Sussidiarietà in sanità, un giudizio sulla legge delega

 

 

Venerdì 28, ore 15.00

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Relatori:

Ivo Colozzi, Docente di Sociologia Economica presso l’Università degli Studi di Bologna

Serafino Zucchelli, Vice Segretario Nazionale ANAAO

Giuseppe Marini, Segretario CIMO della Regione Lombardia

Augusto Cavina, Direttore Generale Azienda Ospedaliera di Modena

Antonio Tomassini, Presidente della Commissione d’Inchiesta sul Sistema sanitario nazionale

 

Colozzi: Se tentiamo di usare il criterio della sussidiarietà come elemento di giudizio sulla legge delega o sulla proposta di legge delega sulla sanità, questo giudizio non può non essere negativo. Potremmo anzitutto limitarci ad una lettura testuale, fermarci alla lettera della legge e chiederci se esiste la parola sussidiarietà nel testo di questa legge. Sia nella proposta così come era stata formulata dal ministro, sia nel testo di legge che nella relazione, la parola sussidiarietà non compare. Compare invece nella versione licenziata dalla Commissione sanità del senato, che alla lettera H dell’articolo 2 dice: "le modalità di individuazione, controllo e verifica dell’appropriatezza delle prescrizioni e delle prestazioni, devono essere attuate secondo il principio di sussidiarietà istituzionale". Questo è l’unico caso in cui compare il termine sussidiarietà. Quindi di sussidiarietà se ne parla una volta sola, ma è significativo che il sostantivo sia affiancato da un aggettivo, ‘istituzionale’, che la specifica. Questo fa capire che in gioco non c’è il rapporto fra società e istituzione, ma una relazione interna alle istituzioni. Ancora una volta il termine sussidiarietà viene usato solo come equivalente di decentramento istituzionale. Ma non è in questo senso, o non è principalmente in questo senso, che dobbiamo intendere il concetto di sussidiarietà e il principio di sussidiarietà come criterio di costruzione di un sistema costituzionale o settoriale.

Nella Centesimus annus, l’ultimo documento di dottrina sociale pubblicato da Giovanni Paolo II, nel quale per la prima volta il Papa applica il principio di sussidiarietà al welfare State - lo stato assistenziale all’interno del quale rientra ovviamente il servizio sanitario -, il Papa dice che disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da una inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Ma il principio di sussidiarietà deve essere rispettato anche nell’ambito del welfare State: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore privandola delle sue competenze e della sua autonomia, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali in vista del bene comune. Quando si usa il principio di sussidiarietà come criterio di giudizio, si fa riferimento a questa chiave di lettura, alla relazione fra Stato o istituzioni e società civile.

Al di là del dato testuale, quello che conferma l’estraneità fra la legge delega e il principio di sussidiarietà è la logica complessiva che ha caratterizzato la nascita del servizio sanitario nazionale in Italia, che questa legge fondamentalmente non solo non modifica, ma conferma in maniera non del tutto coerente rispetto ad alcune innovazioni che la riforma del ‘92 aveva apportato. Il sistema di protezione della salute in Italia era basato fino al 1978 sul principio mutualistico, sulla esistenza delle mutue; i sistemi di mutualità traducono in concreto il criterio della sussidiarietà, perché si basano sul principio della autoorganizzazione dei gruppi sociali e sul principio della loro responsabilità diretta. Questo non significa che i sistemi di mutualità non abbiano dei difetti; ad esempio, la mutualità italiana era solo una mutualità di tipo professionale o categoriale, basata sul modello corporativo ereditato dal regime fascista, ed insensibile alla dimensione territoriale e alla solidarietà allargata, ovvero la solidarietà fra le categorie, in particolare con le più deboli. Se in Italia le politiche sociali si fossero ispirate al principio di sussidiarietà, lo Stato di fronte ai difetti e alle carenze del sistema mutualistico, sarebbe intervenuto a regolare e a correggere questo sistema in modo da accentuarne gli aspetti e gli effetti positivi che c’erano e che ci sono, da ridurre quelli negativi e perversi, da farsi carico direttamente dei buchi lasciati aperti da questo sistema. Invece, di fronte all’incapacità di aggiustare gli inconvenienti, si è optato per lo smantellamento del sistema mutualistico e per la sua sostituzione con il servizio sanitario nazionale, cioè con un apparato unico gestito direttamente dallo Stato in base a regole che, almeno sulla carta, dovevano essere di universalismo e di egualitarismo.

