Giovedì 24 agosto, ore 11

SCUOLA ELEMENTARE: IL BAMBINO DIVISO

Tavola Rotonda

Partecipano:

Giuseppe Fioravanti, Emilio Mariani, Costante Portatadino, Daniela Silvestri, Claudio Volpi.

Modera:

Mario Dupuis.

M. Dupuis:

Come ogni anno, all'interno del Meeting di Rimini viene dedicato uno spazio per i problemi della scuola. Anche con questo Meeting, che pone a tema la ricerca, il possesso della realtà, l'incontro con la realtà, il problema educativo non poteva non avere un suo momento esplicito di lavoro, di dibattito e di confronto. Se l'educazione è l'introduzione della persona alla realtà, perché nell'incontro con la realtà la persona possa conoscere se stessa, la sua vita, il proprio destino e il proprio significato, allora noi vogliamo paragonare questa mattina il fatto educativo, così come si sta consumando nel nostro Paese, con questa ipotesi, che l'uomo vero è l'uomo che è messo in condizione di incontrare e di conoscere il reale. Il tema che abbiamo scelto quest'anno è la scuola elementare, che interessa molti insegnanti presenti e soprattutto le famiglie. La scuola elementare, perché siamo in un momento estremamente delicato e grave nella vita del nostro Paese, dove il Parlamento sa fare poche riforme sulla scuola, e quelle che fa le sbaglia. Diciamo subito che su questa riforma, già approvata da uno dei due rami del Parlamento, il Movimento popolare ha espresso forti critiche e perplessità. Per questo stamattina abbiamo chiamato degli esperti a discutere con noi questo problema della riforma degli ordinamenti della scuola elementare. Sono il prof. Claudio Volpi, ordinario di Pedagogia presso l'Università "La Sapienza" di Roma, nonché docente di Pedagogia presso la Pontificia Università Lateranense o, come dice lui, l'Università del Papa, da due anni Presidente dell'Associazione pedagogica italiana, la SPEI. La dottoressa Daniela Silvestri, neoeletta al Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione nelle liste dello SNALS, sindacato che tutti conosciamo e membro della Segreteria Centrale dello SNALS. Il professor Giuseppe Fioravanti, docente di Pedagogia all'Istituto di Magistero di Napoli ed Emilio Mariani, Direttore didattico a Milano. Al prof. Volpi vorrei chiedere che ci aiutasse a vedere qual oggi lo scenario sociologico e pedagogico in cui si situa la vita della scuola, in particolare il mondo dell'infanzia, quale cultura pedagogica dobbiamo far crescere perché il bambino possa realizzare veramente se stesso e quali iniziative, secondo l'esperienza sua e dell'Associazione che presiede, occorre prendere perché una cultura pedagogica che mette al centro l'unità della vita del bambino possa crescere ed affermarsi nel nostro Paese.

