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SICUREZZA ED EDUCAZIONE NELLE MISSIONI DI PACE
Partecipano: Magg. Giuseppe Amato, Ufficiale dell’Esercito Italiano; CMS. Monica Contrafatto, Ruolo d’Onore dei Bersaglieri; Mario Mauro, Ministro della Difesa; Gen. D. Luciano Portolano, Capo Reparto Operazioni presso il Comando Operativo di vertice Interforze. Introduce Monica Maggioni, Direttore di RaiNews.
SICUREZZA ED EDUCAZIONE NELLE MISSIONI DI PACE
Ore: 11.15 Sala Neri
Partecipano: Magg. Giuseppe Amato, Ufficiale dell’Esercito Italiano; Maria Bashir, Procuratore Capo nella Provincia di Herat, Afghanistan; CMS. Monica Contrafatto, Ruolo d’Onore dei Bersaglieri; Mario Mauro, Ministro della Difesa; Gen. D. Luciano Portolano, Capo Reparto Operazioni presso il Comando Operativo di vertice Interforze. Introduce Monica Maggioni, Direttore di RaiNews.
MONICA MAGGIONI:
Buongiorno, buongiorno a tutti. Una mattina per parlare di Afghanistan, per parlare più in generale delle missioni delle nostre Forze Armate in molti, moltissimi territori. Ormai da trent’anni è una storia che caratterizza l’attività delle nostre forze armate. Oggi vogliamo cercare di capire insieme, in modo più diretto, che cosa vuol dire quel lavoro sul quale tanto spesso si discute, sul quale molti devono decidere senza avere poi troppo chiaro di che cosa si tratta. Quel lavoro che tiene insieme il fatto di essere soldati e il fatto di essere persone, persone con ideali, valori, una propria storia da portare in territori molto lontani dal nostro. Noi, questa mattina, ne parliamo con alcuni dei protagonisti di questi ultimi anni. Le persone che ci sono a questo tavolo hanno una lunga esperienza, un’esperienza intensa, hanno vissuto sulla loro pelle che cosa vuol dire essere uomini delle Forze Armate che lavorano all’estero e che cosa devono fare. Per una volta vorrei veramente farlo raccontare a loro, perché sentirete dai loro racconti quanto è importante, quanto è particolare, quanto è diversa dalla vulgata e da quello che si sente dire normalmente, la loro vita quotidiana, la loro scelta di lavoro e quanto importanti sono le loro ragioni per fare un lavoro tanto complesso. Allora, vi presento le persone che sono al tavolo e poi le andremo immediatamente ad ascoltare: il Maggiore Amato che vedete là in fondo, il Caporalmaggiore scelto Monica Contrafatto, che è qui al mio fianco, il Gen. Luciano Portolano e il Ministro della Difesa che di missioni ne ha vissute forse un po’ meno, ma che ha una responsabilità centrale proprio per capire che cosa andrà ad accadere. Cominciamo prima a sentire chi le missioni le ha vissute per tanti anni sulla sua pelle, chi ha deciso addirittura di raccontarle e di spiegarle. Magg. Amato, lei ha scritto un libro che ha lì accanto, io ormai non ci vedo bene per cui non riesco a vedere fino a lì il titolo. L’eco dei miei passi a Kabul, grazie. Il Magg. Amato è in grado di raccontarci, perché l’ha fatto bene, benissimo in quel libro, che cosa vuol dire essere in una missione come quella afghana, dove è stato, tra l’altro, più volte e quindi ha visto diverse situazioni e diversi momenti dell’ essere in Afghanistan.
GIUSEPPE AMATO:
Prima di cominciare il mio intervento, volevo dire che è la prima volta che partecipo al Meeting di Rimini. Ieri pomeriggio, quando sono arrivato, come ho varcato la soglia del Meeting, mi sono sentito una persona viva, sentivo il mio cuore che pulsava: ecco, la stessa cosa mi accade ogni qualvolta servo il mio Paese, soprattutto in luoghi abbastanza difficili, e poi mi sono sentito accolto, nonostante fosse la prima volta, mi sono sentito uno di voi, come se avessi partecipato al Meeting da tantissimo tempo e per questo ringrazio tutti voi e ringrazio tutti coloro che mi stanno ascoltando oggi, qui. Io comincio il mio intervento, il mio breve intervento con una domanda: “Ha senso che un militare che ha svolto incarichi all’estero in missione di pace condivida pubblicamente le sue emozioni, i suoi stati d’animo, oppure è giusto che li tenga conservati nel suo scrigno, nel suo scrigno più intimo, nel suo scrigno personale?”. Ecco, questa domanda così difficile io l’ho posta a me qualche tempo fa’ e la pongo oggi a voi; la pongo a voi e vi dico che ha senso perché ognuno di noi militari che ha partecipato ad una missione di pace all’estero è tornato a casa cambiato, la vita non è stata più la stessa. Ecco, buongiorno a tutti. Sono Giuseppe Amato, un ufficiale dell’Esercito Italiano; un ufficiale dell’Esercito Italiano che ha avuto l’onore di servire il proprio Paese in diversi teatri operativi, tra cui anche in terra afghana; terra afghana che come dice una leggenda sembra essere una terra abbandonata non solo dagli uomini ma anche da Dio. Partendo dalla mia esperienza personale cercherò di ripercorrere, con episodi che ho vissuto in prima persona o a cui ho assistito, il mio percorso afghano che mi ha visto impegnato diverse volte e che mi ha portato fin qui, al Meeting dell’Amicizia dei Popoli, per raccontare la mia testimonianza. Io di questo ringrazio gli organizzatori del Meeting, ringrazio il Ministro Mario Mauro, ringrazio i miei superiori che mi hanno dato la possibilità e l’onore di condividere con voi queste mie esperienze. Ecco, partendo da quella che è stata la mia esperienza personale, vi dico che ho assistito incredulo al passaggio dal caldo soffocante dell’estate afghana, parliamo di circa 40-45 gradi, al gelo mordente, al gelo afghano dell’inverno, parliamo di temperature all’incirca di meno 30 gradi. Io ho svolto diversi incarichi perché sono stato impegnato in Afghanistan, come dicevo prima, più volte; incarichi di comando: comandavo una compagnia, un plotone e ho svolto incarichi tecnici e ho svolto incarichi che mi hanno visto a contatto diretto con la popolazione del posto, soprattutto nella mia ultima missione in Afghanistan. Ecco, in questa mia ultima missione in Afghanistan lavoravo a stretto contatto con rappresentanti politici, con segretari di Ministri afghani, con rappresentanti di organizzazioni internazionali e lo scopo era quello di trovare dei progetti che potessero risollevare in qualche modo l’Afghanistan dalla situazione permanente di crisi che sta vivendo. Nel mio percorso quotidiano ho incontrato, lo dico con il cuore in mano, per fortuna ho incontrato quelle persone semplici, quelle persone che io definisco “senza titoli”, quelle persone che hanno una ricchezza interiore che ti lascia stupefatto. Al rientro dalla mia ultima missione in Afghanistan, non posso negarlo, ancora oggi, ogni qualvolta resto solo, mi chiedo: Giuseppe ma tu dall’Afghanistan che cosa ti sei portato? Ecco, la risposta a questa domanda io l’ho riassunta in quattro righe che fanno da epilogo a questo libro che ho scritto e che tra l’altro una casa editrice importante ha pubblicato. Le voglio condividere con voi oggi in questa prestigiosa sede: “Io dall’Afghanistan mi sono portato tante cose: le lacrime di un bambino che piange il suo aquilone, l’orma di piedi nudi impressi nella terra, il profumo del pane, un granello di sabbia intriso di sangue, il calvario di Cristo”. Ognuno di noi militari che ha servito il Paese all’estero in una missione di pace è tornato a casa cambiato. La vita come dicevo prima non è stata più la stessa e questo avviene perché quello che un militare vive in questi Paesi, in questi posti martoriati, è solo un granello, una minima parte rispetto a quello che la gente del posto vive, respira e sente da sempre e devo