Martedì 23

"TESTIMONIANZE DAL CARCERE"

Partecipano:

Prof. Alessandro Banfi, Giornalista de "Il Sabato";

On. Alberto Garocchio, Deputato al Parlamento Italiano;

Dott. Corrado Guerzoni, Direttore della Seconda Rete Radiofonica;

Angela Corradi.

Moderatore:

Dott. Robi Ronza.

R. Ronza:

Testimonianze dal carcere è il tema del nostro incontro di stamattina. Perché testimonianze dal carcere, quando il carcere sembra una piccola e segregata parte della società in cui viviamo? Per due motivi: in primo luogo perché il carcere non è fuori della società in cui viviamo, anzi è un punto di crocevia nel quale emergono alcun dei problemi chiave del nostro tempo, del nostro mondo e della condizione umana; in secondo luogo, perché le testimonianze che abbiamo raccolto ci danno motivo, e confidiamo vi daranno motivo, di comprendere che c'è speranza, che ci può essere speranza anche all'interno del carcere, per il carcere e per il resto del mondo. La mattinata si articola così: apriamo con un audiovisivo; sono immagini di Carlo Meazza, un fotografo indipendente, che lavora spesso per "Il Sabato", curate dal giovane collega Alessandro Banfi della redazione de "Il Sabato" di Roma. Segue un breve colloquio con il deputato Alberto Garocchio, persona che da tempo si occupa di questo problema; e poi, come tutti sapete, farà seguito l'attesissimo dialogo fra Angela Corradi e Corrado Guerzoni, direttore di Rai Radio 2 e intervistatore straordinario di questa persona dalla straordinaria esperienza. Iniziamo dunque con l'audiovisivo. Raccomando, secondo la tradizione del Meeting, che il numero e il caldo non facciano venir meno la capacità di attenzione: è un lavoro a cui tutti noi siamo chiamati: tutti i veterani del Meeting sanno che il Meeting non è uno spettacolo che si va a vedere, ma, è un fatto che si costruisce insieme: per costruire insieme questo fatto bisogna impegnarsi in una comune attenzione, pur nella fatica di questo caldo sul tropicale di questo padiglione. Iniziamo dunque con l'audiovisivo: lascio la parola al suo curatore Alessandro Banfi.

A. Banfi:

Solo due parole, per introdurre questo che è un lavoro, frutto di una presenza nelle carceri italiane, che si porta avanti da almeno un biennio. Sono immagini di un solo carcere del Nord Italia scattate da Carlo Meazza che è potuto entrare straordinariamente in questo carcere, grazie ad un permesso regolare del Ministero. Devo spiegare, però, per voi che vedrete queste immagini, che non compaiono persone né detenuti, né guardie, né ausiliari di alcun tipo, perché è proibito, naturalmente, riprendere o un detenuto o una guardia, perché può essere lesivo della personalità di questi uomini. Sono immagini, per certi versi, asettiche: noi abbiamo voluto per contrasto, farle commentare da una serie di testimonianze raccolte in diversi carceri della penisola. Inizieremo da un carcere minorile del napoletano, per passare a carceri speciali o ad altre testimonianze che provengo da detenuti comuni. Non hanno nome queste voci, sia per esplicita richiesta di alcuni degli interessati, che sono per certi versi famosi per il loro passato sia perché quello che volevamo sottolineare con questo breve audiovisivo, è che emergono delle voci, emergono delle testimonianze da questa realtà, che noi qui solamente evochiamo. Non abbiamo un interesse sociologico immediato con questa rappresentazione, ma vogliamo introdurre noi e voi a questa realtà, facendo sentire delle voci che rispondono a questa domanda: "Che cosa è l'uomo nel carcere?". L'ultima cosa: vi prego di scusarmi se la registrazione non sarà tecnicamente perfetta, ma abbiamo preferito lasciare alla presa diretta l'intervista realizzata in carcere (spesse volte gli stessi detenuti hanno mandato i loro contributi per questo Meeting); abbiamo preferito, dicevo, lasciare la cattiva tecnica perché la presa diretta, la testimonianza diretta, ha un'efficacia che crediamo possa servire a tutti.