Questo cambiamento di sistema ha di fatto eliminato i soggetti sociali intermedi fra cittadini e Stato - soggetti sociali intermedi che, per quanto ridotti alle categorie professionali, avevano una funzione di intermediazione e di responsabilizzazione dei cittadini - e ha trasformato i cittadini in utenti, caratterizzando così la società civile in termini di passività. Il servizio sanitario nazionale non è riuscito a contenere la spesa sanitaria; ha riprodotto forme di diseguaglianza, ad esempio la diseguaglianza di tipo territoriale che ha portato ai famosi pellegrinaggi della salute dalle USLL del Mezzogiorno verso quelle del Nord, ed infine ha deresponsabilizzato gli utenti finali e deresponsabilizzandoli ha prodotto quell’atteggiamento di consumismo sanitario che è stato uno dei fattori maggiori di incremento della spesa.

In che modo il sistema politico italiano ha pensato di correggere queste disfunzioni, non solo di fronte alla necessità di ridurre il deficit pubblico, ma di fronte alla crescente insoddisfazione dell’opinione pubblica? Introducendo nel modello statalista elementi di decentramento - la regionalizzazione - ed elementi di mercato o di competizione: la trasformazioni delle USSL in aziende e forme limitate e controllate di concorrenza tra erogatori pubblici e privati, secondo la logica dell’accreditamento. Questa è la logica che ha ispirato la riforma del 92, la legge 502 con le successive modifiche. Ma in questa logica quello che resta fuori è proprio la società, cioè quelle formazioni sociali intermedie, i gruppi sociali, quelle comunità che non sono né Stato né mercato e che potremmo definire terzo settore, o società civile organizzata. Quelle realtà però che sono capaci di autoorganizzazione perché dotate di quella che Giovanni Paolo II nella Centesimus annus ha definito "soggettività sociale", capacità di farsi carico dei propri compiti e delle proprie funzioni.

In questo senso, senza sognare scenari utopici, io credo che si debba poter pensare ad un modello diverso di sanità per poter correlare il principio di sussidiarietà alla riforma del servizio sanitario nazionale. Un modello si distacchi da quello attuale di tipo monopolistico non competitivo, per andare invece verso un modello competitivo di tipo integrato che tenga conto della presenza dei soggetti sociali e della loro capacità di organizzarsi, non solo su base categoriale ma su base territoriale. Questa credo sia l’ipotesi che dovremmo suggerire anche alla nostra classe politica a partire da un utilizzo reale e non ideologico del principio di sussidiarietà.

Zucchelli: La riforma che è stata fatta nel ‘92 all’interno del sistema sanitario ha introdotto elementi di aziendalità e iniziale concorrenza per raggiungere due scopi: frenare la spesa che era fortemente crescente e incompatibile con quelle che erano le nostre esigenze di bilancio dello Stato, e rendere più efficace la spesa del denaro. Dopo questa riforma, è stata fatta la legge delega del 1998. Credo che fosse opportuno fare questa delega; certo se il Parlamento funzionasse perfettamente, lo strumento della delega non sarebbe il più raffinato, perché esclude il concorso delle forze politiche o per lo meno le attenua. Però siamo tutti quanti consapevoli che se non si va attraverso lo strumento della delega, difficilmente nel nostro paese si riescono a fare dei provvedimenti legislativi incisivi ed importanti in tempi ragionevoli. Elementi di novità nella legge delega ci sono.

Un primo punto di novità è il ruolo dello Stato. Non è scritto da nessuna parte che lo Stato debba gestire e produrre; lo Stato deve garantire. La legge dice che lo Stato deve garantire livelli uniformi di assistenza attraverso la fornitura delle prestazioni essenziali. Lo Stato deve garantire livelli uniformi di assistenza attraverso la fornitura delle prestazioni essenziali. E non è scritto da nessuna parte che queste prestazioni essenziali debbano essere fatte da parte dello Stato. Anche i privati possono e debbono concorrere a produrre quelle prestazioni che sono iscritte nell’ambito delle prestazioni essenziali stabilite dal piano sanitario nazionale. Questo sulla base dell’accreditamento: tutte le istituzioni che erogano prestazioni debbono corrispondere a determinate esigenze fondamentali.