dire che nelle mie tappe afghane il sentimento della paura mi ha accompagnato in modo fedele per tutto il periodo che ho trascorso in Afghanistan. L’indignazione per la povertà, per le ingiustizie, per i soprusi, per le malattie, per la morte, è stata un’indignazione grande. Spesso ero sovrastato da un senso di impotenza per non poter dare di più rispetto a quello che già stavo dando, o non poter fare di più rispetto a quello che già stavo facendo, e i sentimenti che ho provato sono stati molteplici. Si sono alternati vari sentimenti: ho provato angoscia per le sorti di un mio collaboratore afghano, tra l’altro un mio coetaneo, che era stato minacciato dai talebani e che dopo un incontro di lavoro è sparito nel nulla, ne abbiamo perso le tracce; ho provato un dolore straziante per la tragica morte di un bambino di 7 anni che si procurava da vivere, procurava da vivere alla sua famiglia decapitata, vendendo un po’ di tutto in mezzo alla strada. Ogni qual volta io passavo da quella strada vedevo questo bimbo, il più delle volte mi fermavo, mi fermavo anche se non avevo bisogno di niente, semplicemente per comprare qualcosa e strappargli un sorriso. Ho assistito, incredulo, a quello che ho definito “il pianto del cielo”: il pianto del cielo quando abbiamo dato in Afghanistan l’ultimo saluto ai miei commilitoni morti in un attentato, il 17 settembre 2009. Ma non solo questo mi sono portato dall’Afghanistan; dall’Afghanistan, da Kabul, mi sono portato l’entusiasmo di un ragazzo mio coetaneo – disperato perché non aveva un lavoro, non poteva sfamare la sua famiglia – davanti ad un’offerta di lavoro fatta da un rappresentante di un’organizzazione internazionale, perché gli aveva appena proposto un lavoro da interprete. La gioia incontenibile di un ragazzo che ha voluto condividere con me la sua prima esperienza di voto: mi ha raccontato tutto, come era andata e ringraziava il contingente internazionale per avere reso possibile questa cornice di sicurezza e permettere quindi alla gente di poter votare liberamente. Mi sono portato dall’Afghanistan il sorriso genuino che ti regalavano questi bambini ogni qualvolta gli porgevi una bottiglietta d’acqua oppure gli allungavi una penna ad inchiostro; addirittura una volta abbiamo comprato un aquilone nuovo ad un bambino. Ecco, mi sono portato ancora l’incontro con i saggi dei villaggi, i cosiddetti malek. Mi sono portato dall’Afghanistan il rito del tè, ad ogni occasione di incontro formale od informale: questo senso dell’accoglienza, questo senso di apertura verso lo straniero. Mi sentivo quasi a casa quando ero a piedi nudi su questi tappeti, seduti a cerchio e prendevamo questo tè. Mi sono portato dall’Afghanistan il piacere di impastare, cuocere e condividere il panjakask – il panjakask è il tipico pane afghano – in compagnia di cinque fornai che avevo appena conosciuto a Kabul e che hanno voluto che io condividessi con loro questo rito. Abbiamo impastato insieme questo pane, l’abbiamo cotto e poi io stavo per uscire dal forno e mi hanno detto: “No, dove vai? L’abbiamo fatto insieme e lo mangiamo insieme”. La cosa – al solo pensiero mi fa rabbrividire – un’altra cosa importante che mi sono portato dall’Afghanistan è il volto di un bambino, le parole di un bambino che ho incontrato per caso in un ospedale. Questo bambino era seduto su una sedia a rotelle ed aveva sulle gambe una coperta, una coperta che non nascondeva le gambe ma nascondeva due pezzettini. Ecco, questo bambino di nome Fazel era saltato su una mina e aveva perso entrambe le gambe; allora io per rompere il ghiaccio gli ho offerto delle gomme da masticare e lui si è aperto e ha cominciato a parlare e mi ha detto che era il più veloce del villaggio, che per acchiapparlo c’era bisogno di tre bambini perché uno da solo non bastava; ma adesso era sicuro che grazie alle cure di noi militari, grazie a queste medicine degli occidentali, gli sarebbero cresciute delle gambe ancora più forti e robuste per cui sarebbe diventato imprendibile. Ecco, tutto questo mi sono portato dall’Afghanistan, mi sono portato questo e tanto altro. È difficile poter dire in un solo incontro quello che ci si porta dall’incontro con queste culture, con questi popoli che hanno semplicemente la sfortuna di nascere e vivere sotto una stella diversa da quella in cui viviamo noi. Tornando alla domanda iniziale, cioè se sia opportuno che un militare che vive queste esperienze debba condividerle, la mia risposta è sì; e, vi dico anche perché sono giunto a questa conclusione: io sono una persona abbastanza riservata, poi essendo militare la riservatezza acquista una valenza ancora più elevata e devo dire che al mio rientro dalla mia ultima missione mia moglie, che ringrazio (è seduta qui in prima fila), ha scoperto per caso un mio diario segreto. Io, ogni qualvolta rientravo in base, appuntavo tutto quello che avevo vissuto, che avevo visto, perché avevo quasi paura di dimenticare. Al rientro da questa mia missione, mia moglie ha scoperto questo mio diario, questi miei appunti e li ha voluti leggere e poi alla fine mi ha chiesto di renderli pubblici. Io non ero d’accordo; non ero d’accordo perché in questo diario veniva fuori l’aspetto umano, veniva fuori il Giuseppe uomo, non il Giuseppe militare, e per un militare scoprire la parte umana crea imbarazzo. Ma poi tutti sappiamo che le donne quando si mettono in testa qualcosa, l’obiettivo lo raggiungono, quindi questo mio diario non solo l’ho reso pubblico ma addirittura è diventato un libro, L’eco dei miei passi a Kabul, che è stato pubblicato anche da una casa editrice importante. Questo è stato per me l’inizio di un’avventura che io non mi aspettavo, perché dal momento in cui è uscito il libro, tutti i fine settimana vengo invitato da organizzazioni a parlare di Afghanistan, da proloco, da assessorati alla cultura, ma soprattutto da scuole, da scuole dove questi ragazzi hanno bisogno di sentire parlare di Afghanistan, di sentire parlare di questo popolo così lontano ma così vicino, di sentir parlare di quello che fanno i militari, non dal punto di vista tecnico, quello che i militari sentono, quello che i militari portano a questi popoli e poi quello che i militari riportano in Italia. Bene, questa condivisione è una cosa bellissima. Una cosa bellissima principalmente per tre motivi. Il primo motivo: perché ci aiuta a dare rilievo al lavoro di noi soldati, al sentimento di umanità, ai valori che noi italiani portiamo ovunque nel mondo; e soprattutto molte volte riscatta quell’immagine cruenta, crudele del mondo afghano che solo per certi aspetti è primitiva, mentre nasconde dei valori molto profondi. Condividere queste esperienze ci riguarda come italiani, perché è proprio in questi teatri impegnativi che viene fuori il carattere, le doti del soldato italiano. Il soldato italiano chi è? E’ quell’uomo che è pronto a servire la patria senza se e senza ma, è quell’uomo che ha permesso a livello internazionale di coniare un termine, un termine di cui sono sicuro che ognuno di noi è orgoglioso, orgoglioso in quanto italiano; e il termine è il “metodo italiano”. Cos’è questo “metodo italiano”? Il metodo italiano è il cuore, è l’essenza della cultura e delle tradizioni che noi italiani in maniera esclusiva riusciamo ad esportare e far apprezzare ovunque, è quel senso, il metodo italiano, è quel senso umanamente cristiano della vita che ci permette di godere dell’appoggio, dell’amicizia, dell’affetto di popoli stranieri, anche quando nelle loro terre siamo