FILMATO

Chi non è mai vissuto nell’ambiente carcerario, chi non è mai vissuto in carcere, difficilmente si rende conto di queste cose e capisce cosa vuol dire tutto questo. Chi realizza la propria vita da sé, cioè tutti i giorni lavora e si muove, fa tutte le cose in prima persona, non sa quanto è difficile, quanto lungo fare qualcosa quando tutto dipende dagli altri, quando qualsiasi atto che fai deve essere firmato da decine di persone, quando qualsiasi cosa che ti viene data deve essere richiesta per iscritto, deve esserci una risposta, deve esserci firma e controfirma di molti superiori. Tutte queste cose, che forse, finché non si vivono non si riescono a capire, sono alla base della libertà: tutti i passaggi in positivo che vengono fatti sono ostacolati da questa struttura burocratica: per avere una minima cosa (quattro libri, un attrezzo da ginnastica), il tempo medio che passa sono sei mesi, un anno. Questo dimostra come tutte le innovazioni che vengono fatte richiedono i lunghissimi rispetto alla velocità che c'è al mondo. Si può sostenere che il carcere vive ancora non dico nel periodo della industrializzazione, ma addirittura in un periodo precedente. Quindi soltanto riuscendo a capire questi tipi di meccanismi ci si rende conto di come difficile riuscire a esprimere problemi, che pure verrebbero risolti in tempi velocissimi. Quando qui è stato fatto un giornale, è stato fatto praticamente in una forma di semiclandestinità, lo abbiamo fatto di nascosto, altrimenti non sarebbe mai uscito. Il tempo, prima di tutto, il tempo vuoto del carcere. Per secoli la chiesa ha considerato che l'usura fosse uno dei più neri peccati, perché basa l'arricchimento sul furto del tempo, e il tempo appartiene solo a Dio. Nel carcere le cose non vanno molto diversamente, in quello moderno si intende basato sul principio della segregazione cellulare: c'è una sottrazione di vita, questo è indubbio. Ma c’è anche di peggio: c'è il tempo alienato, senza qualità, della prigionia stessa, l'attesa in una anticamera, la lunghissima coda da fare davanti ad uno sportello, lo svuotamento del proprio tempo, del proprio ritmo, e l'accettare e il lasciarsi penetrare da questa orribile esperienza di un tempo esterno alla persona, ostile, scandito da accadimenti che non le appartengono. Questa è una delle peggiori pene del carcere. È anche un veleno sottile, provoca una pericolosa malattia morale: la persona spogliata del proprio tempo e separata dal tempo altrui, dalla vita, dagli affetti e dalla vita delle cose, sigilla in sé il proprio vuoto e se lo porta dietro, a volte per sempre è forse questa l'essenza del puzzo di galera di cui alcuni ex carcerati non riusciranno più a liberarsi. È il dramma della separazione, della non appartenenza, l'aver stroncato in sé la capacità della dedizione totale, la diffidenza, il sospetto, il rapporto umano corrotto dalla riserva mentale dalla paura dell'altro. Non chiedere troppo alle persone care per non ricevere risposte che più tardi, in cella, verranno considerate bugiarde. L'attenzione microscopica, miserabile al proprio utile. All'opposto, ma è la stessa cosa, la generosità come calcolo, le buone qualità come strumenti. La persona, spogliata del proprio tempo, degrada inesorabilmente l'intelligenza in furbizia. Ogni atteggiamento coatto è un segno di questa degradazione, e il tipico coatto di galera ne è il risultato finale. Niente va senza contraddizione; a volte l'ansia di riappropriazione può diventare incontenibile; si vogliono frantumare i vetri divisori e rientrare nel tempo. Nel carcere il linguaggio di questa riappropriazione è la violenza. Testimonianze di carcerati. - La prima cosa è quella di riuscire a capire, di riuscire a trovare una ragione di vita che sia nel giusto. Facendo quello che fai, non privarsi di niente non reprimersi. Non voglio vivere una vita meschina: voglio vivere una vita aperta, piena, più semplice; io lavoro per te, tu mi dai quello che serve a me. È la comprensione; io ne posso dare tanta di comprensione; però ti ripeto in certi ambienti la ricevo, in altri no. Ti passa la voglia, ti passa proprio la voglia. In che cosa possiamo sperare noi? In un lavoro che ci dia sicurezza, perché per come siamo noi, la sicurezza è un fatto importantissimo. - Avevo circa vent'anni da espiare. Dopo di lì sono andato allo sbaraglio. Credevo di uscire di nuovo come ero prima. Poi invece, piano piano, ho visto che mi sono salvato. Ho cercato sempre di evitare ogni tipo di rivolta. Sono stato fortunato ma è una fortuna mia, perché se volevo fare una rivolta o altri reati dentro il carcere, avrei avuto altri anni. E invece le ho sempre volute evitare, un po' perché l'ho voluto io, un po' anche per la famiglia che mi è stata sempre vicino. Poi, in conseguenza a una di queste rivolte, ma non per colpa mia, sono stato trasferito a Volterra in una delle carceri più dure d'Italia. C'è la chiusura totale, poi subentra la finzione di interessi, e poi si lascia stare tutto. Il detenuto si incattivisce è peggiora la sua situazione anche morale, perché poi non ha più limiti nella ribellione. Nessuno è felice di fare guerre e lotte. Nel carcere speciale non è possibile aprire il dialogo in questo senso, perché, se tu vuoi ragionare, sei considerato un debole, se tu non vuoi ragione e attacchi, hai già perso in partenza, perché ti arrivano le guardie, con i manganelli, ecc. Commentatore nel filmato: Esiste un punto di rottura, un punto cioè al di là del quale, esperienze e riflessioni mutano profondamente indirizzo e passano ad ingrossare un bagaglio di sentimenti repressi, destinati poi, un giorno, ad esplodere nell'odio contro tutto e tutti. È proprio il crearsi di tali condizioni che mi induce a considerare l'utilità della brevità del periodo detentivo che dovrebbe protrarsi sino, e non oltre, alla materializzazione del significato redentivo di esso. Inoltre organi competenti dovrebbero lavorare alla valutazione dell'avvenuto ravvedimento, o meno, dei detenuti, e disporre adeguate concessioni di benefici che permettano a questi ultimi un graduale reinserimento nella società, annullando, in tal modo, anche eventuali influssi negativi successivi, di cui essi potrebbero cadere vittima. La misura del tempo è data esclusivamente dallo sviluppo della tecnologia ed è assurdo considerare un anno di oggi uguale all'anno di ieri: se i responsabili delle carenze delle strutture giuridiche non si renderanno consci di questa evoluzione, si perderanno per le strade migliaia di giovani a cui il nostro tempo, ha insegnato, purtroppo, a comprendere ciò che sfugge ancora alle generazioni adulte. I detenuti non vogliono neanche promesse o speranze che non avranno mai un esito, però vogliono sentirsi amati, importanti. Vogliono che una persona li pensi. Sentono la sincerità di una persona che, anche se non può fare niente, però li ama da lontano. Aspetta quel dato giorno per vederli, va dalla mamma quando la mamma non può andare, telefona alla mamma per assicurare che il figlio sta bene. Per loro queste piccole cose contano; bisogna conoscerli, per capirli. Ora, sono in uno stato d'animo speciale; nel carcere speciale essi sono costretti ad uccidere per non morire, ma senza nessuna intenzione di uccidere. Questi carceri speciali! Questo articolo 90! Sono costretti veramente a diventare belve, perché hanno tolto i loro colloqui settimanali, vedono la famiglia una volta al mese, non ricevono pacchi. Se prima erano trattenuti dal pensiero "aspetto lunedì, fino a lunedì sto calmo, ho avuto questo scontro perché altrimenti non vedo mio figlio, mia moglie". Avendo tolto loro queste cose, non hanno pi' un freno anche se vanno contro se stessi. Non hanno più questo attimo di gioia alla settimana, non hanno questa lettera, la posta ferma, abusi di ogni genere, abusi di ogni genere anche sulle persone dei familiari. E allora non hanno più qualcosa che li trattiene, capisci? Chi non vuole il reinserimento del detenuto, ha ottenuto che il detenuto ammazza un proprio fratello in carcere, per esasperazione, per terrore. Hanno ottenuto quello che volevano.

