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OSPEDALI, MEDICI E CURA. COME GIULIA CANCELLÒ OGNI DISTANZA
Ospedali, medici e cura. Come Giulia cancellò ogni distanza
Partecipano: Pieremilio Cornelli, Pediatra; Sara Gabrieli, Madre di Giulia; Massimo Provenzi, Dirigente Medico e Responsabile Oncoematologia USC Pediatria degli Ospedali Riuniti di Bergamo; Bruna Togni, Infermiera. Introduce Paola Marenco, Associazione Medicina e Persona.
OSPEDALI, MEDICI E CURA. COME GIULIA CANCELLÒ OGNI DISTANZA
Ore: 19.00 Sala D3
Partecipano: Pieremilio Cornelli, Pediatra; Sara Gabrieli, Madre di Giulia; Massimo
Provenzi, Dirigente Medico e Responsabile Oncoematologia USC Pediatria degli
Ospedali Riuniti di Bergamo; Bruna Togni, Infermiera. Introduce Paola Marenco,
Associazione Medicina e Persona.
PAOLA MARENCO:
Buonasera a tutti, incominciamo subito perché il tempo è sempre stretto per queste cose.
Siamo qui per guardare insieme una cosa che è accaduta. Perciò prima di guardare il
contraccolpo che ha avuto su medici, infermieri, e anche direttori di ospedale che l’hanno
curata, vogliamo conoscere chi è Giulia. Giulia Gabrieli è nata a Bergamo nel 1997, aveva
perciò 12 anni quando nel 2009 le fu diagnosticato un sarcoma al braccio. Terapie pesanti,
la speranza di una guarigione e poi una ricaduta. A giugno del 2011 passava a pieni voti
l’esame di terza media e il 19 agosto dello stesso anno, a 14 anni, moriva, o meglio,
incontrava il suo Signore, cosa che, come diceva lei, era bellissima, proprio come sarebbe
stato un bel finale poter guarire, per i tanti bei progetti che aveva nella vita, da realizzare a
piene mani. Giulia è morta proprio mentre alla Gmg di Madrid si concludeva la via crucis
dei giovani, aveva terminato il giorno prima di scrivere una coroncina di ringraziamento al
Signore. Ma questi dati non dicono ancora chi è Giulia. E possiamo ben dire che Giulia ha
veramente tenuto a presentarsi da sé. Aveva già vinto nel 2009 un premio letterario per la
sezione scuole medie e ha voluto tenacemente scrivere un libro sulla sua avventura di
malata. “Sogno di scrivere” ha detto “un libro per dire che Lui c’è, per dire che ci sta
sempre accanto”. Quando non riusciva più a scrivere, ne ha registrato delle parti e
dobbiamo anche ringraziare Paolo Finazzi, giornalista del Corriere della Sera della
sezione di Bergamo, che per facilitare il completamento del libro, un giorno, mentre erano
al Santuario della Madonna di Stezzano, le ha posto alcune domande – da notare che lei
non conosceva le domande! A queste domande Giulia ha risposto in maniera così
sorprendente che ne è nato un video, costruito con musiche e foto che lei stessa ha voluto
scegliere. Anzi, come dice il suo papà, non è un video, ma è Giulia, il suo regalo, che ha
permesso già più di 200 incontri. Tale infatti era la sua passione per la testimonianza che
ci ha donato se stessa anche in questo video, grazie al lavoro dell’amico di famiglia
Nazareno Cortinovis. Evidentemente questa sera non possiamo vedere tutto il video, però
ho voluto che ne fosse fatto un piccolo spezzone per permettere a tutti di intuire chi è
Giulia, e di questo dobbiamo ringraziare i genitori, il papà che è in sala e la mamma che è
qui. Poi potrete conoscerla meglio anche leggendo il suo libro che è disponibile qui.
Possiamo far partire il video.
“Video”:
Giulia:
Ciao a tutti, sono Giulia, ho 14 anni, li ho compiuti a marzo a Medjugorie, sono qui per
parlarvi della mia storia. Io sono due anni che mi sto curando presso gli Ospedali Riuniti di
Bergamo per un sarcoma. Questo sarcoma si è sviluppato nella mano sinistra e l’abbiamo
scoperto per puro caso il 1 agosto 2009, perché dalla mattina al mezzogiorno io stavo
leggendo un libro e mi sono accorta che avevo una mano un po’ gonfia rispetto all’altra.
Giornalista:
C’è una canzone, “Strada facendo”, cantata da Baglioni assieme a Laura Pausini, che
trasmette delle emozioni speciali, ci vuoi spiegare perché?
Giulia:
Sì, perché dice… son tante le canzoni, ma questa in particolare perché dice “strada
facendo vedrai che non sei più da solo”, mette proprio speranza, dice “strada facendo
vedrai che non sei più da solo, dai che ce la fai!”, tipo un gancio in mezzo al cielo, mi dà
leggerezza, speranza.
Giornalista:
A te piace scrivere storie fantastiche e avventurose, e hai paragonato la tua malattia a
un’avventura.
Giulia:
Sì, un’avventura in cui ho raccontato di questo giardino, che era un giardino perfetto, come
la mia vita, perché ho una famiglia, ho la possibilità di studiare, ho tanti amici, è proprio
una bella vita quella che conducevo, come il giardino che descrivevo in questo racconto.
Solo che a un certo punto qualcosa … cambia tutto, da un giorno all’altro cambia tutto e
questo Eden diventa un Ade degli antichi greci e la vita diventa una sofferenza.
Giornalista:
Ecco tu parli molto serenamente della tua malattia, ma la gente tante volte ha paura, e
questo non è un bene per chi è malato.
Giulia:
Io penso di no, almeno io parlo per la mia esperienza, e a me fa proprio bene parlarne. A
parte che a me piace parlare e questo è fuori di dubbio, e parlarne mi serve per sfogarmi,
buttare fuori tutte le emozioni, e poi anche a sensibilizzare le altre persone, che è molto
importante, perché io, parlando anche della mia esperienza, prima di entrare in ospedale
veramente non sapevo quanta sofferenza ci potesse essere… queste malattie le vedevo
talmente rare, che colpivano una persona su mille, in realtà, io sono rimasta allibita da
quante persone ogni giorno lottano contro queste malattie.
Giornalista:
Senti tu sei capace anche un po’ di sdrammatizzare sulla tua malattia, tu dici che qualche
volta bisogna essere capaci di riderci sopra.
Giulia:
Eh sì, è molto importante, perché, appunto, tornando sulla storia di prima, se continui a
pensare a “sto male, povera me, povera me”, ti deprimi e continui a deprimerti! E dopo stai
peggio! Se invece ogni tanto pensi “eh, via, è andata com’è andata!” via, basta, è passato,
adesso sto bene. Pensare al presente ecco, adesso come sto? Sto bene, basta, mi godo
questo momento. Sto male? Eh pazienza, domani spero di stare meglio, basta, vivo
questo momento così. Ciò che ci spinge a continuare e ad andare avanti siete proprio voi,
le persone che vedo attorno, perché se vedo tante persone che sono attorno che mi
dicono “dai, forza che ce la fai!”, allora mi fa pensare che sono importante per loro, mi fa
pensare che devo andare avanti e devo guarire per tornare a fare tutto quello che facevo
prima assieme a loro. Se invece vedo che alle persone non gliene frega niente di me, non
mi chiamano mai e non mi dicono niente, allora tanto vale, dico…
Giornalista:
Parliamo un po’ dei tuoi medici. Tu dici sempre che sono supereroi.