costretti a girare con mezzi blindati, con un elmetto in testa, con un giubbotto antiproiettile, con un fucile in mano. È questo “il metodo italiano”. E’ difficile spiegare cos’è “il metodo italiano”, ma “il metodo italiano” è qualcosa che ognuno di noi si porta dentro, che è nel proprio DNA. “Il metodo italiano” ce lo abbiamo noi in quanto italiani, figli di una cultura. E’ importante questa condivisione, perché queste esperienze ci riguardano come uomini. Il contatto con questi popoli, con questi popoli semplici, straziati da guerre, lacerati, ci riporta un po’ con i piedi a terra, a scoprire la semplicità, la genuinità, e soprattutto ci riporta il senso umano del vivere che molte volte è anni luce lontano da quello che viviamo noi occidentali. E se oggi ne parliamo qui è perché una persona illuminata, presente qui, ha pensato che l’esperienza di noi militari all’estero potesse costituire una risposta all’emergenza dell’uomo occidentale, alla sua mancanza di slancio ideale, alla sua indifferenza rispetto a quello che non brilla o che non fa tendenza. Quali sono i valori per cui un militare imposta la sua vita 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno? L’obbedienza, la lealtà, lo spirito di sacrificio, la fedeltà, la disciplina, la continua formazione, la cura del corpo, la resistenza psicologica nelle situazioni di stress e di grande pericolo, l’empatia, la vicinanza nei confronti di chi è diverso, di chi è debole, la vicinanza nei confronti di chi soffre. Il valore più bello sapete qual è? È quello che noi militari chiamiamo “spirito di corpo”. Cos’è questo “spirito di corpo”? Una cosa difficile da spiegare, ma cercherò con due parole di trasmettervela: tra due persone che si vogliono bene, tra marito e moglie, il legame è chiamato amore, tra persone che si stimano e che si rispettano c’è legame chiamato amicizia, tra noi militari c’è un legame chiamato “spirito di corpo”. Lo spirito di corpo è quell’energia che ci permette di essere uno per tutti, tutti per uno, è quel senso di responsabilità che ci accompagna per sempre e che ci porta anche a mettere in pericolo la nostra vita se sappiamo che la nostra vita può servire al nostro collega. Lo spirito di corpo è quello che ci rende una famiglia; una famiglia soprattutto quando si condividono dei valori, si condividono degli obiettivi lontano da casa, lontano, quando sai che l’unica persona su cui puoi fare affidamento, l’unica persona con cui tu ti puoi confidare, puoi condividere ogni cosa è il tuo commilitone, la tua squadra, il tuo team. Ecco, secondo me è proprio questo “spirito di corpo” che potrebbe essere un esempio di rinascita etica in una società dove l’individualismo impera e sembra quasi una legge quotidiana. Tutti questi valori, che ho appena descritto, vengono condivisi con una abnegazione che non ha eguali da tutti i familiari che ci aspettano in patria, dalle nostre mogli, dai nostri ragazzi, dai nostri figli, ma da tutti noi italiani, perché io sono convinto che ognuno di noi è orgoglioso quando vede che noi soldati serviamo il nostro Paese, che aiutiamo il nostro Paese a mantenere fede a quegli impegni internazionali che ha preso; e molte volte, pur di mantenere fede ad un giuramento che noi abbiamo prestato, ritorniamo avvolti, molti dei miei colleghi sono ritornati avvolti, in un tricolore. Concludo questo mio intervento citando una frase che è scolpita sulla prima colonna di marmo all’ingresso dell’Accademia Militare di Modena, e penso che questa frase possa riassumere il senso più profondo di quella che è la vita di un militare ed il significato di questa frase, almeno per quello che mi riguarda, assume un significato sempre più vero, più profondo, più mio ogni qualvolta la Patria mi chiede di servirla in posti lontani, in posti ai margini del mondo. La frase recita: “Divorare lacrime in silenzio, donare sangue e vita, è questa la nostra legge, è in questa legge Dio”. Grazie.
MONICA MAGGIONI:
Grazie davvero Maggiore. Credo che questo applauso voglia dire molto di più di quanto si possa esprimere con le parole. Lei, oltre ad averci fatto questo racconto appassionato di chi è lì, di chi condivide la vita quotidiana delle persone, di chi ha dentro di sé questa dialettica, in qualche misura, di sentirsi un militare che è lì a fare il suo dovere, ci ha ricordato due passaggi che sono chiave anche per inquadrare quello che stiamo raccontando, che stiamo dicendo oggi: uno è il rapporto non tanto con l’Afghanistan quanto con gli italiani. Il maggiore dice: “Quando torno e le persone mi sentono raccontare una storia, capiscono finalmente che cosa sono lì a fare”, e questo è un modo chiave. Noi troppo spesso raccontiamo queste missioni con un titolo, con un codice: “missione Afghanistan”. Ma ecco, dietro a quel titolo c’è la storia di migliaia di persone che tutti i giorni vivono quello che vive il maggiore; perché vedete, la cosa straordinaria è che quando uno legge un libro di un grande reportage di guerra, è spesso la storia di una persona che va a fare una cosa. Quello che il Maggiore ha espresso con tutta la sua passione, è in realtà, magari con altre parole, con altri termini, in altri luoghi o in altre situazioni, un’esperienza condivisa da centinaia e migliaia di persone. Questo è l’elemento chiave che noi a casa, che chi è dall’altra parte spesso non vede. E poi il Maggiore ci ha parlato giustamente di quell’essere militare in modo italiano, su cui poi torneremo magari con il Generale Portolano. Io ricordo che nel 2009 vi è stato uno dei momenti di passaggio più difficili per l’Afghanistan, quando i marines stavano riconquistando tutto il pezzo afghano al confine col Pakistan e a un certo punto al Generale McChrystal, che prese il comando, venne chiesto di costruire in poche settimane una sorta di dottrina del come operare in quel momento lì. Io lo incontrai perché ero lì in quel momento e dopo una lunga spiegazione che mi dette su cosa conteneva la sua dottrina, iniziò a elencarmi: l’essere militari, il venir qui a riportare l’ordine ma contemporaneamente capire il luogo, le persone, i codici delle persone che si hanno di fronte. E io gli dissi: “Bèh, Generale, alla fine è il modo italiano di fare le cose”; e lui mi disse: “Sì, sì ecco: proprio come il modo italiano di fare le cose”. È vero che ormai è passata questa idea. E allora nel modo italiano di fare le cosa poi ci sono le storie personali. E proprio perché ho visto tante volte dall’altra parte dell’Oceano, in America, come vengono trattate e con quale rispetto le persone che perché erano in missione hanno pagato di persona, con pezzi della propria vita, con il cambiamento della propria esistenza, quanto vengono rispettati dall’altra parte del mondo, è per questo che mi fa ancora più piacere stamattina avere qui il Caporalmaggiore scelto Monica Contrafatto, che è andata in Afghanistan perché voleva andarci, perché ci credeva, perché è un militare e che il 24 marzo del 2012 era in Gulistan. Il Gulistan è un posto lontanissimo, da qua sembra anni luce, è una specie di conca tra le montagne; peccato che intorno a quelle montagne ci sia uno dei passaggi chiavi del traffico d’oppio, al quale si mischiano anche i giri dei talebani e il fatto che i nostri militari fossero lì in mezzo dava particolarmente fastidio, tanto fastidio da provocare questo incidente molto serio in cui è stata coinvolta anche Monica, che, nonostante tutto questo, continua a dire che l’Afghanistan è un gran posto e che valeva la pena esserci, vero?