C. Volpi:

L'accusa che noi facciamo alla società italiana in particolare, e a quella europea in genere, è di aver messo in evidenza, in questi anni, soltanto l'emergenza ecologico-ambientalistica: non c'è soltanto un'emergenza legata all'effetto serra o al buco dell'ozono, c'è anche un effetto che noi chiamiamo disassuefazione delle culture nazionali ed internazionali all'emergenza infanzia. Noi abbiamo problemi tremendi per il presente e per il futuro, legati all'aumento della droga, della violenza, alla caduta dei valori, all'incapacità di leggere complessivamente la realtà, di trovare significati da un punto di vista emotivo-intellettuale che fanno sperare male nei confronti del controllo del futuro. C'è un'emergenza infanzia, che richiede forti investimenti pubblici e privati nei sistemi educativi formali e informali, e la ricostituzione di una cultura che consenta all'uomo e al bambino di oggi di poter controllare il cambiamento, di poter affrontare adeguatamente le sfide di ordine psico-sociologico, economico e politico che noi abbiamo di fronte. Noi riteniamo, quando dico noi intendo l'Associazione che mi onoro di presiedere, che non ci sia stato in Italia, in particolare in questi anni, un adeguato affronto del problema infanzia che è uno dei problemi centrali dello sviluppo sociale, civile, politico e morale del nostro Paese. Per quanto riguarda poi il discorso che si potrebbe fare sul sistema educativo italiano, mi sembra che sarebbe impietoso continuare nelle critiche che in questi anni sono state fatte un po' da ogni parte: noi abbiamo una cultura politico-pedagogica arretrata rispetto alla tonalità, alla qualità e all'urgenza dei problemi che abbiamo sul tappeto. Non solo perché si avvicina il mitico, minaccioso, sperato '92, in realtà '93, ma perché di fronte alla concorrenza internazionale e di fronte alla capacità di controllare anche il nostro scenario, la risposta che da il sistema educativo, formale o informale, è deludente, di retroguardia, complessivamente vecchia. Nessuno ha capito che gli investimenti politico-sociali che rendono di più sono gli investimenti nell'educazione. Abbiamo un Ministero della Pubblica Istruzione che praticamente non esiste più, ridotto come è al rango del più grande Provveditorato agli Studi in Italia, abbiamo un bilancio per cui si annunciano ulteriori tagli oltre quelli che già hanno caratterizzato questi anni e non abbiamo sostanziali politiche di rilancio, sia a livello di formazione, che di aggiornamento, che di perfezionamento degli insegnanti. Molti discorsi sulla centralità della scuola, sull'importanza dell'educazione, sulla necessità di creare il professionismo pedagogico, poche risposte istituzionali o convincenti. Il bambino è affidato alla televisione. La televisione, 5,5 ore di ascolto giornaliero secondo i dati ufficiali, è il vero genitore del bambino: la televisione, cioè la lettura del mondo offerta dagli sponsor, una lettura frammentaria, luccicante, banalizzante, appiattente, stordente. La cultura dei viaggi a premio, la cultura dei cartoni animati giapponesi, la cultura di un adulto ridotto al rango di complice. Nella televisione per bambini, l'adulto non è più una guida, un punto di riferimento, una fonte di valori, ma è semplicemente un giocoso zuzzurellone, grande fratello, piccolo idiota, se volete, che si veste da bambino e gioca con lui perché è incapace di assumersi quel ruolo che l'età, la condizione, il rispetto delle leggi e dell'eticità obbligherebbe a fare. 'Questa, quindi, è la prima considerazione di ordine generale. Centralità dell'educazione e in particolare degli investimenti sull'infanzia, per preparare un futuro controllabile dal punto di vista politico, economico, sociale, civile e morale, e risposta complessivamente inadeguata e deludente di una cultura pubblica, e di una cultura privata che surroga la cultura pubblica, alle leggi del profitto. Seconda considerazione, più attinente al tema di questa mattina: il bambino diviso. Che significa il bambino diviso? Significa che i nuovi programmi, non so per quanti secoli li chiameremo ancora nuovi, pongono il problema del bambino come di una specie di scatola cinese, per cui il bambino è diviso, scientificamente smembrato in una serie di capacità, abilità, comportamenti, atteggiamenti, ognuno dei quali dovrebbe portarlo a leggere più adeguatamente la complessità, come si suole dire oggi, della realtà. Attenzione al termine complessità, che è un termine di stile: quando si parla di complessità, si allude anche alla incapacità di affrontarla adeguatamente. il bambino, visto dai nuovi programmi 1985, dovrebbe avere nella scuola gli strumenti adeguati per leggere la complessità della realtà esterna. E un bambino che dovrebbe padroneggiare i nuovi linguaggi, riscoprire la dinamica del gioco attraverso relazioni affettivo-sociali, per altro in parent esi, ma è soprattutto un bambino che dovrebbe imparare una lettura di tipo meccanico della realtà. Qual era la filosofia dei programmatori? Una concezione meccanica, atomistica delle facoltà dell'uomo. prevalsa la psicologia di tipo costruttivistico, cognitivistico. Tanti elementi di carattere cognitivo fanno, si dice implicitamente nella premessa, un bambino in grado di leggere la realtà. Ma noi sappiamo che il bambino, e non ce lo dice l'etica, ma la psicologia, non è una sommatoria tomistica di capacità, di abilità e competenze, ma un essere unitario, che si esprime compiutamente e differentemente nella diversità dei settori cognitivo, affettivo, etico-sociale, relazionale, fisico, religioso, ecc. Dividere quindi il bambino, e affidare l'educazione del bambino, determinante per la formazione dell'adulto, ad una squadra, ad un team di professionisti, ognuno dei quali dovrebbe farsi carico di un certo orticello, può essere positivo a livello metodologico, ma ad una condizione: che si ricomponga all'interno del vascello educativo quella unitarietà, quella capacità integrata di leggere la realtà nel suo complesso, che invece non è in questo momento prevista da nessuna parte. Il bambino elementare, il bambino diviso, come viene chiamato qui, è un bambino che dovrebbe nella sua fantasia, nel suo inconscio, nella sua stanza dei sogni, o più probabilmente davanti alla televisione, ricomporre per conto suo l'insieme degli insegnamenti