Non "contro", ma "attraverso"
le circostanze: testimonianza
Lunedì 25, ore 11.30
Relatore:
Sua Em. Card. Miloslav Vlk,
Arcivescovo di Praga
Nel nostro mondo ci sono ottimisti e pessimisti. Certamente è conosciuta la battuta della bottiglia mezza piena e mezza vuota. L’ottimista gioisce per il fatto che c’è ancora la metà del contenuto, il pessimista piange perché nella bottiglia manca una metà del contenuto. È vero che omnis comparatio claudicat (ogni paragone è debole), ma nonostante questo mi pare che questa metafora popolare ci riveli qualcosa sul modo di vedere la realtà oggi.
Il famoso dialogo de I fratelli Karamazov tra lo starets Zosima ed il giovane, incontrato per caso, sul tema del creato, esprime una visione ottimista della realtà. Altre visioni, come quella dei nichilisti degli anni sessanta del secolo scorso, sono invece segnate da un radicale pessimistico e giungono alla negazione tragica del senso e dei valori.
Nella sua opera Dostoevskij mette a confronto non soltanto due concezioni filosofiche diverse, ma due visioni radicalmente contrastanti.
La sua, espressa dallo starets Zosima, vede le cose dal punto di vista di Dio, in quanto si radica nella fede e nella Bibbia.
Nelle prime pagine dell’Antico Testamento, dove si racconta la creazione, leggiamo per sette volte: "E Dio vide che era cosa buona" (Gen 1,4.10.12.18.21.25 e 31). L’ultima volta l’espressione si rafforza ancora: "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen 1,31).
Ma Dio è sorpresa e per amore affida la "cosa molto buona" alle mani dell’uomo perché l’opera della creazione continui. L’uomo riceve da Dio un compito preciso: "Riempite la terra, custoditela e siate i signori (...)" (Gen 1,28). L’uomo, "immagine" di quel Dio che aveva creato tutte le cose buone, riceve la missione di una signoria da intendersi come custodia e sviluppo di tutte le cose secondo le leggi inscritte da Dio nel reale. L’uomo ha il compito grandioso di "continuare" la creazione del paradiso. Dio – la sorgente del creato – condivide con l’uomo la sua potenza creatrice. L’uomo è chiamato a giocare, nella somiglianza a Dio, il ruolo di un "signore" che però è dipendente dal Creatore, dalle sue leggi. In questo gioco di rapporti tra Dio, l’uomo ed il creato, tutto è uno. È Dio infatti l’unica fonte di tutto ciò che è buono, bello e vero. L’uomo non è all’origine del creato, ma riceve da Dio un mandato di "signoria" e "collaborazione", che è realizzabile solo in rapporto con lui.
Questa visione del reale è aperta, contiene il futuro, la prospettiva, la novità. Possiamo dire che essa è intrisa di speranza, proprio perché radicata in Dio che è immenso e che, essendo l’amore, è sempre nuovo, rinnovante. Dio è amore trinitario, cioè un rapporto, un dono reciproco senza riserve tra le tre persone. I Padri della Chiesa orientale chiamavano questo rapporto tra le persone divine "pericoresi", parola che alcuni hanno tradotto con "danza festosa". Poiché Dio è l’origine di tutto, la dinamica trinitaria è anche l’immagine e la legge di tutto il reale. È la dinamica trinitaria che genera l’apertura reciproca tra le persone divine e quindi l’apertura reciproca tra Dio, l’uomo e il mondo. Ma è anche la dinamica trinitaria che genera l’apertura scambievole degli uomini fra loro e verso la natura. È questa l’immagine, la somiglianza costitutiva del reale che porta con sé la speranza. È la via dove il rapporto è il cuore dell’essere.
La seconda visione, quella che Dostoevskij vuole confutare, è propria dei nichilisti. È la via della autonomia e della solitudine. La loro visione è meramente umana, parte dall’uomo visto come un "signore" indipendente e autonomo che ha preso tutto nelle proprie mani, "liberandosi" da Dio.
Se nella vita l’uomo si considera solo, allora cerca di salvarsi da solo! La situazione umana può essere paragonata ad una scalata in montagna con la quale si può anche andare molto in alto e conquistare mete grandi, ma che alla fine deve confrontarsi con un abisso inatteso, quello del dolore e della morte. "Alla fine" si è dei disperati!