MONICA CONTRAFATTO:
Sì, è vero. Io adoro quel posto. Innanzitutto buongiorno a tutti. Io non sono una brava relatrice, non ho mai partecipato a un Meeting, figuriamoci al Meeting di Rimini. Non sono una brava relatrice, e sono proprio emozionata, anzi perdonatemi se tremo. Per evitare che mi scordi quello che devo dire, mi sono scritta quello che devo dire, quindi se non vi guardo in faccia non voglio mancare di rispetto a nessuno, ma sono proprio emozionatissima. Per questo ringrazio chi mi ha permesso di venir qui e ringrazio veramente di cuore per questa bellissima esperienza. Comunque mi presento: sono il Caporalmaggiore scelto Contrafatto Monica, ho 32 anni, e vengo dalla Sicilia; io la chiamo l’Afghanistan dell’Italia, non me ne vogliano i miei corregionali. Vengo da Gela e mi sono arruolata nel 2006. Quando ero piccola è nato il mio amore per l’esercito. Mi ricordo, ero piccola, quando vennero i Vespri siciliani in Sicilia, a casa mia; vidi quel Fez – io sono un bersagliere – vidi quel Fez e me ne innamorai e dissi: “Spero che quando diventerò grande usca una legge affinché io possa far parte dell’esercito e io possa aiutare la mia Patria”. Io ho soltanto sette anni di servizio, quindi grandissime esperienze all’estero non ne ho, ho soltanto due esperienze in Afghanistan, diciamo una e un mese, perché l’altro mese m’hanno tagliato le gambe nel vero senso della parola, non soltanto nel senso metaforico. La prima missione in Afghanistan fu nel 2009, a Shindand e dopo intense preparazioni, estenuanti preparazioni, finalmente potei andare in quel posto a me sconosciuto, di cui tanto mi avevano parlato ma che, essendo molto come San Tommaso, “se non vedo non credo”, non credevo fosse realmente così. Ero contentissima, finalmente potevo mettere in pratica ciò che mi avevano insegnato, finalmente potevo mettere in atto il mio sogno, quello di conoscere nuove realtà e di aiutare una popolazione a me sconosciutissima e dove la povertà e la fame sono il motivo principale. Comunque volevo conoscere aiutare e dare il mio apporto ad una popolazione distrutta da decenni di guerre e fame. È difficile trovare le parole per descrivere quello che ho provato. Vi dico soltanto che poco fa ho visto sul monitor il video di dove ho lasciato parte della mia vita, parte del mio cuore: ho visto la base dove stavo in Gulistan. In effetti preferirei in questo momento essere là: mi troverei più a mio agio là che stare qua con voi a parlare, a farvi capire cosa si prova a star là. E’ difficile trovare le parole per descrivere la mia esperienza, ma nella mente mi ritornano tanti momenti, come per esempio la prima vola che sono scesa dall’aereo e vidi attorno a me soltanto sabbia, tantissima sabbia e delle montagne, e dissi: “No, è impossibile, impossibile che quello che veramente mi avevano detto, esista veramente”, perché pensavo mi stessero “prendendo in giro”, no? Poi la prima notte è stata incantata per me: il cielo, non so se qualcuno se lo possa immaginare, veramente sembrava una fiaba, le stelle sembrava ce le avessi sul muso, attaccate al muso, la luna sembrava che t’abbracciasse. Era una cosa assurda. Mi ricordo quando eravamo di guardia e la mattina sentivamo, alle prime luci del sole, la popolazione che si svegliava presto e cominciava a cantare la propria preghiera. Soprattutto le prime volte sentivo dei brividi assurdi. Mi ricordo la mia prima uscita, dove la paura e la voglia di conoscere era così tanta che non mi rendevo conto di dov’ero; poi ho conosciuto un mondo, una popolazione così vasta e vogliosa di conoscerci. Grazie alla mia prima missione, mi sono innamorata di quel posto. Giuro, mi sono proprio innamorata di quel posto: non vedevo l’ora di tornarci. Mi sono innamorata degli occhi dei bambini, dell’iperattività dei bambini, di quello che facevano con una pietra: riuscivano a rompere, sbattendole insieme, le pietre esattamente a metà; un ragazzino che ha provato ad insegnarmelo e gli ho detto: “No no, vado meglio coi videogiochi – ho pensato – almeno sono più capace”. Poi mi ricordo i nostri primi aiuti umanitari, mi ricordo le prime volte che abbiamo fatto aiuti umanitari portando vestiti, da mangiare, portando assistenza sanitaria; vedendo negli occhi degli uomini e dei bambini la loro gratitudine, mi è rimasta nel cuore ed è il motivo per cui continuerei a tornare là. Anche il mio italiano si fa desiderare, scusate. Poi sono dovuta rientrare, sono rientrata dopo sei mesi e poi dopo intensi addestramenti sono ripartita per il Gulistan, che sarebbe la parte che hanno fatto vedere poco fa nel video. Lì ero contentissima. Quando vai là sei cosciente che ti può succedere qualcosa, però al momento non ci pensi perché tu vivi la tua vita. Forse la gente che ti aspetta a casa è più cosciente dei rischi, dei pericoli, però lì tu vai per fare del bene, per cercare di costruire qualcosa, di lasciare qualcosa di te, in modo tale che le generazioni future possano avere qualcosa in più di quello che hanno. Infatti sono state costruite molte scuole, molti ponti, molti pozzi, e gran parte di loro ci ha pure aiutato a non avere degli attacchi dai talebani: ecco perché penso che la gran parte della popolazione sia a favore nostro e non contro di noi. Comunque sono andata là e dopo un mesetto sono dovuta rientrare perché abbiamo avuto un attacco dove è morto il mio collega e dove un altro mio collega è stato ferito. Io tra le tante cose c’ho perso una gamba ma non la voglia di fare. Io dico sempre che a me non m’hanno tolto la gamba: m’hanno tolto quello che mi piaceva fare fondamentalmente, perché a me piaceva tanto stare in quei posti. Forse uno dirà: “Là non ci sta niente, là era soltanto terra e polvere”. Dormivamo pochissimo non stavamo negli hotel, nei grand hotel: stavamo nelle tende. Però io preferivo stare in quelle tende, svegliarmi presto la mattina o dormire poco, ma sentirmi utile per loro, perché io sono un militare e mi sento militare, e spero che un giorno potrò ritornare a fare quello che facevo prima. Sto parlando col cuore, non sto parlando con la testa e magari quando finirò non mi ricorderò neanche di quello che ho detto. Spero di non avere detto qualche cavolata e spero che non vi stia annoiando. Io ritornerei là perché questa esperienze formano il carattere e ti riempiono l’anima. Il carattere te lo formano perché vivi in condizioni pessime, ma belle, perché non hai tutti i comfort, perché nell’ultima missione in Gulistan non avevamo la comodità di avere il cellulare, non avevamo internet o perlomeno ce l’avevamo, però, quando ci connettevamo tutti, la rete era quella che era e fondamentalmente potevi parlare pochissimo con le tue persone care. Però io non mi rendevo neanche conto che parlavo poco, anche perché a volte non li chiamavo apposta, infatti mia mamma si indispettiva. Comunque ti riempiono il cuore, riuscendo a farti comprendere come da una parte siamo fortunati ad avere tutto, ma dall’altra parte ci accorgiamo che col tutto che abbiamo fondamentalmente non abbiamo niente, perché loro con quel poco che hanno, anche se in maniera molto forzata, riescono invece ad avere tutto. Io faccio sempre l’esempio dei nostri bambini. Io conosco dei bambini che hanno tutto, i loro genitori hanno tutto e non sono mai contenti; loro, là, con quel poco che hanno, gli dai una bottiglietta d’acqua, magari gli dai una merendina, loro ti ringraziano, ti abbracciano, vedi nei loro occhi la felicità. Questa è la cosa che mi ha riempito il cuore, è la cosa per la quale io tornerei subito: per loro tornerei subito. Quindi in realtà non so spiegarvi con chiarezza cosa mi spinga, cosa ci spinga, cosa a me mi ha spinto e cosa si prova a stare lì. Posso solo dirvi che è faticoso, ma dare il proprio cuore per qualcuno che fondamentalmente non ha completamente nulla e vedere di essere rispettato e ricambiato con amore, è la cosa più bella che mi sia mai capitata. Spero un giorno di poterci ritornare, lo spero con il cuore. Scusate, scusate l’emozione, perdonatemi.