Un secondo punto di novità sono le assicurazioni integrative. La delega pone una differenza tra le prestazioni essenziali, quelle che lo Stato deve dare ai propri cittadini come indispensabili, e le prestazioni integrative, per le quali si devono stabilire i modi e le forme.

In terzo luogo è valorizzata una forma di ritorno agli enti locali ed è valorizzata la presenza dei comuni. I comuni, che avevano dato una così cattiva prova di sé in una prima fase di applicazione della 833 attraverso i famigerati Comitati di gestione in cui si coniugava inefficienza amministrativa e interesse politico, attraverso questa delega devono essere incrementati nella loro capacità di incidere nella programmazione e nella valutazione dei risultati.

Infine, è fatto un accenno, esattamente all’articolo 2 lettera c, al privato sociale. Leggo testualmente: "Regolare la collaborazione tra i soggetti pubblici interessati, regolare e distribuire i compiti tra questi e i soggetti privati, in particolare quelli del privato sociale non aventi scopo di lucro, al fine del raggiungimento di obiettivi di salute determinati dalla programmazione sanitaria".

Non bisogna credere che il mercato in sanità sia un regolatore corretto, perché altrimenti c’è una situazione impari tra il compratore e il venditore; d’altro canto, se si lasciano andare le regole del mercato, il risultato è che si moltiplicano le prestazioni inutili che danno reddito e non si fanno le prestazioni indispensabili che non danno reddito.

Marini: Attualmente, le strutture ospedaliere e le tecnologie sanitarie dei 1061 ospedali d’Italia hanno una età media di 62 anni. Il 39% sono in muratura, costruite prima degli anni Trenta; il 38% in muratura in cemento, costruite fino al ‘46; il 33% in cemento armato. Quali sono i requisiti che devono avere questi ospedali? C’è un D.P.R., quello del 14 gennaio del 97, che dice tutto, quanti mq deve avere l’ospedale, quanto per posti letto, quante camere a pagamento e a un letto... È di importanza fondamentale avere uno strumento adeguato per erogare una prestazione accettabile con tutte le risorse che abbiamo a disposizione. Le risorse che abbiamo a disposizione per compiere questa operazione sono 5559 miliardi nel triennio, di cui il 75% per le ristrutturazioni. Da calcoli molto precisi, almeno 118-120mila posti letto rimarranno nel triennio assolutamente inalterati. E ci sono altri due problemi: la conversione dei letti per la lunga degenza e per la riabilitazione, e l’adeguamento alle norme sulla sicurezza, la 622 del ‘94. I fondi per questo non ci sono. La legge delega parla di "dismissione delle strutture obsolete e ricostruzione delle dotazioni impiantistiche e tecnologiche": ma con che risorse? con quali soldi? La legge delega infatti all’articolo 1 comma 3 afferma che l’esercizio della delega non comporta complessivamente oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato.

La via allora è un’altra: è quella di recuperare, di dare ordine ai miliardi che gli italiani tirano fuori o di tasca propria o con le assicurazioni o con i fondi integrativi. Inoltre, è inimmaginabile che qualcosa si possa fare senza la partecipazione consenziente, anzi entusiasta del personale, quello che è a contatto con il malato e quello che non lo è. La promozione della professionalità sanitaria è il primo fattore importante, ed è stata ingessata, compromessa dalla legge quadro sul pubblico impiego e da tutto quello che questa comporta. Sarebbe stato valorizzare la promozione professionale che in sanità non può che essere di altissimo livello: purtroppo la legge delega va nella direzione opposta, verso l’impiegatizzazione non solo del medico ospedaliero, ma ancor di più verso l’impiegatizzazione del medico di famiglia e del medico convenzionato.

Cavina: Vorrei anzitutto segnalare alcuni paradossi: nel nostro paese abbiamo probabilmente la più bassa spesa pubblica; è tuttavia diffusa un opinione, forse anche alimentata dalle dispute politiche, che vorrebbe accreditare la tesi secondo la quale la spesa sanitaria nel nostro paese è fuori controllo. Ma noi abbiamo degli indicatori di salute che indicano la nostra condizione fra i livelli migliori d’Europa e del mondo. È diffusa anche un’opinione di inefficiente sistema sanitario e di malasanità. C’è poi il paradosso, non solo apparente, delle lamentele dei cittadini: i cittadini non si lamentano della qualità delle prestazioni, si lamentano invece dell’organizzazione, dei tempi lunghi, dei giri, di come sono trattati, del confort di vita durante la loro degenza in ospedale.