ricevuti o ricevibili nella classe. Una spruzzatina di osservazioni scientifiche, una spruzzatina di nuovi linguaggi, una spruzzatina di capacità etico-sociali: e la sintesi, e il controllo della sintesi, e la governabilità di questa sintesi? Insomma, la ricostituzione del ruolo-guida, chi la fa? Questa è una delle critiche che noi e in particolare il sottoscritto, abbiamo da sempre fatto alla minaccia di una scomposizione neoatomistica del bambino, perché non ci sembra che scientificamente - e taccio della eticità – questa risposta sia adeguata alla preparazione del futuro, che invece richiede risposte forti, integrate, complete e non semplicemente complesse. Come risponde la cultura pedagogica italiana di fronte a questo fatto? Bé, la cultura pedagogica italiana si divide in due grandi tronconi: la cultura degli apocalittici e quella degli integrati, per riprendere un libro celebre di Umberto Eco, quando Eco non era una stella del romanzo critico mondiale (…). Io credo che siano fallite tanto la cultura pedagogica degli apocalittici quanto quella degli integrati (…). La cultura pedagogica italiana, al di là degli apocalittici e degli integrati, sta trovando però in questi mesi una dimensione e una consapevolezza, sia pure autocritica, di tipo diverso. E improbabile che per il futuro ci saranno ancora molti apocalittici e molti integrati, è possibile che ci siano forze pedagogiche sane, cattoliche, lai che e anche qualche marxista, che si impegneranno nella ricostruzione dell'immagine del bambino, ma anche del preadolescente, dell'adolescente, del giovane e dell'adulto, in una progettazione a livello sistemico e a livello didattico, più vicina, coerente, calzante, con le sfide alle quali accennavo all'inizio. Ma questo appunto è un problema che riguarda un'altra corporazione. I programmi del 1985: come giudicarli? Io sono stato uno dei più critici di questi programmi, via via che venivano svolti e interpretati, cuciti e ricuciti, fatti e disfatti come tele di Penelope, aldilà del modello abbagliante di Omero. E mi pare che questi programmi dimostrino oggi luci ed ombre. Non sono un apocalittico, ritengo che questi programmi contengano molte punte di positività, tra le quali la capacità, posta nella premessa e quindi tutta da verificare, di fornire al bambino gli strumenti reali di lettura della realtà nelle sue diverse accezioni. Questo io lo considero un dato potenzialmente positivo, ma a una condizione: che la ricomposizione di questi saperi specifici, di queste chiavi di lettura di aspetti particolari della realtà, venga compiuta nella scuola. Cioè il maestro, uno e trino, perché qui c'è una teologia secolare che ritorna, anche nella cootitolarità dei programmi, dovrà trovare un nuovo Concilio di Efeso dove risolvere, ancora una volta, il problema dei rapporti tra le tre figure di adulti che, in maniera sacra o laica, gestiranno il consenso dei bambini della prima e della seconda infanzia. È nella scuola comunque, solo nella scuola, che deve accadere la riconciliazione tra saperi specifici, utili e importanti, e contesto (…). Cosa si può fare? Io posso riferire quello che noi stiamo facendo. Recentemente la SPE di Roma, di cui sono Presidente (…), ha dedicato un importante convegno proprio al pianeta infanzia (…). Dobbiamo modificare radicalmente il tipo d'intervento accademico, il tipo di cultura educativa nella cosiddetta scuola militante, e soprattutto la formazione, l'aggiornamento degli insegnanti. Formazione ed aggiornamento degli insegnanti che ci vede vergognosamente all'ultimo posto nel mondo, dopo il Kenia. Noi non spendiamo una lira in senso concreto per una operazione che ha altissimo contenuto civile e politico, oltre che educativo. Fino che non avremo una politica di investimenti reali, perché gli investimenti nell'educazione sono i principali, anche a livello politico e economico, ci sarà da stare poco allegri. Il pianeta infanzia ha messo in evidenza le distrofie non muscolari, ma politico-economiche, del mancato intervento pubblico in questo settore. Ha anche indicato i rischi di un sociologismo di maniera che vede il bambino complice dell'adulto nella visione appassionata del teleschermo, la necessità e l'opportunità di utilizzare metodologie e tecnologie moderne, non per un effetto spettacolare, ma per poter consentire alla capacità critica degli adulti e dei bambini di leggere la realtà; e ha fatto un serie di proposte, che noi speriamo di poter portare all'attenzione del nuovo Ministero delle Ricerche Scientifiche dell'Università, in maniera adeguata. Noi del Dipartimento di Scienze dell'Educazione di Roma abbiamo avviato una serie di convenzioni con strutture pubbliche e private e anche con enti internazionali. Una di queste convenzioni, che va in regime dal prossimo ottobre, il Dipartimento di Roma l'ha fatta proprio con gli amici del CIMES SNALS. Questa convenzione, di cui sono direttore, riguarda l'aggiornamento e la formazione degli insegnanti elementari: e all'interno di questa progettazione biennale, monte ore teorico 180, più una serie di servizi supplementari, noi abbiamo messo a punto un modello che prevede, non soltanto l'attraversamento dei saperi specifici recati dai nuovi programmi del 1985, ma anche, nel primo e nel terzo modulo, la ricomposizione di questi saperi a livello di capacità, di abilità e competenze, in un quadro di riferimento che tenga conto della centralità, della unitarietà e della determinanza del bambino nello scenario che andremo a proporre. Questo è un fatto non soltanto pedagogico ma anche politico, perché chi frequenta questo nostro corso, insegnanti della scuola elementare, avrà non soltanto omelie, prediche e strappamento di capelli, per chi ce li ha, circa la mancanza di professionalità, ma avrà anche a disposizione la possibilità della ricomposizione della cultura pedagogica in un quadro di riferimento che li vede meno succubi e meno disposti a proteste verbali. Io ritengo che il bambino diviso sia una realtà. La cosa che noi proponiamo è attraversare la cultura cosiddetta complessa dei nostri tempi, ma riconiugando i saperi in un quadro di riferimento che raccordi la scienza non neopositivistica con l’etica. Potrei concludere con una battuta di Shakespeare: "Ma i programmi sono programmi di onore ... " Poi, sapete come è finita.