MONICA MAGGIONI:
Non so come dirti che non solo non ti devi scusare ma che credo tu abbia fatto a tutte le persone che ti hanno ascoltato questa mattina un grande regalo, perché non c’è un regalo più grande che poter vedere con gli occhi di qualcun’altro un posto che non si è mai visto. Tu oggi, come i grandi raccontatori delle grandi storie, sei riuscita a farci vedere e sei riuscita a fare vedere anche a chi non l’ha mai visto un posto, una storia e una situazione che spesso viene raccontata in un modo molto diverso. Grazie. Generale Portolano, eccoci qui, allora Afghanistan ma prima ancora Iraq: moltissimi luoghi, moltissime situazioni, moltissime missioni. Qui dobbiamo forse fare un po’ sintesi tra le cose che abbiamo sentito fin qui, perché poi i militari sono lì con un compito molto preciso e contemporaneamente operano secondo le regole, gli schemi e le sensazioni che abbiamo appena sentito raccontare.
LUCIANO PORTOLANO:
Grazie dottoressa Maggioni. Innanzitutto vorrei ringraziare l’organizzazione e il signor Ministro per avermi dato l’opportunità di partecipare a un meeting così importante in termini di partecipazione. Anch’io come gli altri non sono un’oratore: sono abituato a parlare a dei soldati essenzialmente, ma per me è un grande onore oggi essere qua, in un Meeting anche carico di contenuti, contenuti importanti. Consentitemi, prima di presentare a voi quella che è stata un po’ la mia esperienza in Afghanistan, e non solo in Afghanistan ma anche nelle altre operazioni a cui ho partecipato – vi assicuro che sono tante -, di ringraziare Monica, Monica Contrafatto. Monica Contrafatto è una persona a cui sono particolarmente legato; dico persona oltre che militare. Le sono particolarmente legato, perché nel periodo in cui lei è stata vittima di un attacco proditorio da parte dell’insorgenza locale, da parte dei talebani, io ero il comandante di tutto il contingente italiano e del contingente internazionale che operava nell’area ovest, quindi ho vissuto in maniera drammatica le vicende di Monica – non solo di Monica, anche purtroppo del nostro sottufficiale che in quella situazione è deceduto e dell’altro sottufficiale che al momento si trova ricoverato a gravi condizioni -. Ricordo con grande affetto, con grande simpatia e direi con grande commozione tutti i miei soldati, i miei soldati che hanno agito con me nelle varie missioni, in Iran, Iraq, Kuwait, Macedonia, Kosovo, dal primo Iraq dove ci siamo incontrati con la dottoressa Maggioni e di nuovo all’ Afghanistan; i soldati, i marinai, perché io ho avuto l’onore di avere come collaboratori alle mie dipendenze, nella stessa area in cui Monica è stata gravemente ferita, tutto il reggimento San Marco della Marina. Per me è stato veramente un onore, un piacere e un grande stimolo lavorare con tutti questi uomini in divisa, appartenenti a tutte le Forze Armate. Per quanto riguarda la mia esperienza, la recente esperienza in Afghanistan ha rappresentato per me una missione insidiosa rispetto alle altre ed impegnativa, ma svolta, come tutte le altre missioni, per contribuire alla ricostruzione di un popolo che oggi, proprio oggi, si avvia ad una maggiore stabilità e sicurezza. L’Afghanistan è una terra che avevo imparato a conoscere attraverso i libri di scuola: scuola media, scuola superiore e poi in seguito ad approfondimenti. Eppure in un periodo particolarmente difficile, oggi l’Afghanistan è diventato per me un luogo di incontro e di incoraggiamento reciproco tra noi, militari italiani, tra i militari degli altri Paesi, forse la coalizione – ricordo che sono stato il Comandante italiano ma sono stato anche il Comandante di un contingente multinazionale – un luogo di incontro con le forze di sicurezza, le autorità governative afghane. Un luogo d’incontro in quello che è il cosiddetto “comprehensive approach”, tipico delle missioni internazionali di pace: un approccio omnicomprensivo con i rappresentanti non in uniforme delle organizzazioni governative e non governative, che con noi hanno operato per garantire la sicurezza, ristabilire la sicurezza e successivamente il funzionamento socioeconomico del Paese, ma soprattutto con il popolo di quel Paese, che abbiamo imparato tutti quanti a rispettare e a conoscere, lavorando, come ci dicevano loro, “spalla a spalla”, un termine molto utilizzato ogni volta che gli afghani lavorano con noi italiani. Un popolo e una terra alla quale da soldato e da uomo, entità che sono inscindibili in chi, come me, indossa una divisa, mi sento oggi ancora più legato, una terra alla quale mi sento particolarmente vicino, soprattutto perché ha accolto l’ultimo respiro di cinquantatre soldati italiani, cinquantatre uomini italiani. Ricordavo i caduti, ma vorrei ricordare anche i numerosissimi feriti che hanno lasciato il loro sangue, tra cui la nostra carissima Monica: uomini e donne che non hanno esitato a rischiare la vita nel compimento del loro dovere. È doveroso tributare la nostra perenne riconoscenza a questi uomini e donne. Nella mia esperienza di soldato in Afghanistan ho dovuto fronteggiare numerose situazioni particolarmente difficili, particolarmente complesse; trovare delle soluzioni o prendere delle decisioni immediate per la risoluzione di circostanze non facili, anche situazioni di combattimento. Ricordo le numerose operazioni condotte insieme agli uomini delle allora nascenti forze di sicurezza afghane contro coloro che venivano definiti e che sono definiti i nemici della pace, i nemici della stabilità, contro coloro che la stessa popolazione non esitava a chiamare nemici degli afghani; e questo per contribuire a un ambiente sicuro, necessario per l’avvio di quella risoluzione, di quello sviluppo socioeconomico in quel Paese in generale ed in particolare nell’area in cui noi italiani eravamo impegnati e avevamo la responsabilità, ossia nell’area occidentale. Ma queste situazioni di combattimento, queste situazioni particolarmente critiche, fanno emergere un altro aspetto, fanno emergere qualcosa che è una forza interiore, una forza interiore che fa emergere veramente la natura umana del soldato. Io questa forza interiore l’ho individuata nella fede, nella fede in Dio per chi come me è credente, ma nella fede nelle proprie capacità, nei propri commilitoni, nei propri cari, nella fede in chi contribuisce a far compiere dei piccoli gesti, nella convinzione di dover contribuire al soddisfacimento delle esigenze primarie della gente di quel luogo, nella fede nelle condizioni di sicurezza, tenuto conto che queste condizioni costituiscono il fondamento per l’avvio di tutte le attività necessarie per lo sviluppo di un’area di crisi. Il lato umano del soldato e di comandante mi ha sempre spinto ad instaurare un rapporto con le persone del luogo con cui potermi confrontare, a cui chiedere, a cui domandare, con cui dialogare ed imparare; un approccio che non è solo il mio, ma un approccio che potremmo riferire al cosiddetto “metodo italiano”, che rientra un po’ nella formazione, nell’educazione, nell’italianità dei nostri soldati, dei nostri marinai, dei nostri allievi, dei nostri carabinieri che sono impegnati in operazioni appartenenti alle nostre Forze Armate. In Afghanistan, così come in tutte le altre operazioni che attualmente svolgiamo fuori area, si è lavorato e si lavora tanto per stabilire il dialogo, strumento fondamentale per chi come noi nelle missioni di pace e nelle missioni internazionali lavora per la stabilità, per una società dove tutti possano vivere rispettando la libertà