Giulia:
Eh sì, sono i miei supereroi, perché comunque se ci fate caso non c’è tanta differenza fra
un supereroe e un medico. I supereroi salvano tutti i giorni la vita a delle persone anche
sconosciute, anche in maniera un po’ particolare. Lo stesso fanno i medici, anche loro tutti
i giorni salvano la vita a delle persone anche estranee, è solo che al posto di fare come
Spiderman o come Batman hanno le medicine, anche queste medicine sono un po’
magiche. Prima c’è la malattia, prendi le medicine e non c’è più niente.
Giornalista:
Domani ci sono gli esami di terza media, i tuoi voti sono eccellenti. Tu presenterai una
tesina che è un po’ particolare.
Giulia:
Sì, parla degli orrori delle grandi guerre, in particolare della seconda guerra mondiale e
della Shoah. Agli inizi io ho voluto fare la tesina su questo argomento proprio per il fatto
che le persone non devono dimenticare ciò che è avvenuto in quegli anni, perché non
deve mai più succedere, ma poi scrivendola io mi sono immedesimata in quello che stavo
scrivendo. Parlando delle sofferenze riportate, parla anche della mia sofferenza, un passo
alla volta è diventata una tesina che parla di me.
Giornalista:
C’è un famoso quadro di Picasso, Guernica, di cui parli in questa tesina, e tu nel quadro
vedi la spada spezzata del soldato, nella cui potenza risulta la monarchia, ma anche il fiore
della speranza.
Giulia:
Appunto come stavi dicendo, ho visto in questo quadro la spada spezzata perché come a
Guernica gli abitanti sono stati presi all’improvviso, non hanno avuto il tempo di andare
contro, di combattere con le armi, erano impotenti, lo stesso è quello che è successo a me
quando ho scoperto lo mattina, di botto, di essere ammalata e subito ho iniziato le
chemioterapie, e non ho potuto fare nient’altro.
Però, oltre la spada in Guernica c’è anche questo fiore, il fiore che simboleggia la
speranza per un futuro migliore, la speranza per un futuro in cui non ci siano le guerre.
Invece, dal mio lato la speranza è perché si possa capire perché queste malattie si
formano e cercare di prevenirle e magari curarle anche nella maniera meno sofferente,
meno dolorosa e magari anche un po’ più rapida, più certa, se possibile.
Giornalista:
Ecco, parliamo un po’ della scuola in ospedale, che è una realtà ancora poco conosciuta.
Giulia:
Sì, purtroppo quando si parla della scuola in ospedale, che è proprio una scuola che ha
sede presso l’ospedale di Bergamo, nessuno sa che esiste questa scuola, che è una
realtà che fa veramente tanto, perché oltre a guardare all’aspetto didattico, perché insegna
proprio come tu fai scuola, guarda all’aspetto emotivo, ai sentimenti, alle emozioni che sta
provando in quel momento il paziente. E poi, come dico sempre, è una scuola particolare,
una scuola magica, perché al posto dei banchi ci sono dei letti e al posto delle divise ci
sono dei graziosi pigiami. Questa scuola si svolge a tu per tu, c’è un insegnante e tu
alunno, siete solo voi due che colloquiate, parlate. È bello anche perché s’instaura non più
un rapporto tra professore e alunno, ma anche un legame, perché essendo anche a tu per
tu si scambiano un po’ le opinioni.
Giornalista:
In una di queste notti non riuscivi a dormire per il dolore, e hai pensato all’amore. Ecco,
spiegaci cos’è l’amore.
Giulia:
Ecco, l’amore è il più grande sentimento, più grande e più bel sentimento che esiste su
questa terra, perché racchiude sia gesti che altri sentimenti. Tutto sta nell’amore. Io faccio
un pensiero d’amore, faccio un gesto d’amore, provo amore nel parlare, provo serenità,
provo allegria, e come provare amore? È tutto amore, tutto rapporta a un amore, tutto
porta all’amore, e guarda caso anche Dio si chiama Dio amore. Per me la parola amore
potrebbe essere proprio un modo per chiamare il Signore, Dio amore, Dio Signore, amore,
papà, è dall’amore che si genera la vita. L’amore tra una donna e un uomo genera la vita,
ciò che Dio ha creato, la cosa più bella del mondo, la vita.
PAOLA MARENCO:
Perché abbiamo voluto quest’incontro per gli operatori sanitari, proprio a partire da Giulia?
E proprio in questo Meeting dal titolo provocatorio e ambivalente “Emergenza uomo”?
Perché Giulia, che è una ragazza come avete visto normale e allo stesso tempo
straordinaria, ci rivela bene, più di molte parole, di molti programmi sulla sanità, che cosa
è l’uomo, come emerge la grandezza dell’umanità dell’uomo. E questo penso sia
importantissimo per chi lavora con i malati, come noi, perché è possibile curare l’uomo
solo se sappiamo chi è l’uomo, se non lo riduciamo ma cerchiamo piuttosto umilmente di
conoscerlo davvero. Conoscere il suo cuore, il suo desiderio, là dove l’esigenza di
bellezza e felicità gridano di fronte alla sofferenza e cercano risposte. E questo è tanto più
vero in un tempo di crisi, di risorse scarse, perciò ci è sembrato che in questo fatto
accaduto ci fosse un segreto importante da cogliere anche per questa emergenza
sanitaria. Stiamo infatti all’ospedale di Bergamo, Ospedale Nuovo Giovanni XXIII. Abbiamo
potuto vedere con i nostri occhi che è accaduto qualcosa, anzi qualcuno, Giulia, che ha
perturbato un ospedale, generando un sorprendente cambiamento semplicemente col
vivere la sua vita che, come dice lei, a un certo punto, non per caso, comprendeva anche
l’avventura della malattia. Oltre ad aver scosso e fatto cambiare punto di vista ai suoi
genitori, come dicono loro, ha insistentemente abbattuto il muro costruito da chi la curava.
Per questo abbiamo invitato qui quelli che non solo l’hanno incontrata e ne sono stati
perturbati e, dicono, piuttosto violentemente – usano la parola trascinati – ma hanno avuto
la lealtà e l’apertura di riconoscere che lì si stava giocando qualcosa d’importante per loro,
per la loro stessa vita e per il loro lavoro. Sono i pediatri e le infermiere che l’hanno curata.