M. Dupuis:

(…) Continuando su questo problema, pregherei il professor Giuseppe Fioravanti di intervenire, chiedendogli di approfondire le luci e le ombre, come le chiamava il professor Volpi, di questi ex-nuovi programmi, perché tutti dicono che questi nuovi ordinamenti sono stati costretti a farli per dare attuazione ai nuovi programmi e quindi pare che, ancora una volta, il problema sia lì.

G. Fioravanti:

(…) Che si chiamino vecchi o nuovi, che si parli di riforma, è solo un accidente: dal punto di vista filosofico la sostanza non cambia, perché per cambiare veramente qualcosa bisognerebbe ritornare alla cultura precedente l’unità d’Italia. Infatti, interessantissimo sarebbe approfondire la varietà di tipi di istituzioni scolastiche che c'era prima, per capire come mai i problemi di banalità, monotonia, di volontà di regolare tutto, ogni piccolo dettaglio, siano ricorrenti: sono nella natura del programma. D'altro canto, c'è un altro problema: che i programmi che dalla Legge Casati si sono susseguiti hanno estinto qualsiasi possibilità di istruzione, differente da quella concertata dal governo. Per esempio, nessuno di noi riesce a rendersi conto di quanto sia incredibilmente dannosa la quinta elementare, perché nessuno sa per quale motivo venne introdotta. Per secoli l'istruzione elementare è durata quattro anni, perché era strettamente correlata alle tappe dello sviluppo fisico ed intellettuale del bambino, poi Gentile introdusse questo quinto anno per motivi suoi, però si continua a dare per scontato che va bene così. Ed io ho imparato a mie spese che si può toccare tutto, principi, religioni, ecc., ma non i ricordi di scuola. Se uno intacca i ricordi di scuola, viene veramente fatto oggetto di un odio viscerale. Non si può mettere in discussione Garibaldi o il libro Cuore, perché sono cose sacre (…). Quella che abbiamo subito è stata un tipo di scuola estremamente compatta, unitaria, e nei programmi dell'85, che mi rifiuto di chiamare nuovi, c'è tutta la problematica gentiliana. Non si parla mai di istruzione, infatti Gentile non ne parla, ma di educazione, termine di origine anglosassone che copre tutto. Basti pensare alla espressione "tecnologie educative": anche un banco può essere educativo. Nella storia della civiltà mediterranea, l'educazione ha sempre riguardato le qualità umane; quindi, per affrontare i programmi dobbiamo riscoprire la differenza che passa tra istruzione, dal latino "istruere", dare le armi, gli strumenti, 1 armatura, l'educazione, che è un tirar fuori le qualità umane che ognuno di noi potenzialmente ha, attraverso l'aiuto dell'adulto (…). Nei programmi si nota con molta chiarezza che non c'è più la lotta contro la realtà: Gentile combatteva il realismo, ed il tono filosofico che ha nei programmi è di non sapere più che esiste la realtà. Da perfetti alunni, chi sul versante mariano, chi su quello positivista, chi su quello gentiliano in senso stretto, si da assolutamente per scontato che la realtà non esiste più. Si accetta il principio della dialettica. La dialettica viene accettata, sia come principio, sia come dialogo, come il principio primo proprio delle cose dello spirito, non della realtà (…). Da malvagio quale sono, ho voluto fare una ricerca sulle espressioni e sulle parole che, usate nei programmi dell'85, non esistono nella lingua italiana. una ricerca interessantissima, perché sono arrivato già a cinquanta e sono lontano dalla conclusione. Ci sono più di cinquanta espressioni non riscontrabili in nessun dizionario, in nessun lessico, in nessun repertorio, neppure quelli nuovissimi, perché la dialettica come arte del parlare è anche l'arte di creare le parole, perché se uno crea la parola, poi crea anche la realtà corrispondente. Questo è il postulato gentiliano. Allora posso create il bambino diviso, parcellizzato, ecc., perché tanto non c'è mai un concetto, un giudizio, ed un ragionamento; caso mai ci sarà un postulato, un pregiudizio, ed un giudizio temerario alla fine del quadrimestre. Si dice che la scuola è la "prima alfabetizzazione culturale": è un concetto che non capisco. L'alfabeto lo conosco, cosa sia il processo di alfabetizzazione lo so, una piccola parte dell'istruzione preliminare; cosa sia la cultura pure lo so, ma è tutta un'altra cosa dall'alfabetizzazione. La cultura ridotta ad aggettivo dell'alfabetizzazione mi preoccupa molto. Però non voglio dare l'idea di essere un apocalittico, per carità, anche perché il correttivo ai programmi c'è: basta partire con l'obiettivo di conoscere la realtà. Ed allora, ecco che quella giungla di espressioni pittoresche che si trovano nei programmi si scopre ogni tanto una piccola radura ben coltivata. Faccio un esempio. È la prima volta, dal 1859, che ci si rende conto nei programmi che a leggere si impara con le orecchie e non con gli occhi. So di scandalizzare dicendo questo, ma si impara a leggere ascoltando leggere bene: è proprio una questione di cinque sensi. Si potrebbe obiettare che era ben nota già nel Medioevo, è vero, era notissima, però abbiamo perso molto del Medioevo. Nei programmi ogni tanto si hanno queste perle che vanno però cercate con cura. Certo, bisogna ricordarsi che "magister" deriva da "magis", quindi maestro è qualcosa che, detto in romanesco, vuol dire "er più". È facile, poi, la battuta che, così come "magister" deriva da "magis", "minister" deriva da "minus": è vero, però è solo una battuta, perché ho già abbastanza guai. Chi di noi insegna, ma soprattutto chiunque svolga la professione difficilissima di genitore, deve sapere che insegnare qualcosa significa essere un maestro, ma un maestro con la M maiuscola (…). Si tratta di scoprire la realtà, anche perché dal punto di vista della istruzione sono talmente flessibili, questi programmi, che l'istruzione si può anche organizzare bene. Pensate un po', una cosa fatta dal governo potrebbe essere anche mandata a buon fine, perché si può ridurre a schede tutto quello che c'è di esperienza e di conoscenza della realtà. Ho fatto l'esempio della lettura, ci sono esempi molto belli anche per quanto riguarda la conoscenza storica, quando si parla delle nozioni da dare nel primo ciclo, che sono tutte nozioni di tipo familiare. Il lavoro dell'insegnante, ma soprattutto dei genitori, deve essere quello di riscoprire ciò che capisce; se una parola non la si capisce, va tralasciata, meglio saltare, andare avanti ed utilizzare la porzione di conoscenza della realtà (…).