dell’altro. Il dialogo, un elemento essenziale per far diminuire la discriminazione e fare convivere la diversità, anche se – ad onor del vero – in quella parte del mondo, dove regnano e convivono l’estremismo, il fanatismo, il terrorismo e la violenza, tale approccio non sempre è stato facile. Esperienze personali, bene. Il Maggiore diceva che è opportuno, quasi necessario, che ognuno di noi esprima e racconti le proprie esperienze personali. Io vi dirò che per quanto attiene alle mie esperienze difficilmente riesco ad esprimerle; prima cosa per carattere, ma seconda cosa perché difficilmente riesco a trovare le parole adatte a descrivere l’emozione personale del contatto con gli abitanti di quei luoghi e, riferito all’ Afghanistan, al contatto con i Pashtun, con i Tajiki, con gli Uzbeki, con gli Armeni, siano essi stati rappresentanti della governance o delle forze di sicurezza, siano essi stati leaders religiosi con cui abbiamo risolto, grazie al dialogo, enormi problemi legati all’atteggiamento disumano di alcuni non appartenenti a Forze Armate, non appartenenti ad uno Stato, non appartenenti ad un’entità, i quali avevano compiuto dei gesti inconsulti nei confronti dei simboli della religione islamica. Ma anche con i rapporti con contadini, anziani, bambini, giovanissimi studenti – che abbiamo visto nelle immagini sorridenti -, studenti e studentesse, molti dei quali per la prima volta avevano occasione di ricevere un’educazione scolastica. Ma sono in me vivissime, e questo riesco ad esprimerlo, le immagini dell’apparente rassegnazione di quella gente: facce di adulti già logori, duramente provati da periodi di guerra, costanti tormenti, incessanti malattie e miserie, nei quali però si vede la grinta e la tenacia di chi non vuole fermarsi di fronte a nulla. E vivissimo è il ricordo della compostezza degli anziani che ho incontrato ad Herat, che ho incontrato a Kalenau, a Farah, a Chaghcharan, nei numerosi villaggi incastonati sulle montagne, negli altipiani, nelle valli, dall’area del Mirkan alla Zerkoh Valley, dal Khaki Safed a Bagua al Gulistan. Incontri volti ad una conoscenza reciproca ma soprattutto a soddisfare le necessità primarie, le esigenze primarie e, una volta soddisfatte queste, a realizzare opere semplici, di immediata fattibilità da parte della popolazione locale: un pozzo, un ponte che colleghi due città, una strada, una rete fognaria. Sono opere semplici ma che davano tanto. A queste si aggiungevano opere più complesse, quali la realizzazione di infrastrutture, di strutture sanitarie, opere per l’agricoltura – basti pensare che la realizzazione di un pozzo e di un’opera di irrigazione ha spesso generato un aumento della produttività locale di oltre il 30%. Devo anche in questo caso però ammettere che per alcuni locali la nostra presenza non è stata gradita, almeno nella fase iniziale; per altri non lo è ancora oggi, ma il dialogo, a cui facevo riferimento prima, a volte fa comprendere che il nostro è, che le nostre attività vogliono essere un aiuto a costruire un ambiente sicuro, un ambiente stabile e più prospero per il futuro. Il pieno e il totale rispetto delle peculiarità sociali, religiose e culturali delle comunità del luogo, associato al soddisfacimento reale, vero, non a parole, ha spesso donato a quella gente uno spiraglio di fiducia, di vigore verso il cambiamento. Un esempio posso farlo: inizialmente nessuno si sognava di avvisare il contingente italiano e il contingente internazionale che, lungo una determinata strada, lungo un determinato itinerario erano stati collocati degli ordigni esplosivi improvvisati, molti dei quali spesso, anzi spessissimo, hanno causato il decesso o il ferimento di nostri. A seguito del dialogo, di frequente ricevevo gli anziani dei villaggi, che mi avvisavano che in una certa località era presente un ordigno, un ordigno esplosivo improvvisato, una minaccia. Questo vuol dire che il cuore della popolazione locale si apriva e quindi la nostra operazione non era, come dicono gli anglosassoni, un “to win the heart and mind”, che non era un vincere i cuori e le menti. Dal mio punto di vista, noi dovevamo conquistare i cuori e le menti, ricevere spontaneamente il cuore della popolazione locale. E io dico che con l’approccio italiano spesso siamo riusciti a realizzare questo. A questo lato della medaglia, a questa faccia della medaglia dell’ Afghanistan, caratterizzata da occhi che trasudano spossatezza e fatica di una vita vissuta tante volte in situazioni difficili, in condizioni estreme, si contrappone l’altro lato della medaglia, l’altro lato della vita, a cui hanno fatto riferimento il Maggiore Amato e Monica Contrafatto: il volto di innumerevoli ed incontenibili bambini, che, con faccine spesso, anzi direi perennemente, sporche di fango, esprimono una vastissima gamma di forti emozioni. In particolare, vorrei condividere con voi un’esperienza che ho vissuto durante una mia visita all’ospedale da campo italiano per incontrare i nostri militari feriti e i militari afghani e il personale afghano civile che si trovava ricoverato in quel posto. In quell’occasione, ricordo era prima di Natale, in quell’occasione vidi un piccolo afghano, non aveva più di sei anni, era disteso su una barella, sembrava triste, aveva un volto molto triste, mi sono avvicinato ed è stato spontaneo fargli una carezza. Quel bambino ha sollevato gli occhi, aprendosi in un sorriso di indimenticabile, sconfinata bellezza. Non saprei descriverlo altrimenti. In quel sorriso, nei visi di quei bambini, nel viso – posso dirlo signor Ministro? – di una piccola afghana che oggi si trova qua con noi, Kahlifa, che è stata portata in Italia per delle cure, accolta da un rappresentante di organizzazioni non governative che spesso frequentano l’Afghanistan, ecco, dicevo, nel volto di questi bambini vi è il futuro. Questi bambini sono il futuro, così come lo sono i nostri bambini: un giorno essi si incontreranno, i nostri bambini e i bambini di quelle aree (non parlo solo di Afghanistan, parlo delle aree di crisi), si incontreranno e potranno incontrarsi da amici o potranno incontrarsi da combattenti. Tutto questo dipende da quello che oggi siamo in grado di fare di positivo per la sicurezza, per la pace e per la stabilità internazionale. Quindi alla luce delle esperienze fatte fuori area, fuori dal territorio nazionale ma anche fatte in Patria, mi sento di dire, per concludere, che con la partecipazione alle missioni internazionali, noi soldati, uomini e donne in divisa, lavoriamo per la pace, serviamo la pace e la stabilità internazionale e siamo consapevoli del fatto che il nostro impegno in missioni volute dalle Nazioni Unite e approvate dal Governo, è finalizzato al ripristino e alla tutela di condizioni di vita degne di un essere umano, laddove ce ne sia la necessità. Abbiamo anche la consapevolezza che con la nostra partecipazione alle missioni internazionali proteggiamo anche il nostro Paese, la nostra bellissima Italia, la nostra Europa, e contribuiamo a garantirne la sicurezza, che oggi risente delle condizioni di instabilità e di crisi in una area, in un Paese, in una località che si può trovare a pochi chilometri di distanza. E’ il caso della Libia; nel cuore dell’Europa, è il caso dei Balcani; ma anche a migliaia di chilometri di distanza, è il caso dell’Afghanistan, del Libano, della Somalia e del Mali, dove noi operiamo per il mantenimento, per ristabilire la pace, per lo sviluppo di quei Paesi, assieme ai partners europei e internazionali. Vi ringrazio.