Ognuno di noi s’imbatte ogni giorno in fatti sorprendenti, ma non è scontato lasciarsi
veramente interrogare, anzi spostare da questi fatti. Lasciar cambiare il proprio modo di
lavorare, di organizzare l’ospedale e di vivere. Si è improvvisamente spiazzati quando un
uomo emerge, quando uno è pienamente compiuto, indiviso, quando appare
sorprendentemente a suo agio in situazioni così difficili, e che da un lato ci sorprende,
dall’altro risulta essere sorprendentemente corrispondente a quello che il nostro cuore
desidera. Questa è un’esperienza che facciamo tutti, perché un “io” indiviso sfida il cuore
di chi lo incontra, come questo Meeting documenta, almeno per un istante fa intravedere
la possibilità di una forma nuova, efficace, soddisfacente del proprio gesto professionale,
qualcosa per cui vale veramente la pena di alzarsi al mattino per andare al lavoro. Ecco,
loro che sono qui non hanno lasciato cadere quello che hanno visto, tanto che è per Giulia
che sono venuti qui. Ma ve li presento come li vedeva Giulia, la squadra dei suoi
supereroi. Perché supereroi? L’avete sentito. Tre motivi secondo Giulia. Perché talvolta
sanno salvare vite umane, ma anche perché ti fanno capire che sei importante per loro, e
questo ti aiuta ad andare avanti, e poi perché sanno essere con te sempre. Le parole di
Giulia, quando loro erano imbarazzati dal dover comunicare la notizia della ripresa della
malattia, sono state: “Niente cambia fra noi, solo vi voglio più vicini”.
Do la parola al dottor Pieremilio Cornelli, che Giulia chiamava il babbo della pediatria; per
tutti era un maestro capace di fare scuola di umanità, è in pensione, ex responsabile
dell’oncomatologia pediatrica dell’ospedale di Bergamo, ma è presente come volontario,
tutti i giorni in corsia. E di lui Giulia dice: “Ho trovato uno che fa degli abbracci più lunghi
dei miei!” Con lui contrattava la lunghezza delle flebo in base alle risposte esatte o meno
ai suoi quiz di storia.
PIEREMILIO CORNELLI:
Premetto che io, come potete vedere, sono un supereroe spelacchiato e con molte toppe
nelle mie ali. E solo la delicatezza di Giulia mi ha evitato di essere considerato nonno. Lo
dico perché qualche volta, quando ho visto i bambini piccoli che piangono, i genitori dicono
al bimbo: “È come il nonno Amilcare, non preoccuparti!”
Ma sono onorato, e Giulia mi ha concesso questo onore, di essere stato compagno di
viaggio dei miei colleghi giovani, il dottor Provenzi, giustamente definito da Giulia il lupo
alfa, e gli altri medici che oggi non sono qui, la dottoressa Gilardi, “lupa alfa”, il dottor
Foglia, la dottoressa Cavalieri e la dottoressa Morali. Sono onorato di avere lavorato con
loro.
Mi sono chiesto, prima di venire qui, richiesto perché già era successo in un altro incontro,
che cosa Giulia ha lasciato a me, ha lasciato a noi. Ho riletto più volte il suo libro, e anche
questa volta vorrei rispondere a questa domanda con delle parole chiave. La prima parola
è responsabilità. Giulia aveva una piena consapevolezza della gravità della sua malattia,
ma ha avuto anche la forza e il dono di sdrammatizzarla e di considerare la malattia un
nemico temibile, ma contro il quale si combatte ad armi pari e non si parte sconfitti. Questo
vale anche, secondo me, per noi adulti quando abbiamo la sfortuna di ammalarci
seriamente. Questo suo atteggiamento di responsabilizzazione nei confronti della malattia,
in maniera un po’ magica, ha investito specularmente anche noi medici, che ci siamo
sentiti molto spesso, il dottor Provenzi lo può confermare, come pungolati, stimolati dalla
sua presenza. Quando Giulia veniva in day hospital, parlo del day hospital, ma questo
avveniva anche in reparto, si diceva: “Stiamo attenti perché Giulia ci fa domande, bisogna
prepararci”. Ci sorprendeva sempre, ci chiedeva: “Perché questa terapia? Perché
quest’altra? Perché questo effetto collaterale?”
Il Vangelo di Luca di oggi è molto bello! Gesù rivolgendosi ai suoi discepoli dice: “Sono
venuto a portare il fuoco, anzi vorrei che fosse già acceso”. Ecco, Giulia con noi è stata in
molti momenti un po’ come quel fuoco e credo che la brace di quel fuoco sia tuttora
presente.
La seconda parola è abbraccio. Giulia sempre chiaramente, lo dice nel filmato, ha
espresso il desiderio di abbracciare e di farsi abbracciare. Forse ci ha voluto dire che la
solitudine si combatte solo con la solidarietà, da una parte, e con l’umiltà di stringersi
all’altro, dall’altra parte. La solitudine nella malattia, nel lavoro, in famiglia, nell’anziano ci
opprime quando, non solo gli altri non ci vengono incontro, ma anche quando noi non
rinunciamo all’orgoglio di poterne fare a meno. La terza parola son due parole, medicina
umana. Noi dottori abbiamo sempre difficoltà a capire quanto il paziente ha bisogno di
sentirci vicino, anche umanamente non ce la facciamo, ci impegniamo ma non sempre si
riesce. Anche perché, qualche volta, veniamo al lavoro con i pensieri personali. Ma non è
un caso che quando il medico si ammala seriamente ha la possibilità di modificare il suo
rapporto con il malato, perché ha vissuto gli stessi sentimenti di un paziente. Giulia ci ha
sempre sollecitato sotto questo aspetto, ci ha sempre chiesto, anche in modo esplicito, di
starle vicino. La quarta parola è il sogno. Lei esprimeva tanti progetti: “Sono una ragazza
sognatrice, voglio lasciare una traccia di me”. Lei non è riuscita a raggiungere il suo
desiderio, il suo ultimo desiderio era diventare pediatra oncologo, ma ha realizzato il suo
sogno più importante, lasciare tracce di se stessa. Ciascuno di noi ha dei sogni, che io
così vecchio non realizzerò più. Ma non è importante, forse il sogno più bello è che di
ciascuno di noi rimanga traccia, tra virgolette. Se rimarrà traccia di noi, come è rimasta
traccia di Giulia, vorrà dire che abbiamo voluto bene agli altri e abbiamo saputo intessere
con loro rapporti d’affetto. La quinta parola chiave è fede e amore. Nel corso della malattia,
fede e amore sono cresciuti in lei come in un intreccio fecondo. La profonda fiducia, cieca
fiducia, e l’abbandono all’amore di un Dio Padre, la convinzione che ciascuno di noi non
cammina da solo e che ciò che veramente ha valore è solo saper voler bene agli altri, a
costo di perdere qualcosa di noi stessi, è il punto critico per tutti noi. Perché perdere
qualcosa del nostro benessere, delle nostre sicurezze, è veramente qualche volta per noi
un atto d’eroismo. La parola amore, negli ultimi giorni della sua vita, l’ha detta senza
stancarsi, quasi in modo ossessivo, l’abbiamo vista, sentita anche nel filmato, quasi a
volerci dire che se voler bene agli altri non è per niente così facile, questo dovrebbe
essere comunque ogni mattina il nostro pensiero, quando noi ci alziamo. La sesta e ultima
parola è ringraziamento. In fondo la sua vita si è risolta con un’apparente sconfitta, ma
Giulia alla fine ringrazia, oltre ai genitori e al fratellino Davide, ringrazia il Signore, vive il
rapporto con la morte come l’ha vissuta san Francesco, come “sorella morte”. Questa è la
sua vera vittoria. Adesso vi leggo due paginette che sono scritte nel suo libro, che
spiegano meglio come lei ha affrontato gli ultimi giorni.
