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IL VALORE SOCIALE DELL’IMPRENDITORE
Dialogo a partire dal libro “Imprenditore: risorsa o problema? Impresa e bene comune” (Ed. BUR). Partecipano: Francesco Bernardi, Presidente di Illumia Spa; Francesco Confuorti, Presidente e Amministratore Delegato di Advantage Financial; Nardo Filippetti, Presidente di Eden Viaggi; Pietro Modiano, Presidente di Sea; Roberto Snaidero, Presidente di FederlegnoArredo. Introduce Ugo Bertone, Giornalista economico.
UGO BERTONE:
Buongiorno, possiamo cominciare questo dibattito che sarà comunque denso perché abbiamo un parterre importante e perché l’occasione è di quelle che vanno assai al di là della contingenza e hanno un certo valore, sono un motore per riflettere.
L’occasione ci viene offerta dalla presentazione di un libro, di cui tra gli autori c’è un personaggio a voi sconosciuto, Giorgio Vittadini, accompagnato da alcuni studiosi, come Giulio Sapelli, Giorgio Fiorentini, il titolo è Imprenditore: risorsa o problema? Sostanzialmente, mi diceva Giorgio, questa fatica, che poi si è tradotta in un’intervista collettiva a numerosi imprenditori, è un libro importante perché emerge una psicologia e anche una voglia di reazione alle difficoltà da parte dell’impresa italiana. Tutto nasce da una domanda: l’imprenditore ha lasciato il popolo o il popolo ha lasciato l’impresa? Domanda che veniva da don Giussani, in epoca lontana, ma lui aveva già visto che dietro la retorica, l’ideologia del piccolo e bello, l’ideologia dell’impresa come motore del bene, dello sviluppo, ecc., andavano ad annidarsi, a crearsi dei fattori, dei germi di crisi, che sono crisi economica, e non solo crisi economica, ma anche crisi di relazione tra le varie parti sociali. Oggi la situazione economica, ahimè, permette di fotografare più l’aspetto negativo che quello positivo per certi versi. In questo libro si parla molto di Adriano Olivetti.
La settimana scorsa il Financial Times ha dedicato a Ivrea un reportage davvero toccante in cui si vede come quella che è stata la capitale dell’Italia, che guardava verso il terzo millennio, è diventata sostanzialmente un deserto industriale, dove la principale azienda è l’INPS della Previdenza Sociale; in cambio sono moltissimi i fenomeni ancora di vitalità e cancello subito il termine ancora, perché ci sono fenomeni di vitalità tout court da esaltare e da studiare. Per questo motivo è molto interessante il fatto che sia messo mano a un volume di questo tipo, a una ricerca sul campo, da cui emergono alcune cose su cui sono d’accordo, altre meno d’accordo. Per me c’è poca enfasi sul vero motivo, sulla vera occasione di crisi odierna, che non è quella della piccola impresa che bene o poco ci ha assuefatto ai miracoli, non è quella della media impresa che a parte una fiscalità oppressiva è senz’altro in linea o avanti a quella di Germania e Spagna, come ci insegnano le analisi di Mediobanca; se c’è una crisi italiana è la grande impresa, che in questi anni ha perso posizioni, potremmo quasi dire che non esiste quasi più come industria, anche se così si esagera, si estremizza, però di sicuro rispetto al tessuto industriale del Paese e all’economia italiana ormai le grandi imprese sono davvero poca cosa.
Proviamo un po’ a interrogarci anche su questo fatto, che significa anche interrogarci sulla figura dell’imprenditore, uomo solo al comando e i manager che qua e là e anche in queste interviste vengono un po’ vissuti come un male necessario, una sponda che frena questa vitalità dell’impresa. Ma ho già parlato troppo, direi che è il caso di passare subito la parola al dottor Bernardi, che è stato un po’ il promotore, il motore che ha fatto decollare anche questa sfida e questa iniziativa. Il dottor Bernardi è il Presidente di Illumia Spa, ma vanta anche una grossa esperienza imprenditoriale e manageriale, non solo in Italia, e non solo in piccole imprese, ma anche e soprattutto in grandi gruppi pubblici e privati. Grazie.
FRANCESCO BERNARDI:
Se vi dico due nomi, Lanificio Carotti e Pasta Falasconi, credo non vi dicano nulla, eppure se ci spostiamo nel dopoguerra, in un paese vicino a Rimini, in un paese delle Marche, dove io mi trovavo a fare la scuola elementare, ormai più di cinquanta anni fa, questi due personaggi erano molto apprezzati; ai miei amici di scuola e a me, gli opinion leader del paese, che erano poi il farmacista, il medico, il maestro, ce li indicavano come esempi, erano persone che venivano additate come un’esperienza positiva e in qualche modo il loro benessere e anche i simboli del loro benessere, il cancello di ferro battuto, la pelliccia che c’era nel bavero del cappotto, la Giulietta, le palme nella casa, erano simboli in qualche modo di simpatia, di affezione, non di invidia. I paesani non vedevano queste cose come un elemento di discriminazione, erano al contrario dei simboli che dimostravano la capacità di vincere che avevano quei personaggi, la possibilità cioè di essere in qualche modo agganciati al progresso, alla possibilità di cambiare i termini della loro vita. Questo elemento era anche comune alle prediche che un tale don Adelelmo -pensate il nome Adelelmo, chi oggi si chiama Adelelmo? – che in qualche modo additava noi come esempi da perseguire anche per quanto riguarda un comportamento etico, un’idea di impegno e di rapporto con la realtà.