R. Ronza:

Dopo le immagini di questo audiovisivo le parole e i suoni, nonostante le difficoltà di registrazione, mi pare che si sia capita la sostanza di queste testimonianze. Dopo che queste parole, immagini, suoni, ci hanno portato più vicini, più di prima, alla condizione carceraria, alcune domande all'on.le Garocchio che da tempo si occupa come dicevo, di queste cose. Garocchio, perché ti occupi di queste cose? A occhio e croce, non deve essere una gran messe di voti, quella che si accoglie occupandosi del problema dei carcerati.

A. Garocchio:

Non è una gran messe di voti, ma è una gran messe di amici nella popolazione carceraria e nei familiari. Comunque, io sono entrato nel carcere, per risponderti, per una curiosità che potevo appagare con tesserino da parlamentare ed ho incontrato questo mondo, e questo mondo mi ha aiutato a vivere, mi ha aiutato a capire la serietà della vita. Non saprei aggiungere altro su questo, su che cosa ha fatto scattare in me un interesse. Non è stata un'iniziativa totalmente mia: sono stato accompagnato a questo incontro. Questa è la mia esperienza.

R. Ronza:

Abbiamo già cominciato a vederlo, nonostante l'assenza delle persone, dei volti dalle immagini. Le immagini ci davano l'idea di come si vive in carcere. Però da te che sei un osservatore prossimo di queste cose, di queste condizioni vorrei sapere nuovamente: Come si vive in carcere?

A. Garocchio:

Ma io qua ripeto a numerosi giovani delle cose che ormai si sanno, per altro si sanno da non più di due anni, e cioè da quando abbiamo cominciato questo lavoro: non sono stato io il solo. Il carcere in Italia è una cosa tragica: noi abbiamo il 60% di edilizia carceraria che è fatiscente; sono vecchie mura, ex conventi o cose simili; nelle celle vivono normalmente da 4 fino a 8 persone; perché una si muova, le altre devono stare distese. Per latro, alla nuova edilizia carceraria soggiace una cultura profondamente disumana: stiamo imitando alcuni carceri speciali tedeschi in cui la gente entra per espiare, ma dopo alcuni anni è pazza, specie nelle carceri speciali, che sono totalmente automatizzate. L’assistenza medica, nel 70% delle carceri italiane, è inesistente; il detenuto viene trasportato nell’ospedale della città, ma l’ospedale si rifiuta di accoglierlo per una serie di motivi, oppure mancano le guardie che possono piantonarlo e, quindi, abbiamo ammalati di cancro che sono in attesa di ricovero da mesi. Il 70% della popolazione carceraria italiana è in attesa di giudizio; quindi teoricamente innocente, poi le statistiche diranno che almeno oltre il 40% di questi sono davvero innocenti. La promiscuità è totale: uno entra perché ha insultato un vigile e può andare in cella con dei killer, con dei massacratori; dove capita capita. Le esperienze sessuali all’interno del carcere sono sconvolgenti. Il tasso dei suicidi è molto alto perché è una forma di fuga, la più tragica naturalmente, la più radicale. Nel carcere ci sono alcuni poteri, che sono il potere costituito, che è quello della Direzione, che normalmente riesce a mantenere una forma di ordine, e ci sono poteri occulti che sono quelli delle organizzazioni criminali che hanno un vasto potere nel carcere al quale la popolazione carceraria normalmente soggiace. Questo è un quadro molto rapido della situazione.

R. Ronza:

Ho detto all’inizio con tutti quelli che partecipano all'incontro, che, tuttavia, c'è una speranza nel carcere, che il carcere non è un inferno, necessariamente: me lo confermi?