Questa via dell’autonomia ha una lunga storia dopo Adamo ed Eva (che possono esserne ritenuti gli inventori!) ed anche la cultura attuale l’ha voluta "verificare" in modo tutto particolare. Basta pensare ad una certa assolutizzazione e sacralizzazione del soggetto nella modernità, o alle cadute unilaterali della grande valorizzazione della libertà. La "verifica" ha mostrato i segni dello scacco: proprio il soggetto, così celebrato, sembra spesso scomparire nei meandri e nelle reti dei condizionamenti, delle strutture psicologiche, sociali, linguistiche... cioè in un formicaio dove chi conta non sono i soggetti, ma le strutture! Anche la libertà rivela di non essere onnipotente: è già contraddetta nella sua origine, perché non ho potuto decidere io liberamente di nascere. È messa poi in scacco infinite volte nella vita: come è possibile che le mie decisioni libere cambino il passato? Come è possibile cambiare l’ultimo futuro, la morte?
Emerge allora la domanda: soggetti liberi sì, ma per che cosa? La libertà pende sul nulla o esiste un bene a cui merita affidare la mia vita? Libertà per amare, ma esiste l’amore? O ogni amore è destinato a tradirti? Libertà per far festa, ma esiste la festa? O è solo l’illusione di una sera?
Alla fine del nostro secolo, più fortemente che mai, alle volte, ci sembra di respirare una situazione disperata o quasi infernale. Su tanti sentieri sembrano scomparse la prospettiva, la speranza, il futuro. Si sente una grande solitudine dell’uomo e l’assenza del coraggio della solidarietà con gli altri.
In realtà oggi sta anche rinascendo la domanda, la ricerca, la nostalgia di un futuro, di una novità. L’interesse sempre più diffuso per la realtà del sacro è una delle espressioni di questa nuova ricerca, che però è ancora immersa in una grande ambiguità. Spesso, infatti, non si intravede il vero volto di Chi si sta cercando: il "sacro" trovato in certe esperienze, come nelle sette e nei fenomeni magici o spiritistici, risulta ancora drammaticamente vicino al nulla anonimo del nichilismo piuttosto che al volto del Dio di Abramo, di Giacobbe e di Gesù Cristo.
Ma occorre ancora fare un passo ulteriore per poter giungere con serietà ad affermare che la realtà è positiva. Non si tratta, cioè, solo di vedere la realtà dal punto di vista di Dio, ma anche di scoprire cosa è lo stesso conoscere, il pensare, la concezione della verità dal punto di vista di Dio, cioè dal suo "modo" di pensare, così come è rivelato nella Scrittura.
Come sostiene anche il teologo Walter Kasper in un suo studio1, il pensiero occidentale si è sempre preoccupato di raggiungere ciò che da sempre esiste, di conoscere una sostanza (Wesen) che Hegel definisce genialmente come "quello che è stato" (Ge-wesen-sein). Per questo pensiero, fondamentalmente, non succede mai niente di nuovo nel tempo, non accade niente di nuovo sotto il sole, tutto è la ripetizione di una sostanza eterna già da sempre esistita. Nietzsche ha parlato di una eterna ripetizione dell’uguale: il cammino della storia non è un dinamismo di vera autotrascendenza, ma un processo continuo verso il fondamento eterno. la verità è intesa come l’epifania della sostanza eterna delle cose, di ciò che era, delle cose passate. Non c’è vero futuro!
Dall’altra parte il Dio dei cristiani costringe ad andare oltre a questa unica preoccupazione di scoprire un passato fisso, dato già da sempre. Egli dice di sé: "Guardate, io faccio nuove tutte le cose" (Ap 21, 5). "Non ricordatevi delle cose passate, non preoccupatevi più delle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova, essa già germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò nel deserto una strada (...)" (Is 43, 18-19).