Questo substrato, che è quello in cui sono nate nel dopoguerra le piccole e le medie imprese italiane, bisogna domandarsi se ancora esiste, perché la nascita delle piccole e medie imprese, che oggi fa dell’Italia la seconda nazione in capacità manifatturiera in Europa, si poggiava su quest’atteggiamento, che era presente nella cultura popolare in cui l’imprenditore era un personaggio vincente, come dicevo prima, e addirittura si affidavano a lui le sorti sportive della squadra del paese, non già perché era lo sponsor dell’iniziativa, quanto perché con lui era più facile poter avere successo. Allora questo retroterra bisogna domandarsi se c’è ancora e in pratica bisogna domandarsi da che cosa era animato, quali sono gli elementi dominanti di questa cultura di base su cui poggiava questa convinzione, quest’immagine dell’imprenditore. Vi erano secondo me due elementi, uno abbastanza condivisibile, anche se non scontato, e cioè che la realtà non delude mai. Dire che la realtà non delude mai, significa che è conveniente, è giusto, è positivo e in qualche modo ineliminabile coinvolgersi con i dati materiali che si hanno intorno. L’altra cosa che è un po’ meno scontata è la familiarità con la bellezza. Se si va un po’ all’estero, siamo perennemente, istintivamente portati a pensare che la bellezza sia un patrimonio del nostro Paese, ma un patrimonio in qualche modo congelato, congelato nelle caratteristiche della natura e nei musei e nelle piazze delle nostre città. Non pensiamo che la bellezza abbia un’accezione, una conseguenza molto operativa dal punto di vista manifatturiero. Però se andiamo a ripensare alla nascita delle piccole e medie imprese e prima ancora dell’artigianato italiano, dobbiamo in qualche modo pensare, soprattutto nel dopoguerra, che non era possibile attribuire questa nascita alla cultura, diciamo, all’istruzione, che era presente in Italia; eravamo un Paese dove ancora l’analfabetismo era dominante, non eravamo neanche un Paese particolarmente ricco. Allora perché abbiamo saputo promuovere questa capacità di operare, di forgiare la materia? La bellezza è qualche cosa che non ha bisogno dell’intermediazione culturale, qualche cosa che di schianto muove un sentimento, muove una voglia di emulazione. E questa voglia di emulazione si trasforma in una capacità di forgiare la materia, di plasmarla e di produrre qualche cosa che altrove, in altri contesti, non era così favorevole. Un piccolo aneddoto ma brevissimo. Due anni fa ho avuto modo di portare un’azienda che abita qui, che vive qui vicino a Rimini, di Cesena e voglio anche dirvi il nome, l’impresa di Andrea Boschi, che è un imprenditore, un falegname che vive appunto a Cesena e per una serie di vicende lo abbiamo portato a operare a New York e a collaborare per un mese con una grande impresa edile newyorkese. Allora è stato divertente vedere come collaboravano queste due realtà: una piccola e media impresa italiana e una grande impresa edile. Tutti gli elementi di competizione che erano la qualità del prodotto, il livello di organizzazione, l’economicità e la funzionalità dei prodotti hanno portato a far vincere l’imprenditore italiano senza neanche competere, cioè con un’evidenza totale. Ora questa sua capacità non è dovuta solo alle sue qualità personali, certamente moltissimo alle sue qualità personali, ma anche a quel sub-strato di positività della realtà e di familiarità con la bellezza che coincidevano con la sua capacità di lavorare, organizzarsi, curvare il legno in un certo modo. Oggi è ancora così? No, oggi non è più così. Oggi un imprenditore che non ha successo è considerato popolarmente un fesso, un imprenditore che invece ha successo è un personaggio in libertà vigilata, poiché certamente si potrebbe avere, il certamente è quasi retorico, il sospetto che abbia rubato evadendo, o rubato proprio o abbia evaso le tasse, abbia comunque sfruttato i dipendenti, abbia inquinato l’ambiente, il più delle volte tutte queste cose insieme. Ora un imprenditore non può vivere con questo peso di sospetto sulle spalle, perché nessuno vuol correre partendo, competendo con gli altri con una zavorra che lo tiene legato al punto di partenza, ed è il primo punto della nostra situazione. Nel libro, e mi avvicino al termine di questa introduzione, cioè di questo primo intervento, nel libro, il professor Sapelli dice che il punto di cambiamento è ben databile, il punto di cambiamento di questa cultura è ben databile ed è individuabile nel ’68. Nel ’68 viene meno il principio di autorità nel senso manzoniano e cattolico del termine, come autorevolezza e parallelamente comincia ad affermarsi un’idea protestante di ricchezza. Quello che è accaduto, ma non spetta a me fare analisi particolarmente approfondite, è che tutto quello che è insito nelle ambiguità dell’uomo e cioè la pigrizia, la deresponsabilizzazione, l’insofferenza con le regole, l’obiezione al rispetto dell’autorità e della gerarchia, invece di essere elemento di correzione, sono diventate nel tempo, per chi le ha volute in qualche modo cavalcare, delle obiezioni culturali, hanno avuto una dignità culturale e sono diventate l’elemento giusto di obiezione alla figura dell’imprenditore e alla dignità del lavoro, invece di essere corrette e riaffermate. Quest’aspetto è tanto vero al punto che oggi tutti questi elementi, che sono una costante nel comportamento delle persone, sono invece state, come dicevamo prima, cavalcate e stigmatizzate come comportamenti giusti per fare una rivoluzione. La conseguenza che ne abbiamo è che appunto, oggi, l’imprenditore, che rappresenta la frontiera più avanzata, è di per sé non apprezzato per quel che meriterebbe, il suo gesto lavorativo è molto discusso nel suo valore. Termino dicendo che se in questa cornice i punti sono condivisibili, cioè se prima vi era una capacità produttiva che albergava e appoggiava su una cultura popolare, sul popolo che riconosceva l’imprenditore e su una familiarità con la bellezza, oggi, se vogliamo riprendere a costruire, quello che noi dobbiamo fare è non abbandonare la nostra familiarità con la bellezza, ma questo è un dato che abbiamo. E, una seconda cosa, che sarà anch’essa estremamente impopolare, è che noi dobbiamo sdoganare dalla vita sociale il termine della preferenza, cioè il fatto che un imprenditore tutti i giorni si trova a preferire delle cose piuttosto che delle altre, a preferire delle persone a delle altre. Nella nostra vita quotidiana quando noi abbiamo a che fare con delle cose che ci sono particolarmente care, la nostra salute, come il fare, ad esempio, la casa per se o per i propri figli, preferiamo un medico ad un altro, preferiamo un architetto ad un altro. Ora, perché per le cose che ci sono più care esercitiamo un meccanismo di cooptazione e non facciamo una gara asettica o un meccanismo apparentemente democratico ma rischiamo un giudizio e preferiamo alcune persone e alcune logiche? Quando assumiamo delle cariche pubbliche dimentichiamo questo dato di esperienza professionale, ci dobbiamo trincerare, per non essere accusati di familismo, di nepotismo, di atteggiamenti mafiosi in una falsa logica democratica. Questo attanaglia in maniera incredibile il processo di decisione, il processo di sviluppo, sia nella cosa privata sia nella cosa pubblica. Per questo a mio parere, terminando, quello che oggi noi dobbiamo fare è rifondare la familiarità con la bellezza, la familiarità con la preferenza, in una cultura che possa promuovere e dare la dignità che spetta a questi elementi fondanti. Grazie.
UGO BERTONE:
Allora, l’attacco è stato giustamente provocatorio, cioè c’è un prima in cui le cose, bene o male positive, prevalevano, e c’è una fase successiva in cui molte cose si sono intorbidate. Questo coinvolge i ruoli personali e tutto sommato annebbia la figura dell’imprenditore virtuoso, anche se quello che non ha detto il dottor Bernardi, è che queste cose capitavano di fronte ad un mercato interno molto recettivo, a una domanda estremamente più facile rispetto a quello che oggi molti settori, soprattutto nei servizi o rivolti verso il mercato degli italiani, devono vivere. Da questo punto di vista trovo straordinaria l’esperienza e tutto sommato la volontà di Nardo Filippetti, il quale semplicemente dice di sé che l’imprenditore è uno che deve avere le antenne in testa, deve essere uno che dal mattino a notte deve cercare di capire dove sta andando il mercato e questo lo fa in un settore che è in una situazione di angoscia, dove in questi anni pochi come lui sono riusciti a crescere e a sviluppare una posizione che comunque è difensiva, perché non credo che la redditività sia cresciuta. Stiamo parlando del turismo, per l’ospitalità, e dei viaggi dei tour operator, dove molti hanno ceduto il passo, e credo anche alcuni meritevoli. Qual è la situazione dell’impresa e dell’imprenditore in una situazione di mercato calante?