A. Garocchio:

C’è Angela Corradi con noi, che è la testimonianza che nel carcere c’è una speranza. pretendo siano la verità, certamente sono, la mia esperienza. Oggi il carcere è un luogo totalmente estraneo alla società, alla gente: è il luogo in cui lo Stato, il sistema, (Io dirò alcune cose su questa domanda, su questa provocazione, alcune cose che non chiamatelo come volete), segrega i contaminati. Quando parlo di contaminati, dico che anche le guardie carcerarie, o la popolazione civile, nel senso della direzione, (cioè non i militari), sono sostanzialmente dei contaminati, tant'è che non escono dal circuito carcerario. Lì vengono segregati dei contaminati e sicuramente hanno delle responsabilità nei confronti della società, almeno una parte. Ma caratteristica maggiore del carcere è quella che abbiamo :ascoltato in un pezzo di audio, e cioè il carcerato e il custode sono uomini fuori dal tempo; il tempo ha tutto un altro valore. Io non sono convinto che il primo dramma sia la degradazione umana; questo accade nella società borghese attraverso la droga. La cosa più radicale che colpisce è che la gente nel carcere impazzisce, cioè perde il principio di realtà. Questo ha degli esiti, secondo me, non tutti negativi, ma perde il principio della realtà. La società, la gente, in modo confuso, in modo latente, è conscia che attorno a sé (San Vittore è nel centro di Milano), accanto a dove vive esiste una mostruosità che non è conosciuta. E questo aumenta, come dire, (Testori la chiamerebbe "la cosa") questo che io chiamo un mostro; la gente ne è cosciente, anche se non sa. Allora alla domanda, all'ansia che questa "cosa" provoca, la risposta è sempre quella, più o meno forbita, ed è che il carcere è un inferno e quindi bisogna intervenire sulla struttura, perché cambiando la struttura migliorano le condizioni di vita. Questo è profondamente vero: io tra l'altro qui non ho tempo di introdurmi nel nuovo rapporto che è avvenuto dopo il '68 tra carcere e istituzioni. Anche nel carcere, certi valori, specie in funzione della presenza del terrorismo, sono caduti, e ne sono avvenuti altri, molte volte degli pseudo-valori. Ma mi interessa dire che è profondamente giusto questo giudizio sulla struttura, che va cambiata è questo uno dei compiti del legislatore, uno dei compiti del deputato in commissione giustizia. Noi stamattina non facciamo proposte; vi diciamo delle cose che coinvolgono l'uomo che è, secondo me, alla frontiera della disperazione. La cosa più importante che ha capito è che il carcere vanifica, (come un acido corrosivo libera il metallo), vanifica tutte le sovrastrutture nell'uomo. Il carcere non è più il luogo in cui può avere terreno un'ideologia: ce l'ha fuori, quando discorrono sul carcere, ma nel carcere non ha spazio. Le sovrastrutture sono vanificate. Questo mette a nudo la carne, il cuore, lo spirito dell'uomo. Io credo paradossalmente, ma non tanto paradossalmente, che nel carcere, l'uomo è restituito più integro, non so come dire, a se stesso.

R. Ronza:

E quindi la domanda dell'uomo della strada è: "E’ meglio che andiamo tutti in galera?".

A. Garocchio:

E’ meglio che introduciamo nel nostro circuito quotidiano, nel nostro riflettere sulla nostra vita, il carcere, che è ancora fuori fino a quando ho una famiglia che mi dice: "Occupati di altro perché il paese ha ben altri problemi". Quando in una famiglia capita che il figlio, anche per una sciocchezza, va in carcere, allora quella famiglia si fa carico. Allora reintrodurlo nella nostra quotidianità, perché (concludo questo concetto che mi interessava dire) la sofferenza (questo chiunque deve ammetterlo) molto spesso o sempre, nell'ospedale come nel carcere, soprattutto nel carcere, secondo me, rende più veri. Quindi la mia esperienza mi fa dire, mi fa negare come troppo semplicistico l'affermazione che il carcere è un inferno. Paradossalmente il carcere (e anche qui metto la parola tra virgolette), "è il luogo più vicino alla speranza", perché l'uomo è ridotto alla domanda su di sé. E quindi, in qualche modo, il carcere è un luogo in cui è esaltata la dignità dell'uomo, cioè lo scheletro della dignità è lì, non ha più delle sovrastrutture. Ed è anche molto più indifeso l'uomo: era quello che diceva prima in un passaggio dell’audio che abbiamo sentito, la violenza c'è, perché diventa più facile aggredire questa dignità che è più indifesa. La mia esperienza mi fa chiamare questo che accade, non un frutto del caso, ma la rivincita dello spirito. Nel carcere l'esperienza più esaltante che si può fare in quella contraddizione, in quella sofferenza, in quella violenza, (si badi bene, non andando e uscendo e facendo i comunicati ai giornali, ma convivendo, cioè cominciando a capire qualcosa dì questo mondo), si assiste alla rivincita dello spirito, lo spirito si riesalta, (vi prego di credermi) riesalta l'umanità. La cultura laica lo chiamerà lo spirito della ragione, per me è lo spirito. Credo di poter essere accettato per ciò in cui credo. Io ritrovo lo spirito. Allora questo mi fa dire, e concludo: io non sono andato per il lavoro che faccio, che farò come parlamentare soprattutto per migliorare le condizioni di vita nel carcere questo va da sé, altrimenti ci prenderemmo veramente in giro. Questa è una cosa che non si può non fare, battersi perché gli agenti prima di tutto, coloro che sono in carcere non per scontare la pena, ritrovino una maggiore dignità. Abbiamo una proposta di legge ottima sulla riforma del corpo degli agenti di custodia. Ma non è questo il fondamento della presenza mia e di altri, non è il cambiamento della struttura, anche se questo non può non essere dentro. È che io vado lì, mi permetto di re questo, perché (c'era un vecchio film di tanti anni fa, il titolo era "Dio ha bisogno dell'uomo") io ho la certezza che la redenzione, attraverso anche la materialità di uomini di buona volontà, che lavorano su questo terreno, la redenzione è in atto nel carcere. Lavorando lì dentro, si contribuisce a che accada questo fatto, a che l'uomo che è lì con la sua dignità, libera dalle sovrastrutture nel rapporto con l'esterno, con noi o con altri, sia sostenuto nel mantenere questa dignità. lo non ho portato delle lettere: potrei testimoniarle, queste affermazioni. La domanda fondamentale che nelle lettere ci viene rivolta è la richiesta che l'uomo fa di salvarsi. Non chiedono più tanto aiuto per essere rimessi in libertà, per il lavoro esterno; certo, questo c'è sempre, lo facciamo con un impegno, fermo restando il fatto che chi deve scontare sconta e qui non c'è nessun sentimentalismo dentro. La domanda fondamentale è che, attraverso il rapporto con il mondo esterno, possano ritrovare totalmente se stessi, salvarsi, cioè dare una materialità, una immagine, aiutarli a definire la speranza, aiutarli a ridefinire ciò che hanno percepito come lo spirito che agisce. Questo è ciò che ci ha fatto muovere, questo che io ho detto, anche se non in modo lucidissimo, ma che mi premeva dire, questa è la ragione che ci fa continuare perché è facile iniziare ma è difficile andare avanti.