M. Dupuis:

(…) Devo dare atto che lo SNALS è l'unico sindacato che ha mostrato, in questi anni, di avere delle grosse perplessità sull'impostazione globale di que sta riforma, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti a cui maggiormente un sindacato è attento; ricordo che ormai quattro anni fa, l'unica volta che la Dc riunì tutte le varie realtà per sentire cosa pensavano di questa riforma, che su per giù era impostata così, forse era un po' peggio, gli unici due ad essere a disagio rispetto all'impianto che veniva presentato, sono stati proprio il Movimento popolare e lo SNALS. Da allora la nostra contestazione è continuata. Anche recentemente lo SNALS aveva raccolto più di duecentomila firme, se non sbaglio, chiedendo che questa riforma venisse rimessa in discussione, ma non ci hanno più interpellato perché dicono che tutti la vogliono così. Noi vorremmo dimostrare che non è proprio così. Abbiamo chiesto alla dottoressa Silvestri di spiegare la posizione del suo sindacato e di portare il suo contributo su tre questioni che mi sembrano importanti e di attualità. La prima: (…) questa riforma va verso una nuova impostazione che chiede autonomia e flessibilità per l'istituzione scolastica, oppure rinnova qualche cosa rimanendo dentro uno schema vecchio? La seconda questione è quella della funzione del docente, come è esaltata o no la sua professionalità (…). La terza questione che ci sta molto a cuore, come DIESSE, è quella della libertà di aggiornamento e di formazione, perché ci pare che questa riforma non apra molti spazi.

D. Silvestri:

Io debbo ringraziare perché un sindacato dovrebbe, secondo gli stereotipi e l'omogeneizzazione ideologica o culturale che nasce dal dovere ad ogni costo proseguire la strada del compromesso o della mediazione al ribasso, essere guardato con sospetto (…), quando invece si intendono portare questioni di grande importanza, che riguardano il cambiamento nella scuola e il dialogo che la scuola, come istituzione fondamentale, deve avere con la famiglia, con la società civile. Lo SNALS è un sindacato importante, di maggioranza relativa, solito negli ultimi anni all'interesse nazionale, però guardato anche con sospetto, perché comunque autonomo e non confederale. Guardato con sospetto soprattutto quando, rispetto ad una riforma così importante come la riforma della scuola elementare, oggetto di patteggiamenti, e negli uffici-scuola dei partiti, e all'interno delle Commissioni-Cultura del Parlamento, prende posizioni che si distinguono (…). Quando una riforma così importante come gli ordinamenti viene decisa a tavolino, interpellando prima i ministri finanziari per i problemi di taglio alla spesa pubblica e considerando che il maestro deve diventare colui il quale fa poi le spese di questa trinità, con aumento di carichi di lavoro, con spostamenti dalla singola scuola al territorio negli ambiti dei vari plessi di circolo, con problemi legati alla mancanza di certi punti di riferimento importanti, è evidente che la reazione di un sindacato della scuola investe il largo universo del docente, di altri operatori scolastici, delle famiglie. Perché in un sistema dove non ci sia la garanzia che il magis, il maestro, può continuare a fare il maestro e non diventa invece una figura dimezzata, è evidente che si instaura maggiormente il problema di un bambino diviso, dove non è tanto la figura dell'uno e del trino a creare il problema, quanto il fatto che lo spezzettamento interno all'identità personale del maestro produce nuove frustrazioni, aggrava malesseri, può produrre nuove divisioni. È allora certo che il sindacato si preoccupa, e non al di dentro dei meccanismi del contratto, che pure sono essenziali, importanti, ma per quanto riguarda un'identità professionale completa (…). È evidente che anche qui siamo in un momento di paradosso (…) il paradosso di un tempo che non è funzione dei bisogni, ma funzione di gabbie rigide e precostituite; il paradosso di un aggiornamento e di una formazione a cui è negata la libertà e l'autonomia quando invece, per continuare ad essere docenti, bisogna avere la possibilità di godere di un aggiornamento che non passi da carrozzoni o da lottizzazioni. Paradosso politico, culturale, sindacale, paradosso che investe, attraverso queste dimensioni, l'educativo (…). La scuola che intendesse comportarsi diversamente di fronte alle discipline e riunirle in ambiti diversi rispetto a quelli che la legge presuppone, ne sarebbe impossibilitata, perché le affinità disciplinari sono già, in parte, contemplate dagli ordinamenti. Il problema degli organici, degli svantaggi sociali, culturali, non viene di fatto preso in considerazione perché non c'è uno spazio per un'autonomia di richiesta, per i bisogni che si instaurano. C'è una gabbia anche per quanto riguarda il riconoscimento delle situazioni gravi come gli handicap, ci sono altre gabbie che riguardano le situazioni di campagna o di territorio (…). Problemi gravi, che solo apparentemente sono all'interno di una corporazione, che diventano problemi delle famiglie, perché diventano problemi degli alunni, perché diventano problemi della società. E il problema del tempo scolastico è particolarmente legato al problema dell'autonomia: quando si va ad imporre un tempo non inferiore alle 27 ore e un tempo superiore alle 30 ore, compresa la lingua straniera, ma poi si va a dire che ne sono esclusi l'eventuale tempo-mensa e l'eventuale trasporto, che qualora l'insegnante intenda fare il lavoro straordinario, questo tempo diventa di 37 ore, non si capiscono bene i meccanismi che sono dietro questi rapporti con il tempo. Il tempo dovrebbe essere funzione dei bisogni, dovrebbe essere deciso all’interno dell’autonomia della scuola, non dovrebbe essere un legame forzato col fatto che l’insegnante scelga, o meno, di fare un lavoro straordinario settimanale per poter essere remunerato. Dovrebbe essere possibile, qualora ci sia la richiesta, avere del tempo in più, e qualora i bisogni educativi, sociali, culturali, facciano richiedere un orario antimeridiano, dovrebbe essere possibile decidere per il tempo antimeridiano (…). L’insegnante è castigato, si ha paura di una formazione alta: non una parola, in un testo di una riforma così importante, viene spesa sul tema della formazione universitaria iniziale, e non mi si risponda che ciò avviene perché questo dovrebbe essere oggetto di un’altra proposta di legge, perché basta un riferimento all’obbligatorietà di una formazione universitaria iniziale per il docente elementare. Qualcuno nominava l’appuntamento del ’92, e senza mitizzazioni basta ricordare che l’Italia è l’unico Paese europeo dove, ancora, per il maestro non si richiede la formazione universitaria iniziale, l’unico tra i 12 della Comunità Europea. Legato a questo problema, il problema dell’aggiornamento cui ci si riferisce sempre per un motivo principalmente legato alla logica finanziaria dei tagli alla spesa pubblica; parlare di aggiornamento a costi zero, nella maggior parte dei casi vale zero. Perché la nostra società richiede che certi costi professionali si paghino. Quando, oltre tutto, si intende far passare questo aggiornamento da strutture lottizzate come l’IRSAE, alle quali sarebbe devoluta ogni decisione in materia di aggiornamento obbligatorio degli insegnanti si parla di una logica di compromesso, di clientelismo, in un momento in cui la società richiede invece autonomia, pluralismi, libertà, tanto più importanti perché dovranno servire ad educare esseri liberi, persone. Questo è il fatto più grave, forse, che riguardi negli ultimi anni il problema delle culture del Paese: perché un insegnante che non sia messo in grado di essere colto, finisce difficilmente con l'essere un bravo insegnante. Di questo problema, in questi anni, siamo stati tra i pochi a renderci conto, insieme a DIESSE, l'organizzazione culturale che fa capo al Movimento, che riconosce l'importanza dei problemi della professionalità docente, al Cirmes, centro studi dello SNALS e alla SPEI, l'Associazione Pedagogica Italiana (…). Su questo problema si gioca il futuro delle professionalità, l'apertura ad un aggiornamento di autonomia dove i centri seri possano fare delle offerte libere sul mercato ai docenti e i docenti, liberamente, possano scegliere quali organizzazioni possono essere adatte per questo bisogno di cultura, che è profondo e che l'insegnante avverte profondamente, per non recidere i legami con il cambiamento della società in evoluzione, con i bisogni delle famiglie, con l'attenzione che deve portare continuamente alle giovani generazioni (…).