Ancora Kasper sostiene che questo nuovo è possibile perché Dio è il nuovo più originario. Dio infatti non è solo legato alla sostanza come a quello che è già da sempre esistito (das Wesen als das ewig Gewesene), ma molto più, nel rapporto verso il mondo, è ancora nella potenza e possiede la possibilità di un nuovo inizio. Per questo può promettere qualcosa di nuovo. Questo nuovo non è deducibile da quello che è già stato con un ragionamento metafisico. La verità diviene allora promessa (promissio) di qualcosa che ancora non c’è e che è indeducibile dalla realtà che è stata finora, qualcosa che è futuro e che si aggiunge a quello che c’è adesso. Il futuro è vera novità e non solo prolungamento di quello che è già stato e rivelazione della sostanza di quello che da sempre è. Non esiste allora nessun "principio speranza" ma solo speranza come carisma dell’essere.
Secondo il pensiero del tardo Schelling, tutta la filosofia da Aristotele ad Hegel avrebbe conosciuto solo "il Dio alla fine" e non il Dio che può essere inizio. In questo percorso del pensiero occidentale sarebbero già contenute le radici del nichilismo che ha segnato la nostra storia, perché manca la dimensione del futuro e della speranza. La struttura di speranza della verità è possibile solo dove c’è realmente un nuovo inizio creante, una nuova creazione, dove accade una parusia che non è ripetizione del già stato, ma presenza che è anche futuro. La verità di questo Dio si lascia riconoscere solo nel modo della speranza credente, ma mai si può anticipare in un concetto.
Lo starets di Dostoevskij esalta il creato, la natura e ogni cosa, poiché il mondo è segno della bellezza e del vero. Egli possiede questa visione delle cose da Dio, inizio sempre creante, e può quindi affermare la positività della realtà.
Ma è molto rischioso riportare questo dialogo dello starets Zosima immediatamente nel nostro oggi, cento anni dopo. Potrebbe essere del tutto incompreso, perché il nostro tempo è diverso. Il tentativo di fondarci esclusivamente sull’umano, il desiderio esasperato di consumare, la ricerca ossessiva di una felicità mondana non resistono all’incontro con il lato oscuro della vita che è l’esperienza del negativo, della precarietà, del dolore ed infine della morte.
Davanti alla grande potenza del male che anche oggi è all’opera e sembra corrodere tutto, anche le cose più sacre, anche la vita stessa di ognuno, come è possibile ancora affermare la positività del reale? Come ancora essere ottimisti? Dove vediamo che esiste un nuovo inizio creante che sia in grado di passare dentro il male e nello stesso tempo possa dischiudere la novità, la speranza? Dove è aperto davanti a noi un futuro nonostante il tragico inscritto nella storia e nella natura?
Il punto che mi sembra decisivo per la nostra cultura è avere il coraggio, e forse l’umiltà, per andare ad imparare dall’unica e misteriosa cattedra che può aprire un varco di luce nella notte: quella del Dio Crocifisso fuori le mura, quando si fece buio su tutta la terra.
È ancora troppo incompreso e inaudito il Crocifisso come il Dio del nostro tempo.
Per poter affermare la positività della realtà, senza volerci nascondere la durezza del dolore e delle lacrime che appartengono alla vita, è necessario riscoprire con grande serietà che l’affermazione della positività del reale è possibile solo se passa attraverso una visione "illuminata" del dolore, o, più ancora, se è stato possibile sperimentare nella vita vissuta e raccontabile che il dolore non è lo scacco inesorabile della positività del reale.
Chi ci dischiude il segreto è proprio il Dio Crocifisso. È il Dio sulla croce che "crea le cose nuove", incomincia la nuova tappa della storia del mondo e apre una nuova speranza, un nuovo futuro.
Allora – piuttosto che ragionare, o "filosofare" – voglio comunicarvi l’esperienza della vita.
Durante il duro periodo della persecuzione nel mio paese, una volta mi hanno colpito tantissimo i capitoli 8-10 del vangelo di san Marco. Gesù annuncia tre volte la sua passione e collega strettamente questo annuncio con quello della sua risurrezione. È interessante notare che ciò avviene sempre dopo un momento solenne: per esempio, dopo la professione di fede di Pietro, dopo la trasfigurazione o la guarigione di un indemoniato, o di fronte all’incomprensione degli apostoli: Gesù parla della sua morte e Giacomo e Giovanni chiedono di sedere alla sua destra e alla sua sinistra nella gloria!