Dialogo fra ANGELA CORRADI e CORRADO GUERZONI

C. Guerzoni:

E’ il 23.8.1983: sono le 12,05, siamo in una località balneare delle più celebri città balneari. Eppure qui ci sono, in questa sala piuttosto caldina, alcune migliaia di giovani, che hanno preferito di fronte ad altre possibilità: di parlare delle carceri. Che impressione le fa questa agape di giovani riuniti in questa sala?

A. Corradi:

E’ un'impressione di commozione. Perché vedo che anche altri miei fratelli sono amati, non sono sola ad amarli.

C. Guerzoni:

Ma perché secondo lei, i giovani sono tanto interessati al tema delle carceri?

A. Corradi:

Forse perché vedono che devono indirizzare il loro sguardo anche verso chi soffre ma non solo, come diceva prima Alberto, dal di fuori, da lontano, ma da vicino. Io penso che ogni persona che è qua vuole sapere: "Mio fratello è detenuto, ha commesso un reato, sta pagando e io voglio sapere di mio fratello. Voglio sapere condividere ciò che sta passando mio fratello". Perché è facile amarci tra noi: amare chi le amarci tra noi: amare chi spara, chi uccide, chi ha fatto del male, amare chi odia non è facile, Gesù lo sa.

E

C. Guerzoni:

Cerchiamo di cominciare dall’inizio: Angela Corradi, 33 anni, se non sbaglio; dove è nata?

A. Corradi:

Sono nata a Milano, Afori, un quartiere di Milano. 1

C. Guerzoni:

Come era Milano 33 anni fa, Afori era un po' fuori.

A. Corradi:

Era periferia. Era un rione molto conosciuto per le sue bande di teppisti.

C. Guerzoni:

Era una periferia abbandonata, diciamo. Come era la vita tra i ragazzi di quell'ambiente: lei sa che al giorno d'oggi si cerca sempre di dare una spiegazione sociologica, psicologica, economica. Bene; io credo che nessuna di queste ragioni spieghi, però forse tutte concorrono alla condizione umana di ragazzi e ragazze di quell'ambiente di Afori di 33 anni fa.

A. Corradi:

Per quanto riguarda la mia compagnia, non so dare una spiegazione, posso tentare di darla per quanto riguarda la mia persona, e poi, magari, insieme cercare di abbinarla a loro. Il mio papà era un pregiudicato, stava pagando il suo errore in carcere ed io era una bambina molto chiusa perché avevo già delle contrarietà con gli altri bambini per l'errore del papà. Sempre, alla partenza di ogni mio gesto e stato questo amore per i fratelli, nonostante gli errori che si facevano insieme; e andavo a cercare, chissà perché, tutte le persone che erano più additate, più giudicate, più emarginate non nel senso che la parola ha oggi e che non tocca più, ma di una bambina, che come me, di sei anni, non poteva giocare con gli altri bambini.

C. Guerzoni:

Quindi lei si sentiva esclusa?

A. Corradi:

Esclusa. Però non ho reagito escludendomi. Ho tentato di reagire, escludendo chi mi escludeva.

C. Guerzoni:

Ma all'inizio della sua vita umana, c'è un atto di ribellione?

A. Corradi:

Penso di sì, penso che amavo tanto il papà, non comprendevo per il momento gli errori che lui aveva fatto e tentavo di difenderlo in quel modo.

C. Guerzoni:

Questa ribellione ha percorso un cammino accidentato, fino a trasformarsi in un atto d'amore.