NARDO FILIPPETTI:
Buon giorno e grazie per l’invito. Prima di rispondere a queste domande desideravo fare una piccola premessa, sul perché poi fra l’altro sono qui e perché mi sono reso disponibile a una “intervista” per il libro del professor Vittadini, che voleva scrivere qualche cosa sull’esperienza degli imprenditori. La frase che maggiormente mi colpì e per la quale poi diedi subito il mio assenso all’intervista, con entusiasmo, fu questa, e permettetemi di leggere le prime righe di questo libro, quando si dice: “Normalmente è visto come un signore che, sfruttando i dipendenti, inquinando l’ambiente e non pagando le tasse, persegue il proprio tornaconto a discapito di altri. E’ l’imprenditore italiano che vive uno dei momenti più bassi in quanto a reputazione e considerazione del suo ruolo nel consenso sociale”. Ecco, queste cose ancora oggi mi commuovono e mi fanno venire la pelle d’oca, proprio perché è quello che sento quotidianamente sulla mia pelle in quanto mi reputo un imprenditore. Ho sempre fatto impresa fin dall’età di diciassette anni, con il consenso addirittura di mia madre, perché non potevo avere una licenza, e ho sempre cercato di lavorare per creare qualche cosa. Ecco, queste sono state le frasi che mi hanno maggiormente colpito perché, come dicevo prima, è quello che oggi sento, sento addosso, sento nella mia piccola provincia, quando passo con una macchina che non è una macchina sgangherata, che è una Mercedes, che magari vesto con la giacca e la cravatta, perché quello è un modo comunque di essere, di comportarmi, è diventata la mia tuta. Ecco, oggi ormai ci ho fatto l’abitudine, vado avanti, non mi accorgo più nemmeno di quelli che possono essere i loro pensieri o per lo meno non me li faccio diventare un problema, mentre prima a volte mi condizionavano nel comportamento, oggi vado avanti, faccio la mia attività, che è quella di intraprendere, quella di buttarsi continuamente, perché tipico dell’imprenditore è di andare a cercare, come si diceva prima, sempre con le antenne dritte, di percepire che cosa sta succedendo nell’aria, come si comportano le persone. La mia poi è un esperienza da emigrante. Quando ero ragazzino sono stato all’estero, in Germania, dove c’era scritto divieto ai cani e agli italiani, nel sessantotto; appresi più che la lingua la gestualità, i modi comportarsi delle persone, i suoni, le lingue poi sono formate da suoni. Quindi ero sempre attento a che cosa poteva succedere attorno a me, perché ero solo in un Paese che mi ospitava (non è che avesse una grande voglia di ospitarmi), nel quale forzatamente cercavo di stare perché avevo un fine mio, che era quello di apprendere la lingua. Ecco, lì ho sviluppato tante di quelle sensazioni e percezioni di quello che mi girava attorno, che è stato come un’università, da cui ho tratto un beneficio nella crescita mia personale. Come dicevo prima, quello dell’imprenditore è il compito di cercare continuamente quello che sta succedendo attorno e di andare a proporre un prodotto, un servizio, a delle persone che nemmeno sanno che cosa io sto preparando per loro, ma, percependo dove si sta muovendo il mercato e il mondo, devo farmi trovare lì nel momento giusto, quando la domanda viene realmente sollecitata. Ecco, quest’attenzione è spasmodica, questo continuo guardarsi attorno, questa, ansia di sentire che c’è qualche cosa che ti sfugge, all’inizio era veramente molto difficoltoso; oggi sono ancora molto attento, sempre molto attento, magari con meno ansia perché forse l’esperienza mi da un po’ più di sicurezza. Per fortuna ho dei collaboratori bravi, dei bravi manager, ma sono dei lavori completamente diversi: come io non so fare il manager, purtroppo alcuni manager non sono in grado di fare l’imprenditore. Ma non perché abbia qualcosa contro la classe, tra virgolette, dirigente dei manager. Sono due attività o due professioni completamente diverse. L’imprenditore è colui che si butta alla ricerca di un qualcosa cosa senza sapere che cosa può trovare, facendo semplicemente ricorso a quelle che sono le sue forze, la determinazione, la volontà comunque di arrivare, capendo che cosa può fare, che cosa non può fare, percependo. Mentre a volte i manager sono tutti quelli che gestiscono una situazione. Io, a volte, ho avuto difficoltà all’interno dell’associazione che rappresentavo, che era quella dei tour operator, dove, come si diceva prima, il nostro settore ha perso negli ultimi 5-6 anni il 50% di fatturato. E non ci sono più imprenditori. Però a volte gli istituti bancari sono stati quasi costretti a rilevare le imprese, perché non andassero del tutto, non dico fallite, ma che chiudessero e fossero gestite da manager. Ecco a volte mi confronto spesso con manager che guidano imprese a me concorrenti e c’è una visione completamente diversa, un atteggiamento, una percezione, una sensibilità, alla gestione e alla qualità dei processi rispetto a quello che è la ricerca della scelta di dove portare l’impresa e di come affrontare il futuro. Le difficoltà sicuramente in questo Paese oggi sono immani. Ho vissuto stamattina proprio un’esperienza significativa al riguardo. Ero col Ministro Lupi, quando un’amica che alloggiava nel mio stesso albergo mi si avvicina piangente e dice: “Siamo stati costretti ad andare via”. Ecco, mi viene ancora un po’ il groppo alla gola pensando a questo, perché la loro impresa funziona bene, ma tartassati con una tassazione sopra la norma, sono stati costretti ad emigrare. Ecco, questa mattina appunto, parlandone con il Ministro gli dico: “Vedi, questo è il dramma che viviamo noi imprenditori, che viviamo noi imprese". Non dimenticherò mai una domanda che, quando iniziammo, è diventata ormai un racconto ricorrente all’interno dell’azienda, la domanda di una ragazza che, sposandosi, mi dice: “Io, signor Filippetti, mi sposo e ho avuto un’offerta per andare a lavorare in banca. Mi piace questo mestiere. Lei mi garantisce che mi posso pagare il mutuo?”. Caspita, un peso, una responsabilità, dove la banca era considerata, come penso ancora, emblematica per avere una garanzia per un posto di lavoro rispetto che lavorare all’interno di un’impresa privata. Ecco, da allora, come sempre, per l’etica, per i valori con i quali sono stato educato, mi sono fatto più responsabile. Queste sono cose che mi spingono e che mi danno la forza ancora di andare avanti, nonostante le difficoltà del momento, nonostante la crisi. Tutti quanti speriamo e pensiamo che ci sarà un modello nuovo di business. Speriamo di potere continuare per coloro che han deciso di lavorare e per i miei collaboratori. Questa è la spinta che maggiormente sento, che mi viene dal basso e che mi dà soddisfazione per continuare a fare notti insonni, ma comunque con un grande piacere di fare impresa e di buttarmi oltre la siepe. Grazie.