E. Mariani:

Prima che la legge di riforma fosse conosciuta, dopo l'approvazione e l'applicazione dei nuovi programmi nell'anno scolastico 87/88, il Ministero aveva già richiesto, come gli insegnanti ben sapranno, mediante circolari, in via sperimentale, l'applicazione di moduli. Questi moduli vengono proposti dal Ministero come frutto di elaborazione di associazioni professionali, di alcuni pedagogisti, di centri studi, di partiti politici, senza la doverosa chiarificazione almeno da parte delle più importanti componenti della scuola, cioè utenti e docenti. Essi non tengono conto né dell'esperienza scolastica fatta in questi anni, né delle numerose sperimentazioni che pure erano state avviate. Mi riferisco alla legge 820, come avviso della scuola a tempo pieno e alla legge 517. Tutti sappiamo che molti di questi giudizi, anche autorevoli, il giudizio, per esempio, del corpo degli ispettori tecnici, espresso su documenti ufficiali che raggiungono tutte le scuole, sono stati fortemente negativi, anche in riferimento ad esperienze sperimentali, quindi libere e volontariamente scelte. Vorrei dire anzitutto in cosa consiste la riforma nei particolari, quali elementi di debolezza o addirittura di grave preoccupazione pedagogica ci è sembrato di cogliere. Sappiamo che si parla di un'estensione del tempo scolastico obbligatorio da 24 ore settimanali a 30 circa di lezioni, escludendo i momenti di pranzo, ricreazione, trasporto, ecc. Suddivisione dell'intervento scolastico in aree disciplinari rigorosamente inquadrate: area linguistica, logico-matematica, storico-geografica, di studi sociali, scientifica, ecc. L'affidamento di ciascuna area disciplinare ad insegnanti distinti prevede l'assegnazione di tre insegnanti ogni due classi o, in casi eccezionali, quattro insegnanti ogni tre classi. In sostanza, ciascun insegnante si preoccuperà di istruire 50 o 75 alunni, relativamente all'area o alle aree disciplinari che gli sono state affidate. Anche questo mi sembra un elemento interessante, perché tutte le organizzazioni, anche sindacali, si battono sulla riduzione del numero degli alunni, perché è impegnativo entrare in rapporto ed educare gli alunni. In questo caso noi istituzionalizziamo un aumento numerico di rapporto in maniera rilevante. E, ultimo punto, introduzione dell'insegnamento della lingua straniera (…). Perché l'aumento del tempo? Io credo, dopo aver approfondito, di poter rispondere con questioni assai banali: sostanzialmente ci sono più materie da insegnare, i contenuti di ciascuna materia sono densi, perciò occorre più tempo. Ma a questo punto ci domandiamo, allora: quale criterio pedagogico ha fatto sì che si giungesse a questa scelta numerica? Anche qui la risposta è banale: una media aritmetica. Le pressioni, in questo caso, dalle centrali politiche, erano variegate, ma sostanzialmente si possono contenere nella pressione del massimo del tempo scolastico, quindi 36 ore settimanali di lezione, il tempo pieno generalizzato in assoluto e invece il mantenimento dello status quo. A questo punto, media pressoché aritmetica, quindi scelta di un orario di 30 ore. Perché l'aumento dei docenti? Qui mi sembra che ci siano due operazioni: la scuola deve essenzialmente istruire, così sembra di cogliere dalle espressioni: alfabetizzazione, linguaggi, eccetera. Per far ciò, occorrono specializzazione e competenza, il maestro non può essere tuttologo, si richiedono quindi specialisti: ciascun insegnante si occuperà allora di un'area in cui sarà divenuto, o diverrà, io uso il futuro, competente, mediante l'aggiornamento. Poi abbiamo sentito quali sono le caratteristiche dell'aggiornamento e tutti, anche praticamente, le abbiamo sperimentate (…). Per quanto riguarda la seconda necessità di aumento delle figure, qui è un problema invece, di orario: siccome l'orario richiesto, obbligatoriamente, di presenza a scuola dell'alunno è di 30 ore diventa indispensabile aumentare anche il numero delle fi gure. Forse si potrebbe anche aggiungere sommessamente che c'è un problema, in que sto caso, di occupazione magistrale, ma nell'ambito di questa segnalazione non è il più importante. Dentro a questa brevissima analisi, quali che ne siano le debolezze o i pericoli gravi dal punto di vista pedagogico, mi sembra di poterne indicare alcuni che si sono evidenziati già in quei luoghi dove le sperimentazioni si sono avviate. L'accentuazione del processo di alfabetizzazione culturale come preponderante tra i compiti della scuola elementare, ravvisabile anche nell'impostazione di ogni disciplina, ha portato ad un