A. Corradi:

Secondo me è stato un atto d'amore anche prima, quando non conoscevo il Signore. Forse non ero consapevole.

C. Guerzoni:

Ma ad un certo momento anche l’esperienza del carcere. A noi non interessa, non siamo giornalisti che vanno alla ricerca del pettegolezzo, del singolo fatto che può essere addebitato alla singola persona, anche perché credo che prima di dire dell’esperienza del carcere, bisogna dire che in fondo chi è stato in carcere, quale che sia la ragione, è guardato con estrema diffidenza dagli altri, anche i cosiddetti "buoni".

A. Corradi:

Io li chiamerei "buoni più fortunati".

C. Guerzoni:

Anche dai cosiddetti "per bene" che apparentemente sono in ordine?

A. Corradi:

Io dal "troppo buoni" sto 'avendo riferimenti continui tutti i giorni, anche davanti all'altare.

H

C. Guerzoni:

E quindi ad un certo momento, abbiamo detto l'esperienza del carcere. Come è la vita di una donna nel carcere?

A. Corradi:

La vita di una donna nel carcere dipende dal carattere che ha la donna; ci sono persone che possono entrare in carcere e non perdersi, e prendere questo come un’esperienza positiva, possono rimanere spaventati, ma vivere questa realtà positivamente; poi ci sono persone che proseguono e tentano di andare sempre più a fondo in questa esperienza. Non si arrendono.

C. Guerzoni:

Ogni tanto succede che nelle carceri una donna abbia un figlio, e si dice che questa è una specie di rivendicazione del diritto alla vita nella città dissacrata della morte. È una specie di tentativo di misurare il tempo della galera, un tempo perso che, attraverso un figlio, viene come recuperato. Lei ha qualche cosa da dire su questa ipotesi che è stata avanzata?

A. Corradi:

Il mio parere è che un figlio, supera qualunque altra cosa e attira la tua attenzione, ogni tuo istante più di qualsiasi altra cosa, anche se nel dolore come nella prigione.

C. Guerzoni:

Non vorrei essere indiscreto: lei ha mai sognato di avere un figlio?

A. Corradi:

Io sì, certo. Ho sognato di averlo fisicamente, di sentirmi madre, ma comunque adesso il Signore mi fa sentire mamma mille volte. Non ho problemi.

C. Guerzoni:

Quindi lei è sorella perché riconosce ad un tempo che tutti sono fratelli, lo fa spiegandosi con l'esempio. Quindi lei va nel carcere o tenta di andare nel carcere. Ma la sua condizione precedente, quella condizione per la quale lei ha già pagato alla cosiddetta giustizia dell'uomo il suo prezzo, le crea uno stato di difficoltà, ci sono diffidenze insormontabili?

A. Corradi:

Mi crea un muro.

C. Guerzoni:

Un muro, ha detto. Bene, io vorrei, perché questo fa parte delle mie tradizioni, leggere alcuni versi, proprio avendo lei detto la parola "muro", alcuni versi di Salvatore Quasimodo.

"Contro di te alzano un muro in silenzio pietra e calce, pietra e odio, ogni giorno da zone più elevate, calano il filo a piombo. I muratori sono tutti uguali: piccoli, scuri in faccia, maliziosi; sopra muro il segnano giudizi sui doveri del mondo e, se la pioggia li cancella, li riscrivono ancora con geometrie più ampie. Ogni tanto qualcuno precipita dall'impalcatura e subito un altro corre al suo posto. Non vestono tute azzurre e parlano un gergo allusivo; alto è il muro di roccia, nei buchi delle travi ora si infilano gechi e scorpioni; pendono erbe nere. L'oscura difesa verticale evita da un orizzonte solo i meridiani della terra; il cielo non lo copre; di là da questo schermo, tu non chiedi grazia né confusione". Ecco, questo muro di cui Salvatore Quasimodo dice così bene, come si può rompere, travalicare, ovvero aggirare?

A. Corradi:

Ma io credo che si possa addirittura passare e ripassare con un tentativo di comprensione, come diceva il filmato prima, con un tentativo disperato di dire "voglio dividere con te questo". Non so se ti vedrò attraverso quel muro, comunque il mio amore passa, passa e ritorna il tuo amore, e rimane il nostro amore, perché come dicevo prima, ogni detenuto non è solo un nome, una storia, ogni detenuto ha i suoi progetti. Una persona può passare l'ergastolo e può passare questo muro e non vivere l'ergastolo ed essere libero, perché veramente può. Io sono stata detenuta atea completamente persa, vuota e arida, eppure il Signore mi ha fatto ritornare detenuta sua, tutta sua.

C. Guerzoni:

Ed ecco questo passaggio: ora, però, vorrei che lo approfondissimo un momentino. La vita di un uomo di una donna, la vita intera: tutto si tiene, nessun pezzo può essere perso o abbandonato, tutto deve essere recuperato. Quindi non c’è un passato di Angela Corradi, un presente di Angela Corradi, un futuro di Angela Corradi. C’è Angela Corradi donna, tutta insieme nella sua esperienza. Eppure c'è una evoluzione: si passa attraverso una serie di esperienze. Ecco la sua maturazione, la sua evoluzione è avvenuta in carcere o dopo il carcere?

A. Corradi:

E’ avvenuta in libertà: il Signore penso che mi abbia preso nella libertà proprio perché io non confondessi la mia vocazione con la disperazione o con la solitudine.