Gesù rimprovera Pietro in modo durissimo: "Hypage, Satana" (Mc 8,33), "vai via Satana", quando questi lo vuole distogliere dalla Sua strada. Con le stesse parole: "Hypage, Satana" (Mt 4,10), nel deserto Gesù aveva cacciato il diavolo che per primo aveva cercato di sedurlo.
È la tentazione di percorrere delle vie umane, troppo umane, solo umane, per raggiungere la felicità, il benessere, la pace, la comunione con il divino e tra gli uomini. Ma dopo la caduta del primo Adamo e la venuta in mezzo a noi del nuovo Adamo, non c’è invece nessun’altra strada verso la felicità nel futuro dell’uomo, che quella di Dio, la strada dell’amore estremo, il più dispiegato: quello rivelato sulla croce.
Quando Gesù ha annunciato la sua passione, la sua croce, la sua kenosis abissale nella santissima Eucaristia, molti non hanno capito e se ne sono andati via (cfr. Gv 6). Ma quando Pietro ha rifiutato la kenosis di Gesù nel cenacolo, il suo atteggiamento di croce nel gesto della lavanda dei piedi, Gesù ha detto chiaramente: "non avrai parte con me" (Gv 13,8).
Essere in comunione con Gesù significa camminare con lui – che è la Via – sulla stessa sua strada della croce. Paolo lo esprime con il suo tipico ed eloquente syn: synstaurothènai (essere con-crocifissi: cfr. Rm 6,6; Gal 2,20), synegerthènai (essere con-risorti: cfr. Col 3,1). Portare la croce significa essere con-crocifissi con lui, aver con lui, il Crocifisso, una comunione di cammino e di destino. I tedeschi lo esprimono con una bella parola: Weggemeinschaft, Schicksalsgemeinschaft.
All’inizio del comunismo, negli anni cinquanta, abbiamo aspettato la salvezza dagli Stati occidentali democratici, dalle armi americane, dalle forze umane. Dio ci ha fatto capire pian piano, come Chiesa, che la sua strada, la strada del futuro, era un’altra. Anche alcuni sacerdoti hanno tentato di salvare la Chiesa per altre vie, con il compromesso. Ma in questo modo la strada non si è aperta.
Finita la primavera di Praga, l’atmosfera è diventata più dura. Siamo rimasti soli, abbandonati. Ma la cortina di ferro non era così fitta da non lasciar filtrare le nuove correnti spirituali nate in occidente che ci aiutavano a riandare al cuore del vangelo cioè alla notizia sconvolgente della morte e risurrezione del Cristo. Personalmente penso qui in particolare alla spiritualità dei Focolari e alla visione di Gesù Crocifisso ed abbandonato.
Paragonando il mio capire la croce con quello di chi viveva questa spiritualità, mi sono accorto ben presto che io vedevo la croce di Gesù soprattutto come un oggetto sacro, come uno strumento della salvezza, come un simbolo di tutti i dolori miei e del mondo, delle sofferenze e persecuzioni che prendevo su di me spiritualmente come croce. A contatto con questa spiritualità ho avvertito che la croce per me, fino a quel momento, era come depersonalizzata: era una cosa, era uno strumento, non era lui, Gesù, una persona.
Già l’insegnamento del Concilio Vaticano II mi aveva messo nel cuore il desiderio di un rapporto più personale con il mistero della croce. Là dove sottolinea, ad esempio nella Dei Verbum (n. 2), il carattere personale della rivelazione: Dio "rivela Se Stesso", "parla agli uomini e si intrattiene con essi come con amici"; o dove nella Sacrosanctum Concilium (n. 7) richiama la presenza viva del Signore attraverso la sua parola, i sacramenti, la comunione tra i fedeli sotto la guida dei pastori...
Mi affascinava questa figura di Gesù abbandonato dei Focolari. Leggendo e meditando una volta il profeta Isaia, mi hanno colpito nel capitolo 53,4 le parole: "Egli ha portato i nostri affanni, Egli si è addossato i nostri dolori". Non soltanto i peccati, ma tutti i dolori e tutte le sofferenze: non soltanto quelli del passato, ma anche i miei e quelli di tutti gli uomini oggi.