UGO BERTONE:
L’economia, e l’abbiamo capito per questa testimonianza, non è solo questione di numeri, anzi, soprattutto non è questione di numeri, ma di qualcosa che viene portato dentro e forse questa ricerca della bellezza ha un solo segreto che è la persona, è il ruolo della persona. Ma, dietro questo, ci vogliono le reti, le reti professionali, il banking sostanzialmente, o non soltanto il banking, però una capacità che forse è stato il limite che è stato imputato all’impresa italiana, normalmente alle piccole e alle medie imprese. In realtà l’esperienza ci insegna che dove il capitalismo italiano, diciamolo pure, ha fallito, non è stato all’altezza degli Olivetti, ma anche dei Mattioli, o anche di altri fondatori grandi o medi, è stato nella grande impresa, o quella che poteva essere grande e non lo è stata, o quella che si è venduta e poteva avere un ruolo di leader, o quella che emigra, perché anche questo esiste, o quella che tutto sommato ha rinunciato, anche per la spinta pubblica della nostra legislazione che ha favorito per tanti versi la non crescita. La domanda che porto a Francesco Confuorti, che vanta un’esperienza imprenditoriale non solo nei servizi finanziari, ma anche all’interno di strutture internazionali è questa: tutto sommato la Germania ha una grande piccola impresa, però è soprattutto grande impresa; la Francia ci invidia la piccola impresa, però sostanzialmente ha almeno venti campioni internazionali, e questo non guasta.
FRANCESCO CONFUORTI:
Buongiorno, sono Francesco Confuorti, sono un banchiere di investimento e quando dico banchiere di investimento significa che sono l’azionista di riferimento di una banca di investimento, negli Stati Uniti, in Italia e in Lussemburgo. Sono di Matera e ho sempre pensato di far l’imprenditore. Ho iniziato a Wall Street nel 1980 ed ero l’unico sotto il Po, quindi sotto la linea Maginot, non ce ne erano altri, eravamo in sette. Io sono sopravvissuto perché vengo fuori dalle caverne di Matera e conosco tutti quelli che sono i segreti della sopravvivenza, dell’ambizione e della famiglia, perché noi viviamo a Matera, ancora nel 2014, in quello che a Venezia chiamano il campiello, da noi il vicinato, quindi con un senso di comunità forte. Questo senso di comunità è definito dalla famiglia, dagli amici, dall’ambiente e dalla cultura; ed è una cultura importante, perché è una cultura millenaria, che viene con noi da quando si sono mossi i monaci eremiti che venivano dalla Cappadocia; da quando da noi passavano le orde che andavano a creare una serie di situazioni in Africa e da quelle che sono le profonde origini della cultura italiana. Questo l’ho messo in un ambiente di competitività, dove l’educazione ha un senso flessibile, dove la flessibilità è cercare nell’individuo non l’appiattimento, ma il miglioramento, la positività, dove una cultura è una cultura inclusiva e quindi tutte le rivoluzioni hanno un positivo, anche il ’68 si può guardare male o si può guardare bene. Io il ’68 lo guardo male per alcuni versi, lo guardo bene per altri versi. Se guardo l’America, che è figlia di una rivoluzione importante, vi vedo il bambino della cultura occidentale, anche se un po’ diciamo ortodossa, poco cattolica o cattolica fino a un certo punto e poi figlia di quello che è il luteranesimo e quello che è il protestantesimo per alcuni versi; là vedo una civiltà inclusiva, a differenza della Germania dove è andato il mio amico, io non ci sarei mai andato, perché, non lo so, intrinsecamente ho voluto fare l’imprenditore ma non mi è mai piaciuto andare oltre le Alpi. Ho sempre guardato a Sud e ho sempre guardato a Ovest come opportunità di vita e penso che il mio istinto, quello è stato il mio primo istinto imprenditoriale, mi abbia spinto a fare la cosa più interessante che abbia fatto, andare negli Stati Uniti per dar vita a quello che era il mio sogno imprenditoriale. Gli Stati Uniti hanno introdotto il sistema di negatività in un sistema di positività. Hanno preso gli emigranti, i disadattati, le persone che venivano da tutte le parti del mondo, a prescindere dalla loro intellettualità, dalla loro conoscenza, dal loro modo di pensare e li hanno trasformati in un’arma vincente. Questo fuori dagli schemi, negli Stati Uniti si dice pensare out of the box. Invece in Italia abbiamo un sistema importantissimo che è quello dell’appiattimento intellettuale: non si può eccedere nell’intellettualità, perché se tu eccedi nell’intellettualità o nel pensiero devi emigrare. L’imprenditore è una persona generosa, è una persona che guarda al futuro, che guarda alla propria comunità, che guarda alle proprie eccellenze e le mette al servizio di quello che è positive thinking, che è un modo positivo di pensare e di costruire. Noi negli ultimi trent’anni abbiamo chiuso, non abbiamo più l’opportunità degli anni ’50 di cui parlava il mio amico Bernardi qui, perché abbiamo smesso di pensare come società, abbiamo smesso di pensare in maniera collettiva e abbiamo dato troppa importanza all’educazione formale, non all’educazione sostanziale. Le nostre classi imprenditoriali si sono create nella sostanza, non nella formalità; e oltretutto abbiamo relegato il pezzo dell’economia che era l’economia vibrante, l’economia delle famiglie, l’economia delle piccole imprese ai manager. I manager sono delle persone della gestione. La gestione può avvenire nel privato quando qualcuno ti controlla, quando la maggior parte dell’economia è un’economia statalizzata: in Italia il 40% dell’economia è gestito dal Governo e non abbiamo un’università che sia tra le prime 150 al mondo, tu non hai più spinta imprenditoriale, perché non hai più una spinta culturale, né una spinta di motivazione. Perché la motivazione è fatta da individui, non è fatta dal bene comune gestito da chi non ha mai gestito un’azienda. Scusatemi se sono così molto diretto, però l’imprenditoria ha bisogno di emozioni, ha bisogno di sentimenti, ha bisogno di un contesto positivo e ha bisogno di un contesto che accetti il diverso. Il diverso non vuol dire essere diverso in maniere strana, ma essere diverso perché hai una propulsione positiva. Questo però non è positivo. Anche noi cattolici – e io mi definisco cattolico perché mi chiamo Francesco, perché mio padre si chiama Antonio, mio figlio si chiama Nicola e andiamo avanti così e ci facciamo il segno di croce e facciamo il battesimo – abbiamo in qualche maniera lasciato al caso e non siamo stati incisivi come lo siamo stati in passato nel creare le classi imprenditoriali e nel tenerle vicine. Quindi il problema del ’68 è un problema reale fino a un certo punto; poi c’è stato disinteresse, c’è stato anche diciamo la comodità di criticare invece che fare, perché all’interno di una rivoluzione ci devono essere due che parlano. Però non c’è stato questo dialogo e non c’è stata neanche una forza propulsiva, c’è stata solo una forza che parlava di carità, però non parlava di rafforzamento delle basi sociali all’interno della nostra società per fare carità. Quindi l’imprenditoria è sparita anche per questo: sono spariti i distretti industriali, sono sparite tante di quelle cose che fanno parte della nostra società, di cui anche il mondo cattolico si deve in qualche maniera prendere qualche responsabilità. La prima responsabilità che bisogna che noi ci prendiamo è quella di accettare il diverso, è quella di creare all’interno del mondo cattolico un modo di istruire che sia diverso dal modo scolastico normale, affinché si ripromuova l’imprenditorialità, dal macellaio al falegname, al tessile, al calzolaio, ma in maniera propositiva e visionaria del futuro, come l’abbiamo fatto negli anni ’50 o negli anni ’60 o nel Rinascimento o anche nel Risorgimento, come riorganizzazione sociale. Poi che possa piacere o meno il Risorgimento è un’altra storia, però parliamo di continuità, toglierci da quello che è il modello solo dell’esportazione. L’Italia ha bisogno di crescere all’interno. La Germania è cresciuta perché ha unito le due Germanie, l’Italia dovrebbe unire il Nord e il Sud economicamente, non dico linguisticamente, ma economicamente, e sarebbe la più grossa forza di civiltà, di imprenditorialità e di tecnologia che potrebbe sfociare da noi stessi per continuare ad esportare, ad essere competitivi. SI parlava dei francesi. I francesi hanno comprato le nostre aziende modello, ora hanno investito nella Cassa Depositi e Prestiti venti miliardi per comprarsi le piccole aziende. Quando i cinesi e anche i tedeschi vengono in Italia a comprare aziende, noi parliamo di aprire al capitale straniero; però non diciamo mai che può cambiare la proprietà, ma la ricerca, l’innovazione, l’occupazione deve rimanere in Italia e quindi il nostro sistema legale è un sistema incerto, in cui stiamo in qualche maniera vivendo in un limbo culturale che non ci porta a creare impresa e ci porta a nasconderci dietro l’opportunità di non fare impresa perché è più facile non farla. Invece basterebbe molto poco per fare e per fare ricrescere l’Italia, anche perché ogni imprenditore crea almeno 5-6-7 posti di lavoro. Con questo ho finito, viva l’Italia e speriamo di creare più posti di lavoro in Italia.