C. Guerzoni:

Bene: dopo molti anni di carcere, credo 5, lei si è chiusa volutamente, deliberatamente per 8 mesi in casa sua. Questi 8 mesi di libera elezione, cioè di una prigionia che uno si dà con le proprie mani: che senso hanno avuto, che senso hanno?

A. Corradi:

Penso che io abbia dovuto percorrere a ritroso, insieme al Signore; la mia vita fino a quegli 8 mesi. Sono sicura di essere morta, quando mi sono conosciuta, quando mi sono vista. Quando il Signore è venuto da me (è difficile spiegare), io non avevo nessuna intenzione di cambiare. Sarebbe una tentazione dire: "Sì!, ho capito che sbagliavo, ho voluto cambiare" e invece non è vero. Io non ho riflettuto, accettavo il male così, per ciò che era; ero persa, non avevo programmi di vita da ricostruire, ero tutta da abbattere sia in me che per gli altri e il Signore mi ha fatto vedere il suo amore, mi ha amato.

C. Guerzoni:

Ma vediamo se riusciamo a ricostruire il primo momento: io non la vorrei chiamare conversione, la vorrei chiamare evoluzione. Credo che nessuna evoluzione avvenga in un momento come con un colpo di bacchetta magica, in modo miracolistico, ma attraverso un processo che nasce dal proprio interno. Ma c’è un momento in cui questo fiume carsico appare in superficie: ecco in quel momento, qual è la sensazione che ha avuto? Nel momento in cui dalla vita persa, (lei in un'intervista ha detto "ero in mano del maligno"), in quel momento qual è l'immagine anche fisica, psicologica che lei può tentare di elaborare?

A. Corradi:

Io posso tentare di farvi vedere una scena: io sono in casa, sto tentando di uscire, sono armata, gli unici progetti che ho sono quelli di uccidere, e il Signore mi si presenta? Non lui, io mento se dico "Lui", però la sua voce sì, la sua voce per intero. Non mi ha detto altro, mi ha detto solo "Ci sono" e io mi sono sentita terrorizzata.

C. Guerzoni:

La voce di Dio, certo, è ciò che si sente, perché Dio è parola.

A. Corradi:

Infatti: quando mi chiedono "ma come hai fatto Angela (anche il mio direttore spirituale) a sapere che era Lui?". Non ho chiesto "chi sei Signore?". Ho saputo che era Lui.

C. Guerzoni:

Infatti il problema non è che non esiste la voce di Dio: è che ci sono molte voci ma come distinguere la voce di Dio dalla voce di quell'altro, che Dio non è e che Dio sembra essere.

A. Corradi:

Si distingue con il risultato che è quello di vivere assieme a questa voce; con il risultato, con la preghiera.

C. Guerzoni:

C’è un verso di Paul Leloir molto bello, dice: "E’ in virtù di una parola che ricomincio la mia vita; sono nato per conoscerti, per chiamarti Libertà". Ecco: lei in un'intervista ha detto: "sono morta; Dio mi ha uccisa e poi mi ha fatto rinascere". È persona rinata; si nasce una seconda volta e si nasce elettivamente e volendo nascere: quali sono le cose in cui crede, le cose vere, le cose anche esistenzialmente vere in cui crede?

A. Corradi:

Ma lo mi sono distanziata tanto da ciò che pensavo prima del mio amore: infatti come sarei morta prima per uno dei miei fratelli, morirei adesso, solo che adesso morirei felice: non sparerei più come prima, per tentare di salvarlo, in quel modo perderei anche me, però mi metterei in mezzo, senz’altro. La prima grazia che ho chiesto al Signore è stata questa: quella di poter dare vita per uno di loro. E il Signore lo farà.

C. Guerzoni:

Angela Corradi è commossa, la cosa è assolutamente comprensibile perché la comunicazione è linguaggio, è esempio, è verità e quindi evidentemente sono cose che non possono passate indifferentemente. Allora: lei ha notato che io non ho mai parlato di conversione, ma di evoluzione. Io non l'ho mai conosciuta, se non stamattina. Avevo ascoltato un'intervista che Ivano Balduini le aveva fatto e un'altra non altrettanto felice di Biagi alla RAI. Però mi sono fatto questa impressione: in fondo il suo atto iniziale di ribellione per l'amore, non si può neanche dire che ha cambiato di segno. Ha preso la direzione giusta: si è allargato, dilatato. Non è una sublimazione degli istinti nella mistica, è una evoluzione dell'uomo esistenzialmente concreto che diventa protagonista della sua vita: è cosi? È una realtà, è un principio di realtà; ecco ma nel carcere, per tanti che ritrovano il principio di realtà, ve ne sono molti che perdono la propria identità, e forse anche definitivamente.

A. Corradi:

Penso che se c'è una cosa che chiederei oggi al Signore è questa: noi siamo qua in tanti. Se ognuno di noi pensasse e raccomandasse al Signore un detenuto, il più lontano da lui, io penso che con la preghiera di ognuno di noi il Signore troverà modo, è una sua promessa, e una sicurezza che io ho, che la mia esperienza non sarà unica; il Signore, travolgerà anche i miei fratelli si servirà non so di cosa, non so come.