Quando ancora oggi mi incontro con i dolori della vita, che Gesù "si è già addossato", essi mi uniscono adesso, misticamente, a lui che li porta su di Sé. È per via di una pericoresi del tempo, di una pericoresi (un rapporto vivo) del passato col presente che si dischiude in un futuro nuovo, che i dolori si intrecciano e sono una cosa sola in Cristo. Ecco allora che abbracciando i miei dolori e le mie sofferenze presenti, abbraccio in essi Gesù Crocifisso.
Le mie sofferenze e la mia persecuzione hanno ricevuto un volto vivo, quello del Crocifisso. È stata una scoperta grande, come l’entrare in un "gioco" divino: riscoprire in tutte le sofferenze questo "uomo dei dolori" "disprezzato e reietto dagli uomini" (Is 53,3).
Non mi ha frenato in questo "gioco" l’apparenza rischiosa e audace di questa idea. La scoprivo totalmente in consonanza con la teologia di san Paolo, con il suo essere con-crocifissi e con-risorti, e con la teologia del capitolo 25 di Matteo dove la presenza nascosta di Gesù si svela nei malati e nei sofferenti, negli affamati e negli assetati, nei carcerati e negli abbandonati. Lo insegna anche il Concilio nella Lumen Gentium, affermando che "la Chiesa riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente (...) e in loro intende servire Cristo" (n. 8); e nella Gaudium et spes, sottolineando che "con l"incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo" (n. 2).
Questa visione del Crocifisso è diventata per me la sorgente di luce e di forza nel periodo della persecuzione, quando, dopo i primi tre anni di vita presbiterale (avevo dovuto aspettare dodici anni prima di essere ordinato!), lo Stato comunista mi ha espulso dal compito di segretario del mio vescovo. È stato per lui ed anche per me un grande dolore. Dopo una breve lotta nel mio intimo, ho detto il mio "sì"! Gesù, sulla croce, è stato espulso dalla terra per opera dei suoi persecutori. Questa mia espulsione è sua – mi dicevo –.
Nessuno mi poteva aiutare. Sono rimasto solo. Con quell’atteggiamento sono partito per il mio "esilio" in un paesino di montagna. Ma l’esperienza dell’esilio non finiva lì: cominciava appena. Dopo sedici mesi di permanenza, la mia presenza cominciava a dar fastidio. I comunisti dicevano che avevo una influenza eccessiva sulla gente, che non obbediva più alle loro direttive, mentre ascoltava ciò che dicevo io.
Il giorno dei defunti, uscendo di chiesa dopo la celebrazione della Messa mattutina, mi telefonò il segretario degli affari ecclesiastici della provincia, per dirmi che il mio incarico era terminato. Cercai di difendermi rispondendo che avrei almeno dovuto celebrare la Messa della sera che era stata già annunciata e alla quale, trattandosi del giorno dei morti, avrebbero partecipato anche i non praticanti. Il segretario replicò che non avevo più la licenza dello Stato e che quindi non potevo celebrare più nessuna Messa.
Fu un colpo durissimo per me. Dovetti lottare dentro di me per accettare questa nuova partecipazione all’abbandono di Gesù in croce. La sera, alla presenza di tantissime persone venute per la Messa, dissi che non potevo celebrare e che era venuto per me il momento di testimoniare con i fatti quello che avevo loro predicato: la croce. Poi aggiunsi che perdonavo coloro che mi avevano fatto del male. Subito dopo dovetti partire, perché nella piazza c’era la polizia e volevo evitare una possibile provocazione della quale, naturalmente, mi avrebbero ritenuto responsabile.
Sono rimasto di nuovo solo, abbandonato, nel buio. Ma questo buio si rischiarava. Capivo che anche Gesù era stato abbandonato nel buio e che il mio buio di quel momento era contenuto nel suo buio sulla croce, e che perciò esso faceva da tramite fra me a lui. A questo mio buio ho dato un nome pur senza intravederne il volto: era Gesù. Ero solo, ma nella pace e addirittura nella gioia, in quella gioia che nasce dalla croce.
Dopo un po’ di tempo mi fu assegnata una nuova parrocchia, fuori della Boemia meridionale, ai limiti della diocesi. La piaga a poco a poco era sanata, ma l’esperienza non si è più cancellata. Il Crocifisso era entrato nella mia vita e aveva impresso per sempre il suo sigillo nel mio cuore.