UGO BERTONE:
Se ci avanzerà tempo vorrei passare alle proposte, anche a breve, per rimettere in moto la macchina. Adesso la parola al dottor Modiano, lo posso ancora definire banchiere, anche se ormai fa un altro mestiere?
PIETRO MODIANO:
No…
UGO BERTONE:
Diciamo allora studioso. Ha avuto modo di osservare l’impresa da molte angolature. In questo libro fa un’analisi particolarmente acuta e direi anche abbastanza severa, parlando di mito della piccola impresa. Perché è una delle poche cose che hanno funzionato all’interno di questo Paese. Però aggiunge: “Allo stesso tempo questo genera l’isolamento, il senso di abbattimento anche nell’auto-percezione dell’imprenditore”. Si hanno contemporaneamente due cose: la leggendaria piccola-media impresa – l’imprenditore italiano ha imparato a immaginarsi come l’eroe solitario controcorrente in un mondo ostile, ma proprio per questo è diventato ostile al mondo, quindi ha una sensazione di torre d’avorio, anzi di lager autoimposto.
PIETRO MODIANO:
Vi ringrazio. A me piace di questa riflessione il punto di domanda. Io ho lavorato sul campo della piccola-media impresa e ha ragione Ugo Bertone da tanti punti di vista. Io mi laureo nel ’76 e la cosa che faccio subito è andare negli uffici studi di una banca, dove ci si occupa di queste cose. Ho studiato e scritto, lavorato sulla teoria e sui numeri. Poi ho fatto alcune cose e a un certo punto sono approdato a fare il Direttore Generale di Intesa San Paolo, occupandomi della Banca dei Territori. La Banca dei Territori era tutte le imprese italiane meno le grandi. Quindi lì ti misuri, metti insieme, cerchi di mettere insieme quello che hai capito leggendo i libri e i giornali e quello che devi fare. Devi cercare di capire se dire di sì o no a quel gruppo di imprese, a quell’impresa, a quel distretto industriale, a quel gruppo di colleghi che ti dicono: “Punta su questo, invece che su quest’altra cosa”. Quindi ho avuto nella fase ultima della mia vita bancaria una fase molto dura sul campo della piccola-media impresa. Confesso che ho capito poco. Alla fine ho più punti di domanda che altro. Cerco di dirlo in queste tre paginette del libro che Bertone citava, perché io ho fatto molti convegni sulla piccola impresa. Ce n’è uno al giorno forse. A seconda di chi parla, nei convegni vengono fuori due messaggi: piccola impresa è disastro, è l’elemento del declino italiano. Un Paese che si basa sulla piccola-media impresa è un Paese fregato, tanto più che la piccola-media impresa fa prodotti tradizionali, quindi ha sbagliato posizionamento, è sottocapitalizzata, non obbedisce alle regole della finanza internazionale. Quindi, versione uno, declino è piccola-impresa. Ci sono stati centinaia di convegni sul tema declino dell’Italia dovuto al posizionamento sbagliato delle imprese troppo piccole e troppo tradizionali. Poi a seconda del relatore, all’altro convegno si racconta la leggenda della piccola impresa: noi soli contro tutti teniamo in piedi il Paese. Io ho la convinzione che la cosa vera sia la seconda ma con un limite enorme di auto percezione collettiva della piccola-media impresa che, ancorché protagonista e unico elemento trainante del Paese, non ha agito come pezzo di classe dirigente. Quindi non ha tradotto questa sua forza molecolare in una forza collettiva. Io a questo sono arrivato. Per cui il mio punto di domanda è questo. Giulio Sapelli, che è un mio carissimo amico, si diverte a parlar male del ’68 perché aveva dei problemi in quel periodo, ma dal ’68 in poi la piccola-media impresa italiana, demonizzata da noi che facevamo i contestatori, è prosperata. Il modello manifatturiero italiano, quello che adesso è sottoposto agli urti della crisi, ma è il secondo modello manifatturiero europeo, ha consentito all’Italia di mantenere livelli di quote di mercato internazionale molto significativi, di essere l’elemento di traino del PIL fino a oggi compreso (forse nell’ultimo trimestre no). Questo modello manifatturiero è quello lì. Io ho i numeri in testa e me li sono riscritti prima di parlare. Manifattura italiana (perché poi contano anche i numeri). Quante imprese manifatturiere ci sono in Italia sotto i venti addetti? 470.000. In Germania sono 160.000, in Francia sono 240.000, nel Regno Unito sono 130.000. Queste sono le imprese, l’elemento di fondo che ha consentito la performance delle esportazioni italiane negli ultimi anni. Sono loro. Quelle oltre i 250, sapete quante sono in Italia? Sono 1400. In Germania sono 4000, in Francia sono 2000, nel Regno Unito sono 1700. Questa è l’Italia che ce l’ha fatta fino a ieri ed è l’Italia, che se uno la guardasse da Marte, dovrebbe essere il luogo in cui la media, piccola o piccolissima impresa prospera. Ci si dovrebbe interrogare: ma come mai in Italia ci sono condizioni così apparentemente favorevoli, rivelate dai numeri, affinché si sviluppi la piccola-media impresa? Questa è la domanda vera, di chi sta fuori e non sta dentro preda di ira e di volontà di autodifesa e di scarsa consapevolezza. Ma qualcuno mi spiegherà invece le circostanze nonostante le quali la piccola impresa ha prosperato. Quali sono le circostanze che hanno favorito questo miracolo delle 470000 imprese manifatturiere italiane che competono con successo nel mondo, mentre in Germania sono 160000? Ma perché le condizioni di questo Paese hanno favorito la piccola impresa? A questa domanda nessuno risponde. Ed è un abbaglio colossale. Possiamo fare libri e libri sul perché non avrebbe dovuto: le tasse, il lavoro, le banche. Ma perché ce l’hanno fatta? Ditemelo in modo sistematico. Non è che ci siamo sforzati tanto. Non s’è sforzata Confindustria, la quale è rimasta comunque una Confindustria delle grandi, nonostante i tentativi più o meno infelici