C. Guerzoni:

Angela Corradi, lei non è un politico, né deve fare politica, ma come tutti coloro che vivono nella città degli uomini, ha una sua opinione sulle cose. Secondo lei, la carcerazione, questo istituto remoto nel tempo, ma nelle forme che noi conosciamo di non oltre due secoli, massimo tre secoli di vita, è proprio indispensabile, non si può fare a meno di questo nell'ordinamento della politica?

A. Corradi: qui,

No, io penso che una persona debba avere tempo di pensare ai suoi errori; non può essere aiutata, togliendogli questa possibilità, però non prendendo questa possibilità, questa occasione, per schiacciarlo definitivamente.

C. Guerzoni:

Ora le farò una domanda molto più difficile: Lo Stato ha le sue carceri; anche la camorra, anche la mafia, anche il terrorismo hanno le loro carceri, sono delle carceri collegate al sistema loro: i sequestrati, quanti sequestrati che vivono in condizioni disastrose, subumane, i sequestrati che tutti noi ricordiamo e che portiamo nella nostra coscienza. Ecco; come può nascere una cultura della libertà in queste condizioni in cui convive con lo Stato ufficiale tutta un'altra serie di stati che pretendono però degli ordinamenti propri, leggi proprie, sanzioni proprie fino alla morte: che impressione le fa tutto questo?

A. Corradi:

Io penso che è appunto a partire da ognuno di noi. Se noi ci chiamiamo cristiani, e Cristo è amore, allora se uno non ha fatto un errore deve cercare di demolire la prigione che si costruisce l'altro fratello, ma la prigione interiore; e non ammassare mattoni su mattoni, ferro su ferro sul fratello. È come per la pace, la stessa cosa è per la pace. La pace è perdono. Io voglio ricominciare insieme a te, perché insieme a te voglio raggiungere questa pace. Però non posso ricominciare con i miei vantaggi sopra i tuoi svantaggi; voglio dividere tutto con te e per dividerlo, devo solamente amarti. Non posso accettare senza amore, di ricominciare insieme.

C. Guerzoni:

Senta: la giustizia, che cos’è la giustizia?

A. Corradi:

Posso solo fare un esempio: la metà della banda Vallanzasca ha preso l'ergastolo e non lo meritava.

C. Guerzoni:

Quindi la giustizia è un po' cieca.

A. Corradi:

E’ indirizzata.

C. Guerzoni:

Cioè la giustizia è incompetente o cattiva?

A. Corradi:

Non è cristiana.

C. Guerzoni:

La condizione sociale di coloro che sono nelle carceri, ancora oggi, dopo tanti anni, in prevalenza, di origini umili, persone che provengono da ceti umili. Per molto tempo le carceri sono state il luogo dove venivano eliminati costoro che provenendo da basse classi sociali, non erano omologabili al sistema, quindi venivano repressi con una repressione che, prima era fisica, quando non si apprezzava il valore delle braccia, e poi è diventata una repressione esercitata sull'anima, sul pensiero. Quindi, in fondo, la maggior colpa della pubblica istituzione, è quella di deprivare l'uomo della sua capacità di pensare, di conoscere, più che della libertà materiale.

A. Corradi:

Sì, e può riuscirci solamente se l'uomo non ha Dio, come me prima, ma se lo ha non ce la farà mai.

C. Guerzoni:

Io vorrei chiudere con una citazione dall'Osservazione sulla Morale cattolica di Manzoni; sono due citazioni; una dice, è un interrogativo: "La fede è stata data ai cristiani per dispensarli dalla carità. E la seconda dice: "Il sangue di un uomo solo sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra". Vuole commentare queste due…?

A. Corradi:

Ma non riesco a commentarle, penso che ognuno possa commentarle personalmente - però vorrei che lei leggesse questo che ho scritto per i miei fratelli. È semplice perché il Signore dice che bisogna tornare bambini.

C. Guerzoni:

"Catene al cuore che imprigionano il soffio di vita di chi è solo a dir l'amore, al dolor proprio quanto appassire di germogli. Così implorano, dichiarando di sé non altro che tentativi disperati di speranza, ma c'è Colui che sente il pianto di quanti hanno il deserto nello sguardo, ma c'è Colui che mai s'arrende nell'amar chi non è amato". Ecco, sono passati 25 minuti dall'inizio della nostra trasmissione: ora è un po’ più caldo. Bene, a tutti questi giovani che alle 12,30 sono ancora qui, lei che cosa dice, al di là della poesia che ci ha fatto leggere, che ci ha consentito di poter leggere. Quale speranza, quale progetto, quale utopia in un mondo che sembra volare a volo così radente, così raso terra, più da gallinaceo che da aquila, lei a questa gioventù, splendida gioventù qui convenuta, lei che cosa dice?

A. Corradi:

Di tendere questa marcia senza paura, perché in ogni persona che ha commesso errori, c’è un cuore non si aspetta niente altro. Si aspetta solo cattiveria, odio, malvagità, e non si spetta il bene, e se questo bene viene nella misura minima, non è dimenticato e viene ricambiato con intensità.

C. Guerzoni:

Certo. Quindi potremmo invitare questi giovani ad alzare la mano nel gesto di tenderla al carcerato, perché sia consacrato nella cronaca del Meeting, che oltre duemila giovani hanno dato idealmente la mano al carcerati. E allora ... fatelo!

R. Ronza:

Il nostro incontro si conclude qui. Non ho nessun'altra parola da aggiungere, se non promettere meditazione su ciò che abbiamo ascoltato e visto questa mattina. Grazie a tutti voi.