ritorno del vecchio nozionismo, sia pur camuffato da nuovi contenuti, all'interno delle discipline tradizionali, statistica, informatica, eccetera. In un'ottica così cognitivistica, inevitabilmente prendono il sopravvento la specializzazione e la supercompetenza del docente, col rischio di trascurare l'unitarietà dello sviluppo della persona e quindi la necessità di un progetto cognitivo globale strettamente legato alla crescita affettiva. L'introduzione della pluralità delle figure docenti comporta, anche se è stata molto citata come elemento di progresso e di novità nella scuola, dei grossi rischi. Innanzitutto la perdita dell'unità educativo-didattica, che può essere assicurata solo a patto che esista una omogeneità culturale ed una unitarietà dell'azione fra i tre o i quattro insegnanti. Sappiamo che fatica sia raggiungere questa unità, immaginiamo cosa può succedere nella situazione normale della scuola italiana. Secondo pericolo, è il radicarsi nei docenti elementari della persuasione che la loro funzione sia prettamente istruttiva e settoriale, e che la loro professionalità si giochi esclusivamente sulla competenza disciplinare sulla conoscenza di sempre più affermazioni, esperienze, comunicazioni. E in quest'ottica, in contrapposizione alla grossa conquista pedagogica che i programmi del '55 avevano portato, almeno riguardo alla centralità del bambino nel processo dell'apprendimento, traspare un'immagine di scuola in cui l'alunno ritorna ad essere vaso da riempire, in cui si devono individuare strategie per riuscire a riempirlo meglio e nel più breve tempo possibile. La seconda osservazione, che in questo caso non è più rischio, è l'estensione obbligatoria del tempo pieno (…). In questo caso, la scuola, o meglio lo Stato che crea la scuola, vuole assorbire interamente la vita dell'alunno. Viene a perdersi lo spazio perché le famiglie, o tutte le componenti del tempo libero, possano introdursi per determinare dei canali alternativi di crescita e di educazione. La scuola crea la vita o la vita viene, nel momento dell'educazione, aiutata, come noi riteniamo sia indispensabile? Altro punto: eliminazione dell'introduzione di un'ipotesi educativa. L'introduzione di tre insegnanti o quattro censura la domanda a quale ipotesi educativa gli insegnanti intendano collaborare. Noi siamo in una società pluralista, non pensiamo né agiamo tutti allo stesso modo, abbiamo sensibilità e modalità di rapporto e di giudizio della realtà diverse: sembra di dover individuare il minimo comune denominatore che ha però prodotto tagli su tutto ciò che è l'originalità delle singole proposte e dei singoli modi di affrontare il problema dell'educazione. Se le impostazioni educative, in famiglia come a scuola, saranno contraddittorie e discordi, l'esperienza del bambino ne risulterà affaticata e divisa. Qui si pone dunque il problema di una reale impostazione educativa unitaria, non confrontata una volta per tutte ideologicamente, ma ripresa ogni giorno e incarnata nelle scelte, anche didattiche, contingenti, degli insegnanti. Perché questo lavoro possa avvenire, sarebbe indispensabile almeno che i gruppi o gli insegnanti si potessero scegliere liberamente: non sembra che ci sia nella riforma anche un breve spiraglio a che questa possibilità sia verificabile. Vorrei anche accennare al fatto che in questo contesto, venendo a mancare la possibilità di unitarietà di impostazione culturale, anche l'insegnamento della religione cattolica, come possibilità di unificazione di ciò che è di avvio all'introduzione della realtà del bambino, subisce non solo uno svantaggio, ma una impossibilità, se all'interno di questa équipe non si riesce a raggiungere quell'unità educativa di cui si parlava. Altra conseguenza grave ci sembra la perdita della responsabilità sulla persona del bambino, quindi della funzione specifica del maestro elementare (…). Tra l'altro, è da immaginarsi che cosa possa accadere nella introduzione in queste classi di bambini handicappati, magari gravi, per i quali è possibile avere la presenza unitaria di un insegnante per tutto il tempo scolastico: rischia di diventare l'unica figura, anziché essere la figura di sostegno all'opera educativa, cioè si stravolge anche il compito che dovrebbe avere. In questo caso vengono vanificati, a nostro parere e per esperienza, i rapporti essenziali e sostanziali con la famiglia. Se la famiglia ha come primo compito l'educazione e l'accompagnamento della crescita del proprio figlio, che tipo di dialogo potrà avere con la scuola, se la scuola si riduce a competenza?