di correggere il tiro. Non lo è stata la politica, dove vezzeggiare l’idea dell’imprenditore eroe solitario che ce la fa nonostante, è piacevole. Perché gli dai ragione quando protesta. Non lo è dall’altra parte quando comunque l’imprenditore non è meritevole di una particolare attenzione. Quindi né la destra né la sinistra si sono sforzate molto di capire perché ce l’abbiamo fatta. E questo produce un danno micidiale al nostro Paese e alla sua classe dirigente. Ha ragione Bertone, il problema non è la piccola impresa. Il miracolo italiano è che noi abbiamo tenuto le quote di mercato nel periodo, nei venti anni in cui si è demolita la grande impresa. Non c’è più farmaceutica, non c’è più chimica, non ci sono più automobili. Quello che rimane è peraltro la parte di coda della grande impresa, che sono gli acciai, su cui siamo abbarbicati con esiti che non sappiamo se saranno fausti. Non c’è più la grande impresa e ciò nonostante le imprese italiane, la manifattura italiana ce l’ha fatta. La manifattura, non i servizi, quelli che competono di giorno in giorno. Mi spiegate perché? A questa domanda nessuno in Italia, né gli economisti né i banchieri né gli imprenditori, rispondono. Perché tendono a dire: io sono un eroe, ti spiego cosa ho dovuto fare tutti i giorni per evitare i danni. Se si ribaltasse la logica questo Paese ne avrebbe un grande beneficio. Io credo che questo ci indurrebbe a riproporci le virtù delle comunità locali, quelle che danno la forza, quelle che hanno reso coeso il tessuto sociale. Perché noi si favoleggia un Paese con tensioni sociali che minano la competitività. Ma dove? Questo è un Paese in cui trionfa un’idea di comunità. Olivetti ci ha provato nella grande impresa e forse non era il terreno giusto. Ma nella piccola impresa e media, l’imprenditore prima di licenziarne uno o una tira la cinghia lui. Un lavoratore prima di negare uno straordinario, ci pensa su due volte. Questo è un mondo, della piccola-media impresa e delle comunità locali, straordinario, esemplare dal punto di vista della struttura. Il fatto che questa virtù sia invece stata inserita in un sistema di comunicazione un po’ piagnucoloso, rivendicativo, a volte eroicomico, dice: “In fondo fai l’imprenditore. Lo fai, guadagni, perdi, lo fai. Non ti dare neanche troppe arie. Però è andata bene. Abbi consapevolezza di ciò che il tuo Paese ti ha dato”. Questo secondo me manca enormemente alle classi dirigenti in questo Paese, nel Paese in cui non c’è più niente di grande e c’è solo il piccolo e quindi è al piccolo che spetta ricostituire la coscienza collettiva del Paese. La chiudo sulla questione del sud, dove ovviamente il Pil italiano scende, l’anno scorso dell’1.8, al nord-ovest scende dello 0.6 quindi esce in positivo dall’anno, il sud fa -4. Quindi sono due Paesi diversi. Riguarda questo anche le piccole e medie imprese? Perbacco, sì! L’immigrazione riguarda la piccola e media impresa sì o no? Questa piccola e media impresa che ha tenuto su il Paese in modo straordinario può pensare a restituire a questo Paese ciò che questo Paese all’evidenza gli ha dato? Perché si racconta del volo del calabrone, ma è come il calabrone che non si sa perché vola. Ma perbacco se lo si sa perché vola! Perché ha un rapporto tra la velocità di movimento delle ali e il corpo che consente di volare. La scienza e la teoria, l’onestà intellettuale non procedono per “nonostante”, non so se è chiaro. Procedono sui “perché”, sulla spiegazione delle cause, poi sempre imperfetta. Quello che manca al nostro Paese e che è un buco spaventoso, è una diagnosi corretta e onesta di ciò che al sistema delle imprese italiano il Paese, con le sue contraddizioni e i suoi mille campanili e le sue mille difficoltà, ha dato. E’ da questo che anche questo pezzo fondamentale del Paese può ricominciare o cominciare finalmente ed esercitare un ruolo di classe dirigente senza il quale nessuno si incaricherà di farlo. Grazie.
UGO BERTONE:
Grazie al dottor Modiano. A sostegno del suo discorso potrei finire con l’esempio di Ivrea. Parlando con Chris Anderson, uno dei padri storici della New Economy di Wired, al momento di lanciare il Wired italiano, si è pensato “ma cosa raccontiamo? Cosa scriviamo?” e Anderson ha detto: “A Ivrea avete Arduino che è più importante di Silicon Valley, cioè un signore che ha inventato un chip che non costa nulla e che è alla base di moltissime applicazioni elettroniche”. Per completare quel discorso direi che forse, oltre che celebrare il territorio, bisognerebbe chiedere a questo punto che cosa serve al territorio e che cosa serve alle piccole e medie imprese per svilupparsi in quella direzione. Ma con il dottor Snaidero si può fare un passo più in là, non solo perché è un industriale, un nome celebre, diciamo un grande industriale, ma soprattutto perché è rappresentante di Federlegno, cioè un tentativo non soltanto associativo ma anche di mettere insieme energie e intelligenze, cosa che è estremamente importante perché uno dei grandi shock che ha condizionato l’impresa italiana è stata l’incapacità assoluta, forse perché non digerita neanche da noi, di portare avanti un discorso di “made in”, cioè in qualche maniera di fare pesare questa ricerca del bello, questa capacità di tradurre il bello in un valore immateriale riconosciuto a livello internazionale, almeno europeo, ma comunque ormai in mercato globale. Noi tutto sommato ce ne siamo accorti qualche anno dopo, è servito per qualche lirico libro del professor Tremonti, ma bene o male una iniziativa forte, chiamiamola pure di lobbysmo, è un po’ mancata. Nel frattempo, però, Federlegno è il classico esempio di qualcuno che cerca di aiutare l’uscita sul mercato internazionale. Con quali successi e quali problemi?