“Con la malattia ho incominciato a pensare alla morte, non avevo paura di questa cosa. Se
dovrà accadere posso dire che per me è uguale. Certo mi piacerebbe vivere una vita
lunga, realizzare tutti i miei sogni. Però, io la morte la vedo come una bella cosa e non ho
più paura di morire grazie alla Chiara Luce Badano (Chiara Luce Badano è una giovane
che da qualche anno è deceduta per tumore e ha avuto un percorso analogo a quello di
Gulia). So che dopo la morte c’è il Signore. Ritorno da Lui. Lui tanto buono mi prende tra
le sue braccia, e poi c’è la Madonnina, che bello conoscerli. Non vedo l’ora di vederli, di
poterli conoscere e dirgli grazie per tutto quello che fanno per me. Mi piacerebbe, quando
dovrà accadere, se accadrà, che il Signore mi ricevesse per quella che sono: Giulia
Gabrieli. Vorrei essere bella ed elegante, ma anche quella che sono, voglio il vestito che
ho indossato alla comunione di Davide che è tanto bello e mi sta tanto bene e poi in testa
sono un po’ indecisa, una parrucca o una bandana? Ma voglio che Lui mi riceva per quella
che sono. Ci vorrebbe proprio una bandana, sì! Una bandana bianca. E poi un bouquet di
fiori. Quattro lilium, fiori da sposa, una rosa rossa al centro. E la mia coroncina del Beato
Giovanni Paolo II e poi sono a posto. Niente trucco, niente di niente, niente borsa, niente
lustrini, così semplice! Solo quella mia coroncina al collo e basta! Niente bracciali, a parte
quello che mi ha regalato Margia di Medjugorje. Basta, solo questo mi serve. Quando sei
in Paradiso si prega tutto il giorno, così dicono, dovrei abituarmi un po’ a questa cosa, non
ne ho molta voglia. Poi va beh, le cose verranno da sé. E poi se ci si devono mettere le
scarpe, voglio le ballerine bianche, se invece non ce ne è bisogno, a piedi nudi, a piedi
nudi per essere a stretto contatto con il pavimento che ci sarà. Io mi immagino un
pavimento pieno di nuvole. Non vi viene voglia di camminarci a piedi nudi? È tutto morbido
che ci si sprofondi dentro. Si salta di qua, di là, di su, di giù. Un Paradiso come quello che
disegnano nei cartoni animati. Ecco il Paradiso, ecco, me lo immagino come … avete
presente l’era glaciale? Sì, quando il castoro trova la ghianda enorme, che ci sono tutte
queste nuvole rose, questo mega cancello dorato… Così! Questo mega cancello dorato e
tu a piedi nudi apri il cancello. Oh! È bellissimo”.
In lei, in Giulia, la spiritualità alla fine ha dominato la malattia e non solo ha ridotto, ha
annullato la distanza tra medico e paziente, alla fine ha anche avvicinato il cielo alla terra.
Grazie.
PAOLA MARENCO:
Sentiamo il dott. Massimo Provenzi, attuale responsabile dell’unità ematoncologica.
Grazie.
MASSIMO PROVENZI:
Comincio dicendo che sono fortunato perché faccio un lavoro in cui credo, e questo è da
un lato un’opportunità e anche un impegno e lavoro in una equipe di colleghi e amici che
sono stati nel tempo naturalmente selezionati e motivati, direi che il capostipite che ha
creato questo gruppo è proprio il dottor Nelli, che ho conosciuto 20 anni fa, quando sono
arrivato a Bergamo. Una cosa bella ci hanno detto i genitori di cui facciamo tesoro:
“Abbiamo sentito che tutti dicevate le stesse cose, parlavate quasi con un’unica voce.”..
Questo per me è il vero senso del lavorare in equipe. La storia della cura di Giulia fa
suonare dentro di noi le corde profonde della motivazione alla professione medica. Perché
fai questo lavoro in oncoematologia pediatrica? C’è una grande gioia per una guarigione,
che oggi si ottiene anche nel 75% dei casi, ma c’è dolore e sofferenza per le sconfitte,
rimane uno zoccolo duro di malattia non guaribile, non nascondiamolo parlando solo dei
successi della scienza. Ma il tema di stasera è come Giulia cancellò ogni distanza. Allora,
qual è la giusta distanza tra l’oncologo pediatra, il medico e la sua famiglia? Mi viene in
mente una circostanza, forse un anno prima che inizi questa storia, questa vicenda, in cui
cerco di consolare una collega che entra in crisi e vacilla per la morte di un bambino e
dico: il paziente, la famiglia, vogliono da noi la miglior cura, noi siamo dei tecnici e non
dobbiamo affezionarci troppo per non essere travolti e mantenere la lucidità necessaria.
Ma mentre sento dentro di me il suono delle parole che pronuncio, penso: “Ma è proprio
così?” No, non è mai così, so che non è vero: non ho mai imparato per fortuna a non
essere coinvolto. Ma allora qual è la giusta distanza? Se quando viaggiate in aereo come
me mantenete un po’ di timore, allora leggete attentamente le istruzioni, che
raccomandano ai genitori, anche in caso di incidente e di pressurizzazione dell’aereo, di
indossare la mascherina dell’ossigeno per primi, poi metterla al bambino seduto accanto.