Dopo sette anni di gioiosa attività, durante i quali si era venuta creando una grande famiglia parrocchiale, mi fu tolta di nuovo la licenza statale e con essa questa volta anche la possibilità di lavorare pubblicamente come sacerdote. Era il 1978, e presentandomi per l’ultima volta ai miei parrocchiani dovetti appoggiarmi all’ambone per non cadere, tanta era la mia sofferenza.
Ero rifiutato. Anche lui, Gesù Crocifisso, era il rifiutato dagli uomini fino al momento più profondo della sua vita, quando aveva gridato il suo sentirsi abbandonato persino dal Padre suo: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mt 27,46; Mc 15,34). Mi sforzai di abbracciare quella situazione come il suo abbandono, come lui stesso.
Divenuto un "rifugiato", ho vissuto a Praga per nascondermi meglio dalla polizia. Non avevo dubbi: era iniziata per me la "notte oscura". Dicevo sempre il mio "sì" al Signore, ma dovevo lottare per mantenermi fedele, perché tutto in me si ribellava e spesso gridavo: "Perché, Signore?". Una volta, mentre mi facevo questa domanda, avvertii dentro di me anche la risposta: "Perchè ti voglio bene". Erano le parole di una canzone, ma la mia anima fu illuminata e capii che cosa voleva dirmi il Signore: "Non voglio il tuo lavoro, le tue attività. Voglio te, voglio il tuo tempo per me. Il tuo lavoro poteva ancora essere un ostacolo tra noi, e io voglio che tu viva per me, non per il lavoro".
Compresi che Dio tiene nelle mani il tempo, la storia, i potenti di questo mondo. Capii che ogni situazione ci rivela il disegno dell’amore divino per noi ed esclamai: "Di nuovo ho creduto all’amore di Dio" (cfr. 1 Gv 4,15).
Così la fede mi accompagnò con la sua pace anche durante il mio nuovo lavoro di pulitore di vetri per le strade di Praga. Per quasi dieci anni percorsi quelle strade, con il caldo e con il freddo, sostenuto dalla fede e dall’amore.
Capii che Gesù ha vissuto la croce costantemente nella sua vita, non soltanto alla fine. Gesù ha vissuto la croce fin dal momento in cui si è incarnato: perché faceva la volontà del Padre, non la sua (cfr. Gv 5,30; 6,38). Capii che la croce doveva essere una coordinata costante della mia vita, una coordinata normale. Pulire le vetrine come lavoro quotidiano era una croce: non l’avevo scelto io, e forse avrei dovuto pulirle per tutta la vita.
Quei dieci anni sono stati i più benedetti della mia vita sacerdotale. Sentivo che vivevo il sacerdozio in pienezza e se anche ero assalito da momenti di sconforto subito riemergeva la forza del Crocifisso. Abbracciare Gesù abbandonato sulla croce è stato per me sempre e di nuovo una fonte di luce e di forza! Gesù ha emesso lo Spirito sulla croce (cfr. Gv 19,20), e io sulla croce ero ogni volta più pienamente sacerdote.
Non si può immaginare la mia gioia quando un giorno ho letto le parole di Giovanni Paolo II rivolte a numerosi sacerdoti radunati per un congresso nella Sala Nervi, nel 1982: "Abbracciando nelle prove quotidiane Gesù sofferente, ci si unisce immediatamente allo Spirito del Risorto e alla sua forza corroborante (cfr. Rm 6,5; Fil 1,19)" (Omelia del Santo Padre Giovanni Paolo II nella Santa Messa per il Congresso internazionale "Il sacerdote oggi – il religioso oggi", 30 aprile 1982, n. 3).
Ecco il segreto della forza che mi ha sostenuto in questi dieci anni, ecco la luce della speranza – la croce che non era soltanto un oggetto sacro, ma una persona viva: Gesù Crocifisso ed abbandonato, incontrato e abbracciato nei dolori e nelle sofferenze!
Sì, la croce è la speranza che è la luce per la vita e per il futuro. Speranza che non delude. E che puoi sperimentare come tale. Un anno prima della rivoluzione di velluto, sono potuto finalmente ritornare in una piccola parrocchia, perché il comunismo era già molto debole. Tre mesi dopo la rivoluzione sono stato nominato vescovo di Èeskè Budìjovice, la diocesi dove io sono nato, e un anno dopo arcivescovo di Praga.