ROBERTO SNAIDERO:
Bene! Signori buongiorno! Prima di iniziare a rispondere alla domanda del dottor Bertone e alle domande del dottor Modiano, volevo presentare un filmato che abbiamo fatto in Federazione e tra l’altro siamo qui presenti allo stand C1, dove presentiamo “Il mio mondo, il nostro mondo, il mondo del legno”, prego.
Video
ROBERTO SNAIDERO:
Grazie! Ecco questo è il mio mondo, il mondo in cui io sono nato, perché mio padre era un falegname e, come già raccontavo in altre occasioni, lui ha creato il gruppo che ha creato. Pochi anni fa anche io sono diventato imprenditore, con grandi sacrifici naturalmente. Volevo rispondere al dottor Modiano, il mio settore è un settore composto da 3000 aziende e 3000 associati, mediamente circa trentasette dipendenti per azienda, quindi se escludiamo quei 5, 6, 7 gruppi che vanno oltre i 200 dipendenti, la media è meno di 20. Ma qual è la forza di questo nostro settore? Bernardi diceva prima la bellezza. Noi vendiamo bellezza in giro per il mondo, noi siamo un settore che esportiamo oltre 11 miliardi di arredamenti. Siamo copiati interamente da tutti. Perché? Perché c’è un’innovazione continua di prodotti che vengono presentati al pubblico. Poi abbiamo chiaramente gran parte di quei signori visitatori che vengono dal sud est asiatico, e con questi telefonini ci copiano, fanno la foto, dieci minuti dopo è già in Cina piuttosto che in Vietnam e vengono fuori delle copie, ce le troviamo sul mercato al 20% in meno. Ma nonostante questo siamo la nazione che è più copiata, siamo i più copiati nel mondo. Perché questo nostro settore ha questa forza vitale? Questa grande voglia di crescere? Voi dovete sapere che le aziende del mio settore sono radicate sul territorio, esclusa qualcuna che è stata acquistata recentemente da un gruppo americano, tutte sono di proprietà italiana. I manager esistono ma a fianco dell’imprenditore. Alcuni anni fa ero a Colonia assieme ai miei collaboratori di Federazione e parlavo con un architetto tedesco. Se voi prendete i cataloghi delle aziende italiane nel settore dell’arredamento, vedrete che il 40-50-60% dei progettisti designer sono stranieri. E uno si domanda: ma come, non abbiamo anche noi designer italiani che possono progettare per le aziende italiane? Io ho chiesto a questo architetto tedesco, che tra l’altro faceva parte dell’ufficio studi della Mercedes, e gli ho chiesto: come mai? E lui dice molto semplicemente: perché noi in Italia troviamo l’imprenditore che è capace di interpretare quello che noi mettiamo sulla carta, perché c’è quella qualità, quella cultura che voi italiani avete e che i tedeschi non hanno. Giustamente diceva prima il dottor Modiano, in Germania ci sono 2500 grandi aziende (io parlo del mio settore, forse ce ne sono di meno). Ma di piccole-medie imprese, dove l’imprenditore sa che il legno, ha un’anima, ce ne sono poche. L’anima è data dall’imprenditore che sa lavorare questo legno e fare quelle magnifiche cose che ci vengono invidiate da tutto il mondo. Come Federazione noi ogni anno organizziamo il Forum dell’innovazione, perché vogliamo, dobbiamo essere davanti a tutti, perché purtroppo, ripeto, abbiamo tanti che dietro a noi ci vogliono copiare. Ma noi siamo più forti di loro. E questa è la forza di questi grandi uomini che hanno fatto il mio settore, grandi uomini che tuttora esistono. Nel nord-est, sono accaduti diversi casi di imprenditori che si sono tolti la vita perché non hanno avuto la forza, dopo aver messo a disposizione il loro patrimonio personale, di salvare la propria azienda. Questo è il vero imprenditore, l’imprenditore che ha saputo dare, che sa dare se stesso all’azienda. Io mi ricordo di mio padre che era amico di tutti i suoi collaboratori. Ne aveva, ne abbiamo 550, e lui ogni mattina alle 7 andava in fabbrica a salutare i suoi amici con cui era nato inizialmente e con cui lavorava ancora. Ecco, questa è la forza, e io credo che se manterremo ciò con i nostri giovani, se sapremo trasmettere questi valori, io sono sicuro che l’Italia delle medie e piccole imprese salverà l’impresa Italia. Purtroppo oggi abbiamo dei grossi problemi. Come sapete noi esportavamo in Russia, rappresentavamo il 10% di tutto l’esportato dall’Italia verso la Russia, dove esportavamo 1 miliardo e 200 milioni di dollari, quindi dove il totale delle esportazioni sono 12 miliardi. Oggi purtroppo, con queste situazioni che ci sono, la domanda è in diminuzione. Esportavamo nel Medioriente, dove voi sapete cosa c’è. Mi tocca, ci tocca, andare ad aprire nuovi mercati in Cina. Sappiamo che è la tana dei leoni, ma lo facciamo lo stesso. Abbiamo investito come Federazione su questo mercato, i miei colleghi hanno creduto nella Federazione. Secondo i primi dati 2014, rispetto al 2013 abbiamo una crescita del 30% dell’esportato dall’Italia verso la Cina. Ecco questa è la forza di questo nostro grande Paese che è composto sì dai nostri collaboratori, ma è tale perché l’imprenditore italiano sa individuare, anticipare i tempi. E noi su questo ci stiamo, vogliamo lavorare, perché ci crediamo nel Paese Italia. Grazie.
UGO BERTONE:
Grazie per questa case history straordinaria. Mi fa venire in mente che se ci ponessimo anche il problema di far ripartire un po’ il mercato interno, insomma, non guasterebbe, allo stato delle cose. Ecco, questa carrellata di grandissimo interesse presenta tutto sommato alla fine un bilancio duplice. Da una parte, bene o male, c’è una certa frustrazione dell’imprenditore perché non è più percepito come il faro, come il traino, come l’aratro di una certa situazione sociale. C’è, non citiamo pure il ’68, diciamo che c’è una deriva cinematografica dell’affamatore, dell’evasore, della brutta figura che non è. Anche perché, e qui mi riallaccio a quanto detto da Modiano, se andiamo a vedere i dati della bilancia dei pagamenti e i dati della bilancia commerciale, bene o male tutti, tutti i Paesi europei, con l’eccezione della Germania che è troppo birichina in altro senso, tutti vorrebbero avere i nostri numeri, e questo a fronte dei vincoli di bilancio che abbiamo, a differenza di Spagna o Francia, che abbiamo inseguito, perseguito e a cui abbiamo obbedito. Questo lo dobbiamo alle imprese. Quindi continua a esserci un ruolo trainante in positivo e una percezione, tutto sommato, brutta, a mio avviso meno brutta di quanto voi non pensiate, però diciamo pure brutta. Io vorrei un po’ capire una misura, un’idea, una spiegazione, un desiderio per ritrovarci qui tra qualche anno e vedere una percezione diversa. E lascerei questo compito da un milione di dollari per concludere ovviamente all’ispiratore del volume.