Ma come? Questo mi aveva molto turbato, ma se ci pensiamo, per soccorrere bene il
bambino il soccorritore deve essere lucido e ben ossigenato. E allora il medico deve
mantenere una propria lucidità, questo però non significa indurire il proprio cuore e
renderlo impermeabile alla sofferenza altrui, ridurre l’atto medico a puro tecnicismo, e di
fronte anche – come succede – di fronte a una malattia non guaribile, utilizzare la fuga
come meccanismo di difesa. Certo il medico che piange con il paziente non è utile, ma è
importante esserci con la propria compassione e con la propria umanità. La compassione
è un sentimento per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui,
provando pena e il desiderio di alleviarla. Questo secondo me è una cosa molto vera e
molto bella. Questa vicenda parla di tutte queste cose e di una ragazzina che aveva delle
idee molto chiare e anche molto personali sul corretto rapporto medico-paziente, e al
tempo stesso è testimonianza di qualcosa di molto più grande di noi, che ha mutato forse
definitivamente il nostro modo di vivere come sanitari, arricchendolo. Giulia era una
ragazzina alla soglia dell’adolescenza, piena di bellezza e di gioia di vivere e nel momento
in cui la vita è al massimo della potenzialità e della prospettiva, come quando uno si
sveglia al mattino e ha davanti a sé tutta una nuova giornata da spendere. Niente stride di
più che ammalarsi nella primavera della vita. Scrive favole, racconti fantastici in cui vi è
madre natura generosa e spietata al tempo stesso. Nel racconto la protagonista si perde in
un bosco e viene salvata dai suoi supereroi che siamo noi medici. Come fai a non farti
coinvolgere? Certo, il coinvolgimento è pericoloso: e se la malattia va male? La delusione,
il crollo del mito, la perdita della fiducia saranno un ulteriore fardello per lei, bisogna
riportarla a un senso di realtà, questo ci diciamo. Ma ecco che la cura va bene, la malattia
va regredendo per poi sparire in quella situazione che noi medici chiamiamo remissione
completa di malattia, ed ecco che insieme gioiamo e accarezziamo l’idea della possibile
guarigione, anche se le nostre inquietudini restano, le statistiche e i dati scientifici parlano
chiaro, ma senza ottimismo non si può fare questo lavoro, e, come dice Antonio, il papà di
Giulia, occorre la Speranza con tutte le lettere maiuscole. Ma la belva, il mostro, la malattia
sta covando e si prepara a tornare più cattiva di prima. Ora cosa succederà nel rapporto
con Giulia? Ora si sentirà delusa, tradita, tutto quello che ho fatto non è servito a nulla. “Lo
sapevo, non dovevamo farci coinvolgere fino a questo punto”. Ed ecco che Giulia ci
sorprende, ci spiazza: “Guardate che voi siete lo stesso i miei supereroi, io sono pronta a
ricominciare le cure, solo vi voglio più vicino ancora”, e poi ci abbraccia. È una ragazza
dalla fede profonda si sa. “La chemioterapia, la radioterapia e un viaggio a Medjugorje non
guasta, corrobora la cura, in fondo qualche caso impossibile che abbiamo incontrato nella
nostra vita professionale è guarito, perché non Giulia, così vicina a Dio?”, penso con
superficialità; ma qui il disegno è di più, è altro, parla di vicende dello spirito ma non in
modo fanatico e bigotto, con la sconcertante semplicità delle cose che uno vive tutti i
giorni. Una mattina, nell’anniversario di matrimonio dei genitori, commossa, con le lacrime
agli occhi mi dice: “L’amore tra un uomo e una donna genera la vita”. Un’affermazione che
ha la disarmante semplicità della perfezione. Ma di cosa parla questa ragazzina di 12
anni? Comincia a raccontarci di una missione, di una testimonianza, “in questo reparto ci
vuole più presenza dello Spirito, più speranza”, bello stimolo. A un certo punto dice
qualcosa che ancora non comprendo del tutto: “Sì, io amo la vita, ho tante cose da fare,
da dire, voglio guarire, ma se queste cose non sono date a me, non importa, io ho
conosciuto l’amore di Dio e andare da Lui è altrettanto bello”. Io, che nel mio Dna ho
l’obiettivo guarigione quasi a qualsiasi prezzo, mi sento improvvisamente piccolo di fronte
alla vertigine del mistero di queste parole. Proseguiamo la cura, ma ora sappiamo che la
malattia non guarirà: curare una malattia che non guarisce, qual è il senso? Ci è stato
insegnato a curare il corpo somministrando i farmaci giusti, allo psicologo e allo psichiatra
la cura della mente. Ma chi cura la persona nella sua interezza ed è anche in grado di
proseguire a curare in modo diverso anche sino alla morte quando è necessario? La
medicina è una scienza difficile, che richiede attenzione costante e rimettere in
discussione incessantemente se stessi e i propri metodi. Occorre molta attenzione,
capacità di ascolto, di discernimento di ciò che è importante, stabilire fino a che punto gli
effetti positivi dei chemioterapici superano gli effetti collaterali. Noi curanti ci interroghiamo:
“Occorre ascoltare Giulia e i genitori per decidere assieme”. Siamo tutti cresciuti e se non
perdiamo la sintonia non sbaglieremo. Andare a trovare a casa un paziente, che con un
termine tecnico asettico viene definito terminale, vuol dire guardare in faccia la propria
sconfitta, uscire dal proprio territorio, dalle proprie certezze, l’ospedale il camice ecc. e
andare nel terreno sconosciuto dell’intimità della famiglia, ancora più vicino, ancora più
pericoloso. Andare a trovare un paziente terminale spaventa i parenti, gli amici stessi: non
vado a trovarlo perché non so cosa dire. La morte non esiste nella nostra società,
figuriamoci la morte di un bambino, di un adolescente. Stare vicino a Giulia, andando a
trovarla a casa nella fase più avanzata della malattia, non ci spaventa, non si vive la
sensazione di un fallimento, chissà perché. La casa è un porto di mare, c’è un sacco di
gente, tutti sembra diano il meglio di sé, è una cosa che avevo già notato: Giulia è in grado
di fare emergere dalle persone che incontra non solo fuggevolmente il meglio di sé. Giulia
ci legge il suo tema, che noi chiamiamo di maturità anche se è di licenza media, lo fa con
uno sforzo notevole: la malattia l’ha colpita anche alla lingua. Come dice nel filmato, a lei
piace parlare. Legge la storia di un soldato in guerra, che è metafora della sua lotta: il
soldato ha una spada spezzata e un fiore, siamo ammutoliti dalla commozione. Un giorno
vuole che la prenda in braccio, simulando lo svenimento avvenuto in ospedale, e vuole
anche una foto. Sono in imbarazzo, ma sento che Giulia mi vuole salutare e preparare al
distacco. Poi restiamo soli nella stanza, la mamma Sara esce, la porta è socchiusa, di là
c’è tanta gente e sento vociare. Sono pronto, mi faccio forte, ora Giulia mi farà la domanda
che più temo: “Guarirò?” E io non mentirò, non le ho mai mentito, cerco nel fondo del mio
cuore le parole migliori. E invece Giulia scherza e ride, parliamo di alcuni momenti belli in
ospedale: conosce già la risposta ed è serena. Come avrete capito, Giulia è una persona
speciale, che ha saputo rompere ogni barriera, ogni distanza. Non vogliamo proporla
come modello ideale di rapporto medico-paziente, vi sono tanti modi diversi di vivere la
malattia, le varie emozioni, la rabbia per l’ingiustizia della malattia e altre credenze
religiose e filosofiche che dobbiamo sapere accogliere. Abbiamo voluto solo raccontarvi,
per la parte modesta che abbiamo conosciuto come medici e infermieri, una storia
preziosa di cui siamo stati testimoni.
PAOLA MARENCO:
Doveva esserci con noi anche la dottoressa Eugenia Giraldi, la “lupa alfa”, testimone
anche di questa avventura, ma non è potuta venire per problemi legati alla gravidanza in
corso, gravidanza di cui mi ha confessato che è un muro che Giulia ha abbattuto nella sua
vita. Vi leggo alcune righe di una sua mail, proprio perché lei ha voluto insistere nel farmi
capire che lei continuava a tirare su un muro fra lei e la giovane paziente e Giulia
continuava ad abbatterlo fino a costringerla a cedere. Questa è la mail: “Giulia per noi è
stata un’eroina, ha manifestato inizialmente tutta la sua fragilità e fatica nell’affrontare i
dolori e i disagi connessi alla malattia, successivamente però Giulia è andata incontro a un
progressivo cambiamento spirituale. Nonostante l’evoluzione sfavorevole della situazione
clinica, ha saputo sostenerci nella nostra fatica quotidiana, non facendoci sentire
l’amarezza della sconfitta ma piuttosto infondendoci coraggio e entusiasmo di lottare
comunque. Ogni qualvolta tentassimo di erigere un muro fra medico e paziente per
garantire una più lucida e obbiettiva gestione clinica, Giulia lo abbatteva, anche nelle
circostanze più difficili, riconducendoci al cuore della nostra professione: l’umanità. Se in
una prima fase della malattia di Giulia siamo riusciti a emarginare l’irruenza della ragazza
e mantenere il classico rapporto medico paziente, nella seconda fase, quando le speranze
si affievolivano, il fiume in piena di Giulia ci ha travolti, diventando protagonisti a tutti gli
effetti della sua storia. Alla sua scomparsa ci siamo ritrovati a ricordarla come uomini, con
gioia e affetto, il che non ha fatto che potenziare con forza gli aspetti umani del nostro
lavoro, senza più timore di un eccessivo coinvolgimento nelle storie dei nostri piccoli
pazienti. Non la dimenticheremo mai”.