M. Dupuis:

Più si parlava, più quello che il ministro Mattarella ci ha detto, che questa riforma la vogliono tutti, sembra fuori della storia. Vorrei girare la domanda al Vicepresidente della Commissione Culturale della Camera dei Deputati, onorevole Portatadino, perché ci dica se gli pare che dal dibattito di questa mattina ci siano gli elementi per una battaglia politica che vorremmo fare.

C. Portatadino:

Non so se sono apocalittico, certamente non sono integrato, probabilmente sono stato, in questi quattro anni, dopo la riunione citata, un eremita, e forse da oggi lo sono un po' meno. Eremita nel senso che ero il solo a sostenere, dentro la Commissione culturale della Camera, le cose che qui sono state dette, e finalmente da più voci, con estrema chiarezza. In primo luogo c'è un presupposto che lì non è mai stato accettato, forse neanche tematizzato, e su cui invece bisogna arroccarsi e resistere: non si può scindere l'educazione dall'istruzione, non si può accettare che nella scuola ci sia solo un momento di trasmissione di contenuti o forse, peggio ancora, di addestramento di abilità in funzione di questa logica dell'apprendimento. Occorre insistere perché si riconosca alla scuola la funzione di collaborazione e di accompagnamento dell'esperienza familiare. L’obiezione paradossale che viene sempre fatta a questo ragionamento è proprio che eliminando la figura dell'insegnante di riferimento, i genitori restano più liberi di educare. A me questo discorso sembra profondamente falso, farisaico, proprio perché l'educazione è un complesso e occorre che la centralità del soggetto unificante non sia riportata nemmeno sulla famiglia, dove già sono in due, oltre tutto, ma sul ragazzo, sul bambino. La questione fondamentale è che l'unità sia mirata nella direzione del bambino ed è proprio su questo punto che dividere ulteriormente il ruolo della famiglia da quello della scuola pare decisamente tragico (…). Il disagio che c'è deriva dal fatto che gli insegnamenti elementari sentono sopra di sé il giudizio di qualcuno che si considera più magis di loro: la scuola media, che è il reale fallimento della scuola italiana dal punto di vista pedagogico, riesce a far pesare il proprio fallimento sulla scuola elementare, dicendo: ci mandate dei ragazzi non preparati. Non è vero niente, è colpa dell'impostazione della scuola media inferiore, è nella struttura stessa - le immissioni in ruolo automatiche, la mancanza di aggiornamento - che si sente questo disagio; ma mi pare che il rimedio sia peggiore dei mali, perché il tentativo è di applicare la metodologia della scuola media inferiore, quindi la frammentazione, la parcellizzazione, a un momento che invece fondamentalmente sarebbe diverso. La conclusione è tentare di resistere, io finalmente sento di non essere più solo, sento che c'è un movimento, che i genitori che hanno taciuto perché non sono stati informati in questi anni possono muoversi, e forse lo faranno più liberamente se lo faranno da soli, perché le organizzazione dei genitori si sono in passato ampiamente integrate dentro questa logica. Quindi, il punto di partenza, Rimini-Meeting, di questo incontro sul bambino diviso, credo potrà trovare, anche dentro la realtà del Parlamento, gente che possa avere un pochino più di coraggio e insieme a me, insieme a qualcun altro, tentare qualche piccolo passo. Devo dire, a onor del vero, che su questo l'unico che si è esposto è stato Galloni, che ha avuto il coraggio, in un discorso su quella tragica circolare 143, di dire che non era così logico che fosse da applicarsi il modello trinitario e si è preso i lazzi della parte di sinistra della Commissione che diceva: ma questa è una cosa che abbiamo già deciso in comitato ristretto, lei è disinformato.

M. Dupuis:

Vorrei dire che, dopo questa tavola rotonda, noi di DIESSE vogliamo continuare insieme a tutti quelli che vorranno, la battaglia. Io ringrazio anche l'onorevole Portatadino, accettiamo questa sfida di dimostrare che non è vero che la società, la scuola di base, sono d'accordo con questa riforma. È un impegno per ciascuno di noi (…).