Imprenditoria e comunicazione pubblica e privata: i protagonisti

Giorgio Gori

Domenica 25, ore 19

Moderatore:

Paolo Fumagalli

 

Fumagalli: Questo è il primo di una serie di incontri con personaggi che il Meeting ha invitato per raccontare la loro vita professionale e la loro esperienza personale. È la possibilità di conoscere alcune realtà aziendali e quindi anche personali, perché sono fatti di persone, del mondo imprenditoriale italiano.

Oggi qui con noi c’è Giorgio Gori, da giugno direttore di Canale 5. Gli chiediamo un parere a riguardo dei cambiamenti, delle possibilità che per una televisione come Canale 5, o comunque per le reti private, si possono aprire con la legge Mammì.

Giorgio Gori, direttore di Canale 5.

Gori: La legge Mammì rappresenta un momento importante per il sistema audiovisivo italiano perché mette fine ad un decennio di esperienze molto vivaci totalmente autogestite e non regolamentate. Quest’ambito si definisce attraverso una serie di regole che riguardano gli affollamenti pubblicitari che vengono ridotti rispetto al passato, alcuni obblighi per quello che riguadra la trasparenza dei messaggi commerciali per cui le sponsorizzazioni devono essere evidenziate. C’è un piano di ripartizione delle frequenze su cui le varie televisioni regionali e nazionali andranno a trasmettere e che pure assegna ad ognuno il suo spazio certo e non discutibile e per contro ci sottopone ad un obbligo, quello di fare informazione.

Tutto questo definisce un quadro istituzionale finalmente certo e quindi ci toglie un po’ dall’apprensione in cui abbiamo vissuto in questi anni dove molto è stato fatto e si è verificato uno sviluppo del settore straordinario anche confrontato con l’esperienza di altri paesi europei e nel mondo in generale.

Fumagalli: Molto spesso gli utenti della televisione sono fruitori di un servizio per il quale ci si sente molto limitati nella propria libertà, ci si sente un po’ come a uno spettacolo che qualcun’altro prepara, confeziona e offre a chi sta dall’altra parte del televisore. Un po’ come Mangiafuoco con i burattini. Come si vive questo ruolo di condizionatore dei gusti, delle persone che stanno a guardare la televisione?

Gori: Io non mi sento condizionatore delle persone che guardano la televisione, perché verifico tutti i giorni esattamente l’opposto. Chi programma una televisione commerciale, e quindi una televisione che vive semplicemente del suo rapporto di consenso del pubblico, si sente quotidianamente non dico vittima, ma in ogni caso ricettivo nei confronti di quello che il pubblico chiede, sceglie, mostra di gradire particolarmente. Dovete pensare cha la televisione commerciale non ha una propria missione ideologica, il mandato esplicito di servizio pubblico. È un’azienda, un’attività economica che trae dal mercato della pubblicità ogni sua forma di sostentamento e che a questo mercato ha l’obbligo di produrre, per poter essere una attività economica, il maggior numero di contatti, quindi di telespettatori, attraverso la produzione di programmi televisivi. Tutto questo, che sembra assolutamente estraneo al rapporto con i telespettatori, ripulisce da qualsiasi altro schermo, o criterio, il rapporto che c’è tra televisione e telespettatore, cioè tra chi fa la televisione e chi la fruisce. Chi programma ipotizza che il telespettatore gradisca un certo tipo di spettacolo e questa è una scommessa quotidiana. C’è questa specie di condanna del programmatore televisivo che è espressa con i dati di ascolto che la mattina arrivano sui nostri tavoli. Quando i dati non corrispondono alle nostre attese vuol dire che qualcosa abbiamo sbagliato, se il pubblico ha scelto altro. Sicuramente c’è un ruolo attivo del telespettatore nel condizionare le scelte di chi produce lo spettacolo televisivo al quale il programmatore televisivo è assolutamente soggetto. Certo, sono molto più contento se riesco a realizzare un buon ascolto con un programma di cui io stesso vado fiero; questo non è sempre possibile, nel senso che i gusti di chi fa la televisione non sempre sono quelli del pubblico. Sicuramente esistono dei vincoli di tipo morale legati al senso comune e che la legge stessa recepisce attraverso una serie di regole. Quindi come programmista mi sento non Mangiafuoco, ma una persona, anzi un gruppo di lavoro in un continuo rapporto di dare e avere con il pubblico, che contiene anche delle responsabilità. La responsabilità sta nell’ascolto costante di quello che accade nel Paese, nel recepire per tempo le voci che man mano montano e crescono, i cambiamenti, e darne ragione attraverso questo specchio che è la televisione. I programmi sono lo specchio imperfetto del pubblico televisivo.