Queste patologie si potrebbero curare anche senza la legge delega? Ritengo di sì. Non è possibile cambiare l’organizzazione dei nostri ospedali, fare un’organizzazione che sia incentrata sui bisogni del paziente e non sulle esigenze dell’organizzazione e di chi vi lavora? È possibile organizzare l’attività ospedaliera in modo tale che il paziente non debba andare a rincorrere gli specialisti e le prestazioni, ma che siano prefigurati dei percorsi preordinati? È possibile modificare i rapporti gerarchici all’interno delle professioni, ad esempio della professione medica, per cui il primario riduca il suo potere gerarchico, e aumenti quello di coordinamento, di promozione, di valutazione e di programmazione? È possibile promuovere una medicina che privilegi gli interventi di provata efficacia?

Credo che non sia demagogico fare riferimento a un impegno personale dei professionisti, dei dirigenti e di tutti gli operatori per utilizzare gli spazi che ci sono e convincerci che le persone vogliono essere curate bene, ma anche trattate bene e in ambienti adeguati.

L’intero processo di aziendalizzazione sta soffrendo per un’estrema debolezza di programmazione e di responsabilità politica a livello locale: quindi giustamente la legge delega stabilisce che i comuni debbano essere maggiormente coinvolti nell’azione di programmazione e di valutazione, in quanto rappresentanti dei cittadini. Non sono invece d’accordo, come prevede la legge delega, sul fatto che i comuni si intromettano nel rapporto fiduciario tra la regione e il direttore generale.

Un altro elemento molto ponderoso della legge delega riguarda gli obiettivi e il contenuto del piano sanitario nazionale. Certo il piano sanitario nazionale non deve essere più un libro dei sogni, ma deve definire che cosa vuole garantire a tutti i cittadini i cosiddetti livelli essenziali di assistenza. Però quando il piano si spinge a dire che i contenuti di questi livelli sono identificati in linee guida elaborate secondo i criteri della medicina basata sulle prove di efficacia, mi chiedo con quali risorse culturali e professionali si possa realizzare questo. Nel nostro paese manca infatti la cultura della valutazione dell’impatto degli interventi sanitari come effetto sulla salute dei cittadini, quindi la scelta delle priorità. Non c’è una cultura di valutazione, né durante il corso di laurea in medicina, né dopo come specializzazione.

Infine, l’ultimo elemento importante è il modello di aziendalizzazione. È possibile una divisione di ruolo in due tipi di azienda: un’azienda territoriale, la azienda ASL, che individua i bisogni sanitari come titolare delle giuste prestazioni ai propri cittadini e della valutazione di qualità delle prestazioni ricevute; e una o delle aziende che producono servizi e che hanno maggiormente i carattere di impresa, sul modello di aziende regionali speciali. Se ci sono queste due modalità, è possibile introdurre il privato profit e il non profit, perché si crea una base di regole comuni per tutti i soggetti erogatori di servizi.

Tomassini: Il problema della sanità e della sua applicazione pratica è se insistere su quello che si può già cambiare attraverso quella legge e una sua correzione; o al contrario se supplire con un meccanismo di forte repressione che può riportare a un centralismo e a una forzatura esercitata soprattutto sullo status dei personali, con un’idea di fondo di colpevolizzazione a priori senza analisi corretta che porta a porre degli obiettivi poco credibili ai direttori generali, a fare un’esclusività che assomiglia a una deportazione, un pensionamento che assomiglia a una rottamazione precoce, un cambiamento della formazione che è solo un cambiamento di proprietà della formazione senza contenuto. Il problema è se la riforma si debba realmente attuare attraverso un meccanismo di analisi delle risorse, di gradualità degli interventi che non sono senz’altro l’abulimia del cambiamento, e una scala di precise priorità. Non è possibile affrontare le vecchie e nuove fragilità in sanità con la nostra burocrazia, con la lista d’attesa, i mezzi, gli strumenti e la formazione che abbiamo.