalla sua condizione reale: tutto il resto lo chiama «anticamera dell’intelletto». Il sentimento in questo senso si contrappone all’insensibilità (l’insensibilità ben nota alla tradizione ascetica: così nella preghiera di Giovanni Crisostomo, che fa parte della regola di preghiera quotidiana degli ortodossi, il santo chiede di essere liberato dall’«insensibilità di pietra»). Dalla posizione di insensibilità le cose appaiono in un modo, se guardate attraverso il sentimento – in un altro. Tolstoj raffigura più volte il destarsi del sentimento nei suoi personaggi. Nel racconto La cedola falsa lo scrittore scopre una sorta di meccanismo di trasmissione dell’insensibilità dall’una all’altra persona, una specie di reazione a catena dell’insensibilità – e poi l’opposta reazione a catena del sentimento. Il peccato affonda l’uomo nell’insensibilità, mentre l’incontro con la santità lo guida al sentimento. E il sentimento cambia la sua vita nella maniera più decisiva.
Tolstoj raffigura vastissime sfere della vita sociale come terreno dell’insensibilità legalizzata: la vita mondana, quella politica e spesso quella professionale (militare, scientifica ecc.). L’uomo di Tolstoj si trova di fronte alla prova di dover scegliere tra sentimento e insensibilità, rifiuto del sentimento (perché «si usa così», «tutti fanno così», ecc.). La scelta di vivere «secondo il sentimento» fa paura: quasi fatalmente rende l’uomo un reietto.
Ora parlerò di alcune sfumature o risvolti di questo sentimento generale di Tolstoj. Si potrebbe pensare che si tratti di alcuni singoli sentimenti, molto caratteristici di Tolstoj, ma in realtà è uno solo.
Un primo aspetto è il sentimento immediato e costante di un’immensa totalità che comprende tutto l’universo, nel suo aspetto visibile e invisibile. E si tratta di una totalità in cui misteriosamente ogni cosa è legata a tutto. Di un a totalità a cui anche tu sei intimamente legato, in cui si riverbera non solo ogni tuo gesto, ma anche ogni pensiero, ogni moto interiore. Non esiste nulla di disunito, di insignificante, di vuoto. Dopo Infanzia io di questo ero certa. È l’esperienza della comunione.
Poi, il senso della verità. Il protagonista dei miei racconti è la verità, scriveva il giovane Tolstoj . Il suo senso della verità non conosce compromessi. È un ininterrotto discernimento dell’autentico dal falso (simulato, contraffatto). Questo sentimento in Tolstoj è sottile e affilato come una lama di rasoio. È il discernimento fra ciò che appartiene alla vita e ciò che è morto, falso, artificioso. Nel mondo naturale non esistono contraffazioni, e Tolstoj non cessa di ricordarcelo. La contraffazione si fa presente solo nel mondo umano, nel sociale. Essa è capace di giustificarsi all’infinito con «buone finalità» o la «necessità», la «consuetudine», l’«inevitabilità» («come fare diversamente?»). Tolstoj lascia intendere che si può sempre fare diversamente. Per questo si richiede solo di non cessare di ascoltare la propria voce interiore, la voce della verità.
Poi c’è il sentimento della realtà dell’uomo interiore in noi, che può quasi morire ma poi rinasce. E questo nostro uomo interiore, fra l’altro, è un artista. Ama follemente la musica, la poesia, ogni espressione della bellezza. Quando è vivo, è felice. Conosce la vita come piena verità e come felicità.
Poi viene il sentimento dell’empatia, in cui Tolstoj non ha rivali. Egli conosce dall’interno non solo ciò che prova una donna mentre sta allattando, ma anche quello che prova un cavallo (Cholstomer) e un albero (Tre morti). Al lettore non sorgono dubbi che proprio così pensino le creature prive del dono della parola e che proprio questo esse desiderino comunicare. La percezione dell’altro dall’interno della sua vita, e non solo di un uomo che abbia un’esperienza completamente diversa da quella dell’autore (un ministro dello zar, uno scaltro contadino, una deportata polacca, un asceta, una prostituta di città), ma anche di qualunque cosa al mondo. Da questa percezione empatica del mondo scaturisce il sentimento di una profondissima uguaglianza e parentela con tutti, e il rifiuto categorico della violenza sotto qualsiasi forma. E l’identificazione dell’origine stessa della vita con la pietà, la carità (Di che cosa vivono gli uomini). Gli uomini vivono, dice Tolstoj, non di una bontà «altruista» (egli non si stanca di parodiare ogni comportamento «virtuoso» esteriore), ma, se si vuole, di una bontà egoista. L’uomo si comporta veramente con carità nei confronti dell’altro quando semplicemente non potrebbe fare diversamente, e la sua destra davvero non sa che cosa fa la sinistra.
Senza questi sentimenti «tolstoiani» (e molti altri, che qui non nomino), io credo che sarebbe difficile chiamare cristiana la vita di un uomo.
Ecco dove sta la sfida. Tolstoj, ci diceva Giovanna, non riusciva mai a dire compiutamente il nome di Cristo. Eppure tutte le volte che Tolstoj ha cercato anche coscientemente di trasformare il cristianesimo in un sistema (in un passo del suo Diario lui dice “Io voglio costruire una religione che sia la religione della crescita dell’uomo, che prometta non un paradiso lontano ma la beatitudine su questa terra”). Ci sono momenti della sua vita in cui Tolstoj vuol costruire questo tipo di religione, eppure lui stesso, per quanto magari l’aveva sperato, non riuscirà mai ad accontentarsi nemmeno del sistema che lui stesso aveva costruito. E questo ci mostra un’emergenza della vita per cui è vero che il centro è il cuore, ma è vero anche che il cuore è degno di se stesso quando riconosce che il centro del cuore stesso è qualcosa che è al di fuori di lui. Ecco allora che si esce dalla periferia, da questa circonferenza in cui ogni passo rimane egualmente distante dal centro, quando si ha il coraggio di ritrovare innanzitutto quel centro che in noi parla già dell’Altro (con la A maiuscola), che è il cuore, ma anche quando si accetta di sottomettersi a questa legge del cuore stesso, per cui il cuore riconosce che la sua verità è al di fuori di sé e può solo essere riconosciuta. Questo è il cammino che auguriamo a tutti quanti guarderanno la mostra, questo è quello cui vorremmo invitare anche ciascuno di noi certamente nel vedere la mostra e anche poi facendo tesoro dei testi della mostra, il suo catalogo, le provocazioni che in ciascuno nasceranno, per un cammino dalla propria periferia al centro che è il centro del nostro cuore. Grazie e buona serata.

Data

24 Agosto 2014

Ora

19:00

Edizione

2014

Luogo

eni Caffè Letterario A3
Categoria
Incontri