Fumagalli: Una domanda scontata. Per le vostre televisioni la pubblicità è davvero un fattore così importante?

Gori: La pubblicità è l’unica fonte di sostentamento della televisione commerciale, che appunto trae il suo nome da questa. Le tre reti Fininvest sono un universo che dà lavoro a circa tremila persone direttamente e ha un indotto di circa diecimila persone, per cui abbiamo costituito un settore produttivo in Italia che prima non esisteva. La pubblicità è il sostentamento di decine di realtà culturali, passatemi questa accezione più ampia del termine culturale, in cui rientrano la televisione e decine di giornali, e le emittenti locali; essa è straordinaria, imprescindibile garanzia di pluralismo, di libertà nel nostro Paese. Senza pubblicità non avremmo avuto altro che la televisione pubblica degli anni ‘60 e ‘70, che era, permettetemi, molto peggiore di quella di oggi e soprattutto unica, e quindi unico soggetto culturale nel mondo audiovisivo italiano.

Credo, inoltre, che sia spesso sottovalutato il contributo che la pubblicità ha dato al sistema economico del nostro paese nel corso degli ultimi dieci anni. Il vettore costituito dalla televisione commerciale è stato fondamentale nel consentire lo sviluppo di decine, di centinaia di aziende. Quasi tutte le aziende, e sono migliaia, che hanno scelto la televisione come veicolo della propria comunicazione, sono state premiate attraverso l’acquisizione di quote di mercato, hanno potuto mantenere più basso rispetto ai propri concorrenti i livelli dei prezzi perché hanno acquisito un maggiore volume di vendita, hanno recuperato spazi di occupazione, nel complesso sono state il treno dell’economia italiana in questi ultimi dieci anni.

Fumagalli: Quando noi parliamo di ruolo attivo dello spettatore intendiamo la possibilità da parte di chi fruisce dello spettacolo che non siano stravolti completamente i valori in cui crediamo. Allora qui si pone probabilmente una diarchia: il fatto di far divenire questo ruolo attivo qualcosa di privato (scelgo le cose che più mi piacciono) fa perdere alla televisione la sua caratteristica di collettivo sociale. Come conciliare il fatto del ruolo attivo e quindi della scelta personale con il fatto della televisione come esperienza collettiva e quindi di possibilità allargata a tutti?

Gori: Mi è capitato qualche mese fa di assistere ad un incontro tra i ragazzi di Publitalia, cioè le centinaia di persone che si occupano della vendita della pubblicità per le tre reti, e un personaggio di grande valore della cultura italiana, Gianni Baget Bozzo, il quale fece un intervento tutto centrato su questa considerazione: che il periodo della fruizione collettiva della televisione sta tramontando; sempre di più – sosteneva – le persone sono portate ad una fruizione personalizzata del mezzo televisivo: il videoregistratore, la televisione a pagamento e mille altre forme che stanno prendendo piede in questo momento portano la gente a farsi la propria televisione. Il ruolo della televisione commerciale e anche della RAI è esattamente in contro-tendenza rispetto a questo fenomeno che è quello di creare momenti collettivi di fruizione delle immagini, dei fatti, dei programmi. In qualche modo schiavi di questa condizione, nel senso che altro non possiamo fare, se possiamo trovare una nobiltà tra molti fatti meccanici o strettamente economici del nostro mestiere, è proprio quella di riuscire a far vivere la stessa esperienza, nello stesso momento a milioni di persone. Tendenzialmente sono portato a pensare che sia un fatto abbastanza triste che la gente faccia i fatti propri anche in materia di televisione; per cui, anche se il fenomeno difficilmente verrà arrestato e proseguirà in quella direzione, credo che la nostra parte sarà invece quella di andare sempre di più verso la creazione di eventi, di fatti di grande presa collettiva, che poi possono costituire motivo di contatto tra una persona e l’altra. Non è la panacea di tutti i mali, ma può costituire un momento in cui la solitudine delle persone viene alleggerita.