MONICA MAGGIONI:
Grazie generale, grazie a tutti voi. Bene Ministro, eccoci qua, il Generale Portolano ci ha praticamente accompagnato verso uno scenario all’interno del quale vale la pena di riflettere insieme su quello che sono oggi le missioni, il ruolo, le modalità, quindi insomma è con lei che vorrei proprio fare il punto. Allora, Ministro Mauro, se le missioni all’estero sono in qualche misura anche la cifra della modernità dell’azione delle Forze Armate, è quello che caratterizza forse più di qualsiasi altra cosa l’agire degli ultimi decenni. Ecco, in che senso oggi è importante che continuino a esistere? Vengono messe in discussione spesso, sempre più spesso. Quindi non faccio un giro di parole e arrivo immediatamente alla questione chiave.
MARIO MAURO:
Buon giorno a tutti innanzitutto, e consentitemi prima di rispondere alla domanda, di ringraziare sentitamente sul piano personale, come membro del Governo italiano, il Meeting di Rimini, perché ha accettato, ospitando questo incontro, una scommessa non da poco. Quella scommessa cioè che può permettere che questo incontro aiuti, contribuisca, a cancellare dei luoghi comini, vale a dire che un incontro come questo appaia per quello che è: non un’iniziativa di propaganda, ma uno strumento che ci permette di andare al fondo di parole e di fatti che sono la chiave del nostro destino. Io ringrazio il Meeting perché questo metodo, che dura da trentaquattro anni, non è la sponda di nessun uomo politico né di nessun partito politico, è invece quel metodo, quello dell’incontro, del dialogo, che rende possibile misurare la verità delle cose. Sono profondamente consapevole di quello che dico, perché oggi in un contesto mediatico continuamente alterato dalla volontà di piegare i messaggi e la comunicazione a un progetto di potere, la possibilità di andare a capire come stanno le cose, di andare a vedere come stanno le cose, esorbita da quello che è il modo più naturale e più vero di farlo. E qual è questo modo? Paragonare tutto quello che accade nel mondo, tutto quello che succede, tutto quello che di drammatico, di terribile, succede con il desiderio di verità, di bellezza, di giustizia che ci portiamo nel cuore. Perché là dove non accade questo, là dove non accade questa presa di consapevolezza, di coscienza che ci permette di essere appunto veri, c’è la propaganda, c’è la mistificazione, c’è il tentativo continuo, che è la chiave del modo di procedere dell’ideologia, di alterare il senso della realtà. E quel che ho detto all’inizio mi serve per andare a rispondere al cuore di queste domande. Io vorrei partire dalla fine, da quello che è accaduto a Giuseppe La Rosa, Maggiore dei Bersaglieri della Brigata Sassari, che è stato l’ultimo dei nostri uomini a perdere la vita in Afghanistan. E vorrei partire da quello che è accaduto a lui perché, quando mi sono poi recato, per la seconda volta dall’inizio del mio mandato, ad Herat, a incontrare i nostri reparti, ho sentito di dover dire nel colloquio con loro quanto segue – non ho voluto cioè nascondere il fatto più imponente-: non c’è niente al mondo che valga la vita di un uomo, non c’è nulla, e non c’è strategia o priorità di un Ministero, di un Governo che possano sostituire la vita di un uomo. Allora ho chiesto a quegli uomini: vale la pena che noi stiamo qui? Perché siamo qui? Che poi è la domanda che ci fanno tutti, che ci fanno in tanti, e che poi nell’opinione pubblica riecheggia, ma che non ha una radice di verità se non ha il coraggio di paragonarsi con quello che lì realmente accade. Non c’è nulla che valga la vita di un uomo, ma allora che cosa accade quando un uomo arriva a dare la sua vita perché quella realtà si trasformi? Come possiamo misurare la verità e la grandezza di quello che hanno raccontato coloro che mi hanno preceduto? Io faccio queste domande a voi e chiedo non che voi mutuiate le risposte che io ho trovato in Afghanistan, in Libano, in Kosovo, in Bosnia, ma che voi rispondiate. Come è possibile per noi? Una delle obiezioni che mi fanno più spesso: la democrazia e la libertà non è roba per afghani, non è roba per Paesi islamici, non è roba per alcune latitudini, per alcuni Paesi del mondo ai quali sfugge il centro del cuore dell’esperienza della democrazia e della libertà. L’undici agosto del 2003 è cominciata la missione ISAF, in Afghanistan, quella che vede come protagonista anche l’Esercito italiano, la Marina italiana, l’Aviazione italiana. Sono passati dieci anni, ne sono passati venti da quando siamo in Bosnia, nel cuore dell’Europa, dove abbiamo sfregiato il cuore e il senso di quella parola e di quel progetto politico, “Europa”, permettendo – stando fermi a mani incrociate – il massacro di Srebrenica. Siamo da quindici anni in Kosovo, siamo da trentaquattro anni – da quando è nato il Meeting – in Libano. Non siamo mai andati in Ruanda, e non esserci mai andati ha comportato che, in cinquantaquattro giorni, ottocentomila persone venissero massacrate, non dai bombardieri, non dall’aviazione, non dai rutilanti e scintillanti F35, ma da colpi di macete. Non abbiamo consentito che 700 uomini dell’armata francese potessero entrare e fare che cosa? L’interposizione, che è un’altra parola, che è un altro oggetto di luoghi comuni che vorrei spiegare. Io sono nato in un paesino del sud, sono nato in un vicolo, e in quel vicolo da sempre ho imparato che quando accade qualche cosa, ci vuole qualcuno che si metta di mezzo, perché è il senso di responsabilità per il destino del popolo che ti fa mettere in mezzo, non è la volontà di potenza, non è l’esibizione muscolare. Ti metti di mezzo perché, per creare le condizioni della pace, bisogna arrivare ad esercitare un principio di responsabilità, che arriva fino a interporsi. È questo che facciamo in giro per il mondo e non potrebbe essere differente da così, non potrebbe essere diverso, perché abbiamo incastonato in un articolo della nostra Costituzione il fatto che rigettiamo la guerra come soluzione delle controversie, quindi non abbiamo le armi in pugno, non stringiamo le armi tra le nostre braccia per vincere un’azione, per conquistare un territorio, ma per contribuire a creare le condizioni della pace, e la pace costa. La pace, la libertà, la democrazia. Se a qualcuno di voi capita l’avventura di trovarsi sulla spianata che porta alla Casa Bianca, c’è il monumento a coloro che hanno dato la loro vita per la più antica tra le missioni di interposizione, che abbiamo celebrato qualche giorno fa a Seul: la guerra di Corea. Quel monumento dice: “Freedom is not for free”, la libertà non è gratis, non è gratis. Quella si ha un prezzo, è c’è qualcuno a cui chiediamo di pagarlo: questo qualcuno sono loro. Perché se è vero che tutto avviene in condizione di sicurezza (qui non c’è retorica, qui c’è la realtà), vale la pena essere in Afghanistan? Io sono diventato Parlamentare europeo nel 1999 e la prima volta che sono andato in Afghanistan, governavano i talebani, e quel governo prevedeva l’esecuzione nello stadio di Kabul dove venivano tranciate mani e tagliate teste; prevedeva quel Governo che a scuola ci andassero solo i maschi. ISAF è partita nel 2003, nel 2003 c’erano 800.000 studenti in Afghanistan, tutti maschi. Oggi ci sono 7 milioni e mezzo di studenti, e il 35% sono donne; il 20% degli studenti universitari sono donne, 79 parlamentari del governo sono donne. 