Tocca ora alla infermiera Bruna Togni che la ha assistita, alla quale rilancerei la frase che
mi ha detto la prima volta che ci siamo incontrate e che mi ha colpito, perché mi ha detto:
“Il mio sguardo è cambiato perché c’è lì qualcosa che non mi spiegavo ma che interrogava
me e il mio modo di lavorare, tanto che quell’anno ho deciso di non andare a fare una
caritativa mia abituale, ma di andare a casa della paziente e mi sono accorta di essere
stata per vent’anni alla superficie nel mio rapporto con la realtà”.
BRUNA TOGNI:
Il mio pensiero lo leggerò, scusate, ma l’emozione non mi permetterebbe di fare altrimenti.
Che paura Giulia non riuscire a dire la cosa giusta che dica di te, che ti rifaccia vivere
splendida quale sei stata! È un onore per me! Mamma e papà mi hanno accolto con
fiducia e spero di non deluderli adesso e mai.
Ma ora quel grido alla morte, le cui parole ho censurato, mi censura a sua volta: c’è la vita,
se una parola con un respiro rauco è interminabile.
Ho visto nei tuoi occhi sorridenti la disperazione, la gioia, la fiducia e la speranza.
Io ero gelata; non comprendevo da dove uscisse la tua forza. Mi sembrava orribile
pensare alla morte di una giovane donna torturata dalla malattia.
Quando si entra in un ospedale non si è più Giulia, la studentessa, la figlia di Antonio e
Sara…, ma si diventa un “pesce rosso”, proprio come in un acquario e cioè il numero “4” di
una corsia della pediatria che ha un sarcoma e fa parte di un modello organizzativo di tipo
B. e noi operatori sanitari siamo delle “facce bianche” che si prodigano per l’utente.
Quando ti ammali, si è costretti a stare in una stanza e condividere del tempo con persone
che magari non ti assomigliano per niente e devi fare quello che le facce bianche ti dicono,
ma alla fine ti accorgi che gli altri malati ti assomigliano e che forse nessuno ti è mai
assomigliato tanto e che quegli operatori “pallidi” sono lì con te e per te e non sono poi
tanto diversi da te. Si crea un rapporto speciale, come nel nostro caso.
E tu sempre serena e oggi, se qualcosa ho capito, se un sentimento positivo in merito è
uscito e non è più indignazione, è solo merito tuo, cara Giulia.
Il mio sguardo verso i piccoli e le loro famiglie è cambiato, si è fatto più sincero e complice,
perché c’è qualcosa che non mi spiego, che è sopra di noi, forse si chiama fede, non so.
Ma di sicuro è qualcosa di potente!
Le parole per descrivere quello che tu, Giulia, hai dovuto sopportare nella tua vita appena
sbocciata, sarebbero troppo povere, e affidate ad una persona che non ti renderebbe
giustizia per la ragazza gioiosa ed espansiva, dinamica, allegra che sei stata, anche nella
malattia, periodo in cui ci siamo conosciute.
I nostri destini si sono incrociati in un momento critico della tua vita, e il nostro è stato un
incontro positivo, piacevole, ricco di comunicazione e intesa. C’è stata l’alchimia,
un’energia che solo Giulia ha saputo trasmettermi in maniera esclusiva.
Tu arrivavi al mattino in quella lugubre e triste sala visita dell’ospedale, portavi il sole,
scherzosa e spensierata, come i ragazzi solo a quell’età lo sono. Tu, sulle spalle, eri
consapevole che qualcosa di più faticoso stavi affrontando, ma non lo facevi pesare.
Riuscivi a risolvere i malumori della giornata, portavi il buonumore in noi con la tua
irriverenza e la spontaneità che ti ha sempre contraddistinto, parlavi del trucco e del
parrucco in maniera leggera. Ti raccontavi, dicevi di quanto il giorno prima la
chemioterapia ti aveva fatto stare male, di quanto il cortisone ti rendeva irrequieta e ti
rendeva nervosa, e io ti osservavo con stupore per come riuscivi a sorridere e a dire che
comunque, nonostante tutto, andava bene.
Come si può restare lucidi e sereni dopo una diagnosi di malattia grave; come si può
restare sereni dopo che alla porta ti ha bussato la morte? Solo Giulia poteva avere la
consapevolezza, la fede e il sorriso!
Tu sei speciale perché questo dolore fisico l’hai fronteggiato come una grande donna e al
tuo fianco hai sempre avuto un’eroina: la mamma. Ogni volta con te, sempre vicino, una
presenza forte, importante e sicura.
Tu non ci crederai Giulia, ma ho imparato a conoscere i piccoli pazienti. Ho imparato a
capire dai rumori che cosa sta accadendo intorno a me, ma soprattutto ho imparato a
guardare bene negli occhi di chi si avvicina e cosa c’è dentro al cuore a cui quegli occhi
appartengono. Questo l’ ho imparato in una rianimazione, dove mio padre mi guardava
come un pesce rosso e mi chiedeva aiuto. Io quell’aiuto non gliel’ho mai dato. Lui è uscito
da quella sala con i piedi davanti. Ho capito che guardare è necessario quanto ascoltare.
Ho imparato anche a percepire gli stati d’animo… insomma tutto questo è vita, cara Giulia!
Oggi ho una sicurezza maggiore che ho sentito e fatto mia grazie alla tua intuizione!
Noi operatori sanitari, io esecutrice di manovre che nell’ultimo periodo si sono concentrate
sulla tua mano sinistra (permettimi di dire quella “maledetta mano sinistra”). Anche venerdì
18 agosto 2011, appena mi hai visto, lucida e risoluta come sei sempre stata, hai indicato
con decisione la tua mano malata da medicare. Non hai mai perso la forza e la speranza,
la tua fede enorme ti ha aiutato a superare scogli difficili.
Tu, Giulia, non sei stata per me una paziente qualunque, tu sei stata una persona che mi
ha resa migliore in un periodo della mia vita.
Mi hai insegnato a vivere ogni attimo e ogni volta cerco di vivere qualsiasi esperienza fino
all’ultimo e di certo ho imparato molto da te e da tutti i bimbi speciali della Pediatria che
con te hanno lasciato un segno indelebile.
I miei occhi oggi sono più aperti, perché non voglio perdere il tempo che avrò, voglio
vivere ogni attimo onestamente e sinceramente, come tu mi hai insegnato nella tua breve
vita.
Ho capito la tua spiritualità e vorrei un giorno condividere quella serenità sprigionata dalla
grande forza della fede.
Ho ancora impresso nella mia mente i tuoi occhioni vispi che sembrano una galleria, oltre
alla quale si intravede una speranza, sono occhi curiosi che oggi mi mettono a confronto
con me stessa, in quello che si può definire “imbarazzo emozionale”, fatto di quel carico di
sensazioni inconsce che tu, piccola donna, mi hai risvegliato. Mi sono accorta, grazie a te,
che nel nostro lavoro, ho recuperato un contenuto morale, l’antico precetto della sacralità
della vita e il lavoro non è più l’abitudine blanda dell’assistenza infermieristica quotidiana.