Quasi come riassunto di questa testimonianza, vorrei raccontare un’esperienza forte di pochi anni fa. Alla fine del mese di novembre del 1994, sedevo nell’Aula Paolo VI, al primo posto della fila destra, vestito da cardinale, davanti alla grande scultura di Gesù Risorto. Era come un sogno per me: un rifugiato, un pulitore di vetrine a Praga, condannato a tacere e sparire... Guardando quell’immagine davvero impressionante del Risorto, ho ascoltato la lettura della prima lettera di San Pietro (1 Pt 5,6) nella liturgia della creazione dei nuovi cardinali: "Umiliatevi sotto la potente mano di Dio...".
I miei pensieri in quel momento tornano ad un luogo di pellegrinaggio della Boemia del Sud. È l’anno 1952, due giorni dopo il mio esame di maturità superato con la qualifica eminenter in tutte le discipline, ma con l’unica prospettiva di diventare operaio semplice in una fabbrica o in una mattonaia, perché non facevo parte della gioventù comunista. Anche in quella domenica si leggeva nella Messa proprio questa lettura. Mi ricordo: allora ho detto di sì, ho accettato questa parola di Dio come parola-guida per il mio futuro: "umiliatevi sotto la potente mano di Dio". Prendi la tua croce, la tua debolezza, la tua persecuzione, l’impossibilità della situazione, il tuo buio, l’essere niente...
E adesso qui, davanti alla raffigurazione del Risorto, così grande che non puoi non essere tutto preso da lui, sento le stesse parole. Ma subito mi pervade una grandissima gioia quando sento anche la frase seguente: "affinché vi esalti a suo tempo... dopo un breve soffrire...". Capisco! Adesso capisco. Questo è il "suo tempo". Io lo vivo!
La croce, la luce, la speranza. Comincio umilmente a capire di più. Lo vedo, lo tocco con le mie mani. È vero, lui è la fonte della forza, della luce, della speranza, della realtà piena di gioia.
Noi uomini siamo creati per la felicità, non per il dolore, e poiché all’inizio è anche entrato nel mondo il negativo, il dolore, la morte, Dio, per amore, ha trovato una via, uno strumento, per superare tutto questo: la croce abbracciata dal suo Figlio prediletto. Proprio attraverso quella croce, Dio è entrato in tutte le ferite dell’umanità e le ha accolte in sé. Egli ha preso il dolore nelle sue mani divine, nel suo cuore amante e così ha aperto anche per noi la strada per superare il negativo. Infatti questo amore ha vinto. Il Cristo è risorto ed è divenuto la nuova creazione.
Il Risorto non è il "Dio alla fine", ma sempre nuovo inizio creante. Egli è il Dio che si è confrontato con quel nulla teorizzato dai nichilisti, con l’esperienza dell’assenza di senso, con la proclamazione della nostra cultura della "morte di Dio", con l’ateismo, con il silenzio di Dio, fino a sperimentare l’abbandono sulla croce. Anzi ha vissuto una "morte di Dio" che nessun pensatore, né Hegel, né Nietzsche, né Heidegger avrebbero mai avuto il coraggio di affermare: la morte di un Dio in croce. Ma è andato oltre, è passato, è risorto. Questo il movimento di autotrascendenza che col Cristo diviene il cuore della storia e del reale. Questa la logica trinitaria che ci viene rivelata come l’essenza della vita di Dio: un dono radicale reciproco della vita che non è morte, ma generazione continua di una nuova realtà, una nuova persona: lo Spirito di Dio, lo Spirito del Risorto.
Questo è anche il segreto più grande della nostra vita. Nel collegamento più stretto con lui, con il suo amore che giunge fino a morire, possiamo cambiare il negativo in vita, come in una divina alchimia. Gesù rende il momento del più grande dolore come l’occasione del più grande amore. Come la sua morte sulla croce è stata trasformata nella risurrezione, nella vita nuova, così è aperto davanti a noi, dopo ogni venerdì santo, il nuovo futuro del sabato santo.
NOTE
1 W. Kasper, Dogma unter dem Wort Gottes, Mainz 1965, pp. 101-104).