FRANCESCO BERNARDI:
Due pillole. Una defiscalizzazione coraggiosa con il rischio di non avere delle entrate ma con invece la possibilità di avere più entrate perché meno tasse danno più equità e quindi più ripresa e quindi più contributi. La seconda cosa è aprire le porte alla scuola, cioè trovare il modo di fare quella che si chiama l’alternanza scolastica, cioè di fare sì che durante l’anno ci possano essere delle possibilità per le scuole di mandare, anche durante le scuole medie superiori, di aprire durante l’anno la possibilità di fare degli stage rapidi ai ragazzi per venire dentro le aziende. Sarebbe un beneficio per l’azienda perché, quando ci si racconta, si prende più consapevolezza del proprio lavoro e un’attività positiva per i ragazzi.
NARDO FILIPPETTI:
Nell’ambito del turismo, colgo la formazione. Ma la formazione è dettata solo dalle persone che lavorano in quel progetto turistico. Tutti dicono che il turismo dovrebbe essere la panacea di tutti i mali, perché siamo ricchi di bellezze, coste, cose magnifiche, però abbiamo perso quelli che erano i valori che avevano contraddistinto questa crescita. Quindi il senso dell’ospitalità, dell’educazione, del rispetto dell’altro e della condivisione della bellezza di un territorio. Come imprenditore, l’eccesso di burocrazia. Io sono anni che sto cercando di investire in Italia su dei progetti importanti e la cosa che maggiormente mi penalizza e che, tra virgolette, tarpa le ali a chi ha voglia di fare, è l’eccesso di burocratizzazione. Non possiamo più operare perché lacci e laccioli sono impressionanti.
FRANCESCO CONFUORTI:
Formare, all’interno delle scuole, dei punti di riferimento per l’imprenditorialità. Cioè, lasciare che questi ragazzi, che sognano e hanno una capacità propulsiva, oltre ad imparare l’inglese e l’italiano, imparino anche a pensare l’impresa. Cioè proprio inserirli nella cultura del pensare impresa, di non pensare a fare il manager, a fare il dipendente ma pensare come leader, come impresa. Questo secondo me è un passaggio fondamentale. Ultima questione importante è insegnare ai nostri giovani a non discriminare il differente ma a vederlo come un’opportunità per un mondo differente.
UGO BERTONE:
Dottor Modiano, non dica aeroporti migliori.
PIETRO MODIANO:
Una cosa che bisogna fare subito è che riparta la domanda interna. Allora, la domanda estera: il mondo è cresciuto dopo la crisi finanziaria del 20%, il mercato interno è sceso del 10%, per cui se un’impresa anche virtuosissima ha il 50%, non dico l’80%, del suo fatturato fatto in Italia, si è sgretolata, anche se è virtuosissima, anche se è capace di competere. Se è rimasta intrappolata sul mercato interno, ancorché buona, ha una difficoltà probabilmente oggi insormontabile e bisogna fare in fretta perché queste condizioni si invertano. Il che significa tantissime cose, soprattutto rimettere quattrini nelle tasche di chi spende, e cioè della gente meno abbiente. Noi abbiamo un problema di redistribuzione del reddito in questo Paese che ha molto a che fare anche con gli interessi del ciclo economico e non solo della giustizia distributiva. Questo secondo me è una cosa da fare subito, dal punto di vista delle politiche economiche. Rilanciamo il mercato interno e i consumi interni, altrimenti va male anche l’impresa brava. Sud, più a lungo termine occupiamoci del Sud, perché non si può accettare che un terzo del Paese si stia sgretolando nell’indifferenza totale delle classi dirigenti, incluse quelle del Sud. Come se ormai il nostro Paese fosse fatto da Nord-Ovest che se la cava, Nord-Est che arrancando se la caverà, dal Centro che è fatto di molte cose e dal Sud che non esiste più. Fra qualche anno l’Italia ci sarà ancora se il Sud avrà ritrovato la propria capacità di crescere. Non è facile la questione. Poi la scuola dia dignità al lavoro, insegni a queste nuove generazioni la dignità del lavoro e che l’ascensore sociale non è fatto solo di politica o spettacolo, ma è fatto di quello che ha consentito ai nostri artigiani di essere eccellenti, che è anche il lavoro manuale, quindi scuola tecnica e professionale, che torni ai ruoli di prestigio che ha avuto in moltissime città, io penso a Milano, in tutto il dopoguerra e oltre e che oggi sta perdendo peso e dignità. La dignità del lavoro manuale, quello eccellente, va insegnata e reinsegnata nelle scuole.
UGO BERTONE:
A lei l’ultimo tocco, lei che deve costruire scale, la scala sociale.
ROBERTO SNAIDERO:
Due sono le cose. Noi come Federazione stiamo investendo molto nel settore formativo. Abbiamo stanziato in più anni circa 500.000 euro per dare la possibilità ai giovani di imparare il nostro mestiere. Qui da Rimini parte un progetto di Federlegno per 50 giovani che vogliamo inserire presso le aziende dei nostri associati, dopo un periodo di formazione e stage. E questo è per quanto riguarda i giovani. Ma io guardo ai giovani perché sono il futuro nostro. Io ormai sono nonno, ho 66 anni, quindi ormai il mio mondo è passato. Ai giovani guardo con molta attenzione. Voi avrete letto che Federlegno Arredo ha ottenuto l’operazione bonus mobili del 50% su 10.000 euro di investimento per l’acquisto dell’arredamento, ma io avevo chiesto al governo un’altra cosa, sempre che riguarda le giovani coppie: l’Iva agevolata nel momento in cui investono per arredare la propria casa. Oggi ci sono le possibilità di acquistare l’appartamento con mutui agevolati o non agevolati, ma non si fa mai riferimento a quello che è l’arredamento interno. Come esiste già in altri Paesi, non è che facciamo niente di diverso. Siamo in Europa, parlavamo ieri sera dell’Europa, abbiamo sistemi fiscali completamente diversi da Paese a Paese, abbiamo le Banche Centrali diverse da un Paese all’altro. Ecco, dico, c’è il problema fiscale, in Francia, per l’arredamento, le giovani coppie hanno il 6% dell’Iva. Ecco, noi chiediamo per adeguare alle nuove aliquote che verranno applicate sulla riforma fiscale, l’8% per l’investimento delle giovani coppie per l’acquisto anche dell’arredamento. Questo noi chiediamo per smuovere proprio il mercato interno. Di questo abbiamo bisogno. Il bonus mobili ha portato negli ultimi tre mesi dell’anno scorso un maggior fatturato di 300 milioni di euro per il settore arredamento, con un gettito di Iva di 66 milioni. Allora io credo che i consulenti del Presidente Renzi possano capire questi numeri, perché se vogliamo fare delle cose statiche non andremo mai avanti, se pensiamo invece al futuro dinamico, queste sono le cose da fare per quanto riguarda il mio settore. Grazie.
UGO BERTONE:
Va bene, possiamo chiudere qua, ringraziare il pubblico che è stato paziente, ma anche se non credo sia stato un particolare problema, e dire che, bene o male, possiamo togliere il punto interrogativo: l’imprenditore è una risorsa, non è un problema.