Tu hai smosso la mia coscienza, perché sei stata viva, hai “buttato giù la porta” di
quell’ambulatorio e non hai mai smesso di credere fino in fondo alla vita! Io non voglio
parlare di etica, morale e religiosità, quello lo fanno i professori, io voglio parlare della
realtà della tua sofferenza, che ti ha fatto male ma alla quale hai saputo reagire in modo
unico. Io non credo di essere una persona migliore di altre, ma oggi posso affermare con
certezza che il mio non è un lavoro come tutti gli altri e che non riesco a dimenticare fuori
dall’ospedale Papa Giovanni XXIII. Noi sanitari abbiamo scelto la causa della vita e noi
non siamo più buoni di altri. Oggi capisco che senza la vita non ci sarebbe nemmeno la
morte o il dopo-morte.
Se tu oggi fossi qui, fisicamente, ti rincorrerei per tutto il salone…, perché sai bene che
sono una persona impenetrabile. Ti direi: «Ma Giulia, in che “casino” mi hai portato?», poi
ti sorriderei abbracciandoti forte forte.
La tua partita con la vita, cara Giulia, non è persa neanche adesso. Non è la durata della
vita che conta e tu questo l’hai dimostrato. Io sono solo una “piccola” infermiera e quello
che mi è capitato con te, e non solo con te, è molto più grande di me e io mi affido a te in
questo e guardo i tuoi genitori.
Conoscere e lavorare per te, come per tutti gli altri piccoli pazienti, è stato per me una
ricchezza grande che conserverò. Io spero di aver compreso e rispettato il tuo pensiero e
quello dei tuoi genitori.
Giulia, quando tu incontri una persona solitamente ti innamori della rappresentazione di
quella persona; inizialmente è così, ti piace l’immagine che ti sei fatta di quell’individuo e
non quello che è veramente. Chi è veramente, lo capisci solo conoscendolo meglio.
Pensa a un soggetto che si ammala in modo importante. Questa persona si affida a dei
professionisti in campo medico e si spoglia delle sue sicurezze, diventando debole davanti
al mostro della malattia e a chi si deve occupare di guarirlo, nasce una sorta di sudditanza.
E pensa quando la patologia arriva a colpire un bambino o una fanciulla innocente come
Giulia, Filippo, Andrea, Asia, Nico e tanti altri. La responsabilità degli operatori sanitari
raddoppia, perché i piccoli pazienti non hanno regole e/o maschere, perché sono sinceri,
unici, belli, spontanei, forti e si affidano completamente, con i loro genitori, a medici e
infermieri. E noi, siamo in grado di accogliere queste famiglie e dar loro conforto o almeno
di rendere più sereno possibile il decorso dell’ospedalizzazione?
Ecco io voglio chiedere di riflettere su questo. Giulia è stata una forza per noi operatori
sanitari, una risorsa, affinché i bambini malati e le loro famiglie abbiano la forza di
continuare nella maniera più umana possibile.
La tua morte, cara Giulia, sfugge a ogni tentativo di definizione e sono sicura che si
trasforma in un qualcosa che restituisce significato alla vita. Giulia e la famiglia si sono
confrontati con la malattia, una malattia seria e hanno dato forza a noi sanitari di
continuare nella maniera migliore possibile e nel modo che Giulia ha insegnato. Oggi
capisco che la morte di Giulia è una “morte sociale”! Questa morte ha smosso le nostre
coscienze.
PAOLA MARENCO:
Prima di fare l’ultima domanda alla mamma, volevo sottolineare alcune cose, perché
anche questa sia una traccia che Giulia lascia di sé nel nostro mondo sanitario. Sono
alcuni aspetti che abbiamo visto emergere in questi uomini curanti. Innanzitutto abbiamo
visto un gruppo che lavora assieme, che riconosce un maestro e appare veramente
impegnato a non cedere al dualismo sul proprio lavoro e questo è conveniente per chi è
curato e anche per chi cura, perché si è amici solo se si impara dall’altro e vorrei dire che
non è una cosa scontata oggi lavorare assieme. Un’altra cosa che mi sembra
fondamentale è che meno risorse ci sono, più è importante identificare il bisogno principale
della persona che abbiamo di fronte, perché non potremo rispondere a tutti i bisogni, ma è
importante non perdere il bisogno principale, se vogliamo prenderci cura dell’uomo intero.
Come Giulia ci ha detto, il bisogno primo potrebbe anche non essere la guarigione fisica;
ha detto alla mamma: “La guarigione più importante è quella del cuore, l’altra seguirà”. E
questo indica anche che la buona sanità non si può progettare a tavolino, ma stando
attenti a quello che si incontra e rimanda a che cosa è veramente l’uomo. Per condividere
questo metodo, abbiamo preparato anche un convegno per ottobre (prego di mettere la
diapositiva, qualche locandina l’abbiamo messa sulle sedie), perché pensiamo proprio che
si possa approfondire, che è possibile nel nostro lavoro partire da ciò che veramente
serve. Questa è anche la bellezza del nostro lavoro. Quindi invito tutti a questo convegno.
E da ultimo, l’annotazione che vorrei fare è anche di ringraziare i nostri amici di Bergamo e
di “Medicina e Persona”, che hanno voluto portare questa testimonianza, hanno insistito
perché l’incontro che loro avevano fatto potesse anche essere portato qui al Meeting, in
modo che tutti potessero conoscere questa storia e il risvolto che ha avuto nell’ospedale.
Anche delle cose straordinarie possono rischiare di essere ridotte a un’emozione
sentimentale di qualcosa di eccezionale, quindi con breve durata, perdendo perciò la
potenzialità di diventare una cultura, cioè di costruire una società basata sull’uomo reale.
Questo è quello che più manca, la vera emergenza che ci deve trovare tutti all’opera di
ricostruzione. Giulia ci ha reso presente questo e credo che per questo non sia un caso
particolare, Giulia, ma, come voleva essere lei, un segno. Un segno è di più di un caso
particolare: un segno ci indica la strada per agganciare anche noi un “gancio in mezzo al
cielo”. E il cielo è la verità dell’uomo, anche per noi che curiamo. Strada facendo
incontriamo persone speciali come noi, come lei e uomini all’opera, con i quali possiamo
fare la strada. Quindi grazie, Giulia, per questo. E abbiamo visto che tutto ciò dà la
possibilità anche di essere creativi. Non so se avete visto nel video, questa “scuola in
pigiama”, che è nata nell’ospedale per forte volere anche del Direttore, che ha insistito col
Provveditorato per poterla portare avanti: è nata proprio dal partire dal bisogno di Giulia.
Approfitterei dei minuti che abbiamo ancora per fare una domanda alla mamma, Sara,
perché non possiamo non chiederci perché questa ragazza di dodici anni, in due anni di
malattia, ha generato questo suo movimento. Che cosa ha visto compiersi in sua figlia?