120 ospedali sono stati costruiti da quando c’è ISAF. Prima di ISAF accedevano ai servizi sanitari non più del 30% della popolazione afghana, oggi sono più dell’ 80%. Sono stati costruiti migliaia di chilometri di strada, sono state aperte imprese, sono state costruite istituzioni. Si è aiutato la possibilità che una cultura dell’incontro e del rispetto reciproco favorisse anche la democrazia. Ecco perché vale la pena strare in Afghanistan, ed ecco perché non è retorica dire che questo è stato reso possibile da condizioni di sicurezza. Ora se per noi tutti è chiaro che non consentiremo mai di disarmare la presenza di Carabinieri e Polizia, perché attraverso l’opportunità della sicurezza viene consentito lo svolgesi del vivere civile nel nostro Paese, il crescere della nostra economia, la condivisione fra le nostre famiglie, la competizione leale fra le nostre imprese, perché dovremmo privare l’Afghanistan di tutto questo, perché dovremmo privarne l’Iraq e la Siria e l’Egitto? Il problema infatti non è ciò che abbiamo fatto finora, ma ciò che siamo chiamati a fare, perché quel medesimo senso di responsabilità rende protagonisti noi, una delle democrazie più importanti del mondo, uno dei Paesi più ricchi del mondo, di condividere, di restituire gratuitamente quello che abbiamo ricevuto in sorte dalla storia e dalla nostra capacità di costruire e creare il nostro futuro. Questo è il cuore dell’esperienza dell’Afghanistan, questo è ciò che siamo chiamati a fare, ciò che siamo chiamati a mettere a disposizione del mondo intero e che siamo chiamati a fare con quello che è stato definito il “metodo italiano”. Il Maggiore Amato è stato molto preciso: che cos’è il “metodo italiano”? E’ un metodo di condivisione tra i popoli reso possibile da un approccio antropologico cristiano, cioè dal fatto che riconosciamo negli altri che sono nostri fratelli. È questo ciò che ha fatto scolorire la temperie di una concezione dell’intervento militare come un intervento di guerra. Io sono il Ministro della Difesa, devo cioè difendere, difendere la possibilità che la gente viva. E devo difendere le condizioni della pace. E se ho usato delle espressioni forti è per ricordare a questo Paese che quando si fa interposizione – esattamente come avverrebbe in un vicolo di una piccola città del sud -, è ragionevole cercare di non essere il più mingherlino, è ragionevole cioè cercare di avere i muscoli necessari per poter assolvere, per poter assolvere il compito che la storia ci affida. È per quello che in Afganistan ci andiamo armati, non per volontà di esibizionismo, non per logica muscolare, ma per la logica del buon governo, per la logica cioè che è portata a condividere le difficoltà che tu hai e cerca di mettere quello che sai meglio fare a tua disposizione, perché tu abbia una chance, perché tu abbia un’opportunità. E questa logica che ci mette in giro per il mondo. Siamo presenti in 23 Paesi, in 36 missioni differenti. Molto avete potuto oggi conoscere dell’Afghanistan. Tanto è stato raccontato di quello che abbiamo saputo fare in Libano, dove recandomi di recente, mettendomi al tavolo con i leader Sunniti, Sciiti e Cristiani – di otto diverse confessioni cristiane -, che costituiscono quel miracolo umano e storico che si chiama Libano, ho ascoltato da loro parole non solo di buon senso ma che sono un monito, dal momento che tutti hanno avuto la forza dirmi che sono stufi di veder usato il nome di Dio per progetti di potere che nulla hanno a che fare col destino del loro popolo. Questo avviene nel Libano, avviene nella Siria, avviene nell’Egitto. Come facciamo a non capire che se non c’è questa logica del mettersi di mezzo, noi consentiremo a Paesi importanti, ricchi, di perseguire, attraverso una logica di penetrazione finalizzata al potere, lo smembramento della società civile e della domanda di democrazia che abbiamo visto trasparire da piazza Tahrir in poi? Come facciamo a non capire che se non ci interessiamo di quanto accade, noi creeremo le condizioni per il caos, perché non è guardando dall’altra parte, non è volgendo lo sguardo dall’altra parte che noi aiuteremo la democrazia e la libertà, ma è occupandoci e preoccupandoci, avendo amore e passione per il destino di questi popoli, che ritroveremo anche un po’ il senso della nostra vocazione storica, il senso che convinca l’Italia a mettere da parte questioni tra comari per occuparsi invece del destino anche del nostro popolo. Questo è il cuore fondante di un incontro come questo. Non a caso c’è la parola educazione in questo incontro. C’è la parola educazione, perché tutto quello che viene fatto dall’uomo in un contesto, in un incontro epocale come quello voluto dal Meeting di Rimini, che parla di un’emergenza uomo, serve per ricordare a tutti che l’emergenza uomo si vince con l’educazione del popolo. Io sono il Ministro di un Governo che ha prestato giuramento quando due uomini dell’arma dei Carabinieri venivano falcidiati dalla follia criminale, davanti a palazzo Chigi, di chi riteneva di poter far sintesi delle contraddizioni della politica aggredendo chi rappresenta le istituzioni. E tutti i giorni da quel giorno mi chiedo: come mi educa quel sacrificio? A che cosa dovrebbe guardare, a chi dovrebbe guardare la politica in Italia, se non a quello che hanno fatto Giangrande e Negri per il patto di libertà che sono le nostre istituzioni, per ritrovare un po’ il senso di quello che siamo, il senso della nostra vocazione, il senso della nostra missione, insomma la dignità della politica? A che cosa dovremmo guardare, a chi dovremmo guardare se non al Maggiore Giuseppe La Rosa, che quando la bomba a mano è penetrata nel blindato che doveva difenderli, consapevole di non poter più in tempo recuperarla, ha preferito stendersi su di essa per proteggere gli altri che dentro quel blindato erano con lui? Credo insomma che tutti quelli che pensano al mondo militare come a un mondo di una retorica insulsa, dove si gioca ai soldatini, si perdono il meglio. Si perdono il meglio dell’esperienza della nostra umanità, della nostra democrazia, della nostra libertà, così come credo che questo modo caricaturale di guardare alla scuola, alla sanità, sempre come fossero il luogo del mal funzionamento, delle cose che non vanno, ci fa perdere il meglio e ci fa perdere il merito, ciò che caratterizza quel dinamismo della persona che è capace di andare a vedere come stanno le cose, senza farsi condizionare da nessuno, controcorrente, esprimendo il cuore della nostra libertà, che è riconoscere il bene e aderirvi. Ci sarà pure una ragione per la quale la Chiesa cattolica ha identificato tra i suoi santi 131 persone che hanno portato l’uniforme, 131 persone militari fatti santi. Non è il primo dei miracoli. Perdonate se è ragionevole che uno che stringe in mano un fucile, o è a capo di un esercito, possa essere considerato santo, che non vuol dire che non sbaglia mai, ma che è consapevole del fatto che l’uomo è uno ed è lo stesso che bestemmia e che perdona, che ama e che uccide. Questo uomo, questo mistero, il mistero di questa personalità, è questo che ci è chiesto di penetrare attraverso il racconto dei nostri amici, che solo può presupporre l’attività dell’educazione di un popolo. Questi sono anche i dieci anni del massacro di Nassiriya, là dove altri 19 nostri amici, gran parte dell’Arma dei Carabinieri e anche alcuni che appartenevano al settore dell’informazione, hanno perduto la vita. Per che cosa? Per la verità. Per la verità. Bene ha fatto, in questo Meeting di Rimini, il Meeting stesso a ricordare la personalità di uno dei fondatori di questa iniziativa, il senatore Andreotti, nella mostra dedicata alla ricostruzione dell’Europa. Anche un uomo politico può, nell’arco della sua vita, vivere una lunga battaglia fatta di tanti piccoli gesti, che sono fatti a fronte dell’enorme bisogno che è la nostra umanità. Allora il tentativo di costruire nella nostra vita di tutti i giorni, in missioni speciali come quella dell’Afghanistan, in missioni di grande responsabilità come quella dell’esercizio del Governo e di un Governo magari che si protrae per una vita intera, ma anche nella missione della vita di tutti i giorni e di tutti i giorni della vita, ecco questa responsabilità è l’unico vero fondamento che ci fa dare una risposta piena a quella domanda: vale la pena anche stare in Afghanistan.
MONICA MAGGIONI:
Mai domanda ebbe risposta più compiuta. Grazie Ministro, grazie a tutti.
Trascrizione non rivista dai relatori