Come poteva essere così? Perché certo non è soltanto una contagiosa simpatia, ma
qualcosa che si compie approfondendosi. Ad esempio questa sua volontà di pregare non
solo chiedendo, ma ringraziando; questa percezione straordinariamente matura, come è
stato detto, di cosa vuol dire amare; cioè una fede che le ha permesso di dire in un punto
che il fatto che esistesse la morte permetteva un atto di piena fiducia in Dio, perché ci
toglieva le nostre solite uscite di sicurezza. Mi sembra che sarebbe fare un torto alla sua
persona non seguirla fino in fondo, cioè fermarsi prima di ricordare i tratti di una vocazione
compiuta. Per cui chiederei alla mamma che ci aveva detto che la sua figlia era già “mille
miglia oltre davanti a loro”, di raccontarci qualcosa di questo.
SARA GABRIELI:
Buonasera. Per capire meglio chi era Giulia, vi racconto semplicemente un episodio del
suo soffio di vita. Vi parlo del fatto che Giulia, nonostante la malattia, finché ha potuto, ha
sempre voluto fare testimonianza. Amava parlare ai giovani; veniva invitata nelle scuole,
negli oratori, ma anche nelle chiese. Ricordo un particolare, che quando c’era una
testimonianza da fare, Giulia stava puntualmente male, gli effetti delle chemioterapie si
facevano sentire. E sempre lei, determinata come era, diceva: “Mamma, ci andiamo
comunque!”; nonostante io la pregassi: “Stiamo a casa”., lei mi diceva: “No, dammi tutte le
medicine del caso, prendiamo i teli, prendiamo i catini e partiamo”. A posteriori, noi
abbiamo capito di questa sua consapevolezza di essere una testimone, di essere uno
strumento nelle mani del Signore. Quindi io somministravo i farmaci e quindi partivamo;
l’unica cosa che chiedeva era che io le recitassi la sequenza allo Spirito Santo, infatti lei
non poteva preparare niente in quanto stava sempre male. E quindi poi, quando arrivava,
parlava a braccio per un’ora: sembrava che non avesse avuto niente prima. E comunque
per noi Giulia ha testimoniato con la sua vita, tutta la sua vita è stata una testimonianza.
Una testimonianza che a noi piace raccontare, è quando Giulia è andata a Bergamo Alta
Seminarino. In quel periodo tutti i giorni andavamo a fare la radioterapia a Padova. La sua
giornata tipo era che si alzava verso le 8:00 del mattino, faceva un’ora di lezione dalle 8:00
alle 9:00 e poi si partiva. Per fare venti minuti di radioterapia si rientrava verso le 15:00,
15:30. Quel giorno la macchina della radioterapia ha avuto dei problemi e quindi siamo
rientrati alle 16:30. Ed era proprio l’orario in cui Giulia doveva fare questa testimonianza;
quindi abbiamo suggerito a Giulia: “Non ci andiamo. Siamo tutti stanchi; abbiamo
mangiato qualcosina per strada, dei cracker, quello che avevamo”. E le ho detto: “Tanto
non sei necessaria Giulia, ci sono le catechiste, faranno loro”. E Giulia, come al solito, ci
ha detto: “No, si va!”. Quindi all’uscita dal casello di Bergamo, papà prende la strada per
salire in città alta e a me fa recitare la sequenza allo Spirito Santo. E quando siamo entrati
in quell’aula davanti a quei ragazzi, Giulia li ha guardati tutti e ha esordito: “La prima cosa
da guarire è dentro. È il cuore, l’anima. La salute – ha fatto questo gesto con la mano –
quella verrà da sé”. Io e Antonio ci siamo guardati in faccia, domandandoci: “Ma come?
Con tutto quello che stiamo facendo per guarirla”. Ma lei era avanti mille miglia rispetto a
noi.
E niente. Aggiungo ancora un altro episodio, visto che comunque mi ha chiesto di parlare
di un’altra cosa. Diciamo nell’ultimo, poco dopo questo filmato, nell’ultimo mese e mezzo
della sua vita, Giulia ha pensato che noi non ringraziassimo a sufficienza il Signore. E così
ha incominciato a pensare di scrivere una preghiera di puro ringraziamento, perché,
diceva, nelle nostre preghiere, nell’”Ave Maria”, nel “Padre Nostro”, c’è sempre una
richiesta: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, “Prega per noi peccatori”. E quindi si è
messa ad elencare tutti i motivi per cui noi dobbiamo ringraziare il Signore. Ha pensato
che la preghiera era bello recitarla sulla corona del Rosario e ha preparato una preghiera
iniziale e le due parti corali che sostituiscono l’”Ave Maria” e il “Padre Nostro”. L’ha letta,
l’ha vista, l’ha riletta una sacco di volte e poi un giorno mi guarda e mi dice: “Prova a
recitarla, mamma”. Allora io arrivo verso la terza decina e Giulia mi dice: “Alt! Fermati! Ti
viene da chiedere qualcosa al Signore?”. Io dico: “No. Sto ringraziando”. M’ha detto: “Ah,
meno male! Altrimenti avrei dovuto rivedere parola per parola tutto quello che avevo
scritto!”. Io ho sudato, perché era un mese che rivedeva tutto. Mentre l’ultima parte, la
preghiera finale, l’ha dettata praticamente esattamente due anni fa, l’ultimo, il penultimo
giorno, la sera prima, il 18 di agosto. Qua, come dicevo prima, ringrazia per l’ottima salute
proprio l’ultimo giorno che lei la salute non l’aveva più; ma era sempre riferito alla salute
del cuore, dell’anima, alla parte spirituale. Poi, agli inizi di agosto, ha incontrato un pittore
bergamasco, il pittore Gamba, al quale ha chiesto di illustrare la sua coroncina; gli ha
chiesto un Gesù e la Madonna che accennassero ad un sorriso, sereni perché noi li
stiamo ringraziando ed una bambina che corre incontro con le braccia aperte, che è
l’accoglienza. Poi lui ha realizzato con l’ombra della bimba una croce; però l’aveva messa
tra la bimba e Gesù e la Madonna, proprio qua, sul davanti. Lei l’ha guardato e ha detto:
“Sei stato bravissimo. È veramente bello; però l’ombra mettimela dietro: la luce viene dal
Signore”. Quando tornerà Gamba con la sua tela rifatta, arriverà il 16 di agosto, la vede,
dice: “Così è giusta. Bravissimo! Però io parlo della trinità; non è che mi faresti la trinità?”.
Il pittore si è un po’ spaventato, perché dice: “È difficile spiegarla a parole, figuriamoci
dipingerla; però se vuoi posso farti Gesù che si rispecchia in Dio Padre con uno scambio
di colori che sale e scende da Padre in Figlio, che è lo Spirito Santo”. “Bravissimo. Me l’hai
spiegata molto bene; ma sai, la gente coi colori non capisce che è lo Spirito Santo, mettici
la colomba in mezzo”. Questa sarà pronta per il 22 di Agosto, il giorno del funerale di
Giulia, però la sua coroncina è realizzata.
PAOLA MARENCO:
Grazie, Giulia, che ci hai fatto vedere che non si sconfigge il buio parlando della luce
nell’oscurità, ma accendendo una lampada – e non a caso Papa Francesco parla della
fede come della luce – e ci hai fatto vedere che in quella situazione in cui eri, che taglia le
gambe, non solo non soffocavi, ma respiravi già sempre più a pieni polmoni.
Trascrizione non rivista dai relatori