Il luogo della speranza: tra scienza e condivisione
Mercoledì 28, ore 11
Incontro con:
Dominique Lapierre
Françoise Barré-Sinoussi
Assunta Cescon
Dopo aver scritto all’età di 17 anni uno dei primi bestseller del dopoguerra, Un dollar le milles kilometres, Dominique Lapierre, 58 anni, non ha mai smesso di percorrere in lungo e in largo il pianeta sulle tracce delle grandi epopee dell’umanità.
Nel 1980 realizza un progetto che gli sta molto a cuore sin dal primo soggiorno in India: fondare un’associazione di assistenza per i figli dei lebbrosi di Calcutta.
Oggi, con il danaro ricavato dalla metà dei suoi diritti d’autore – dal 1981, due miliardi e mezzo di lire – e dalle donazioni di 5000 sostenitori, Lapierre provvede ai bisogni di scuole, orfanotrofi, dispensari.
È proprio durante una delle sue ultime visite a Calcutta che Lapierre scopre il mondo descritto in La città della gioia, libro tradotto in 31 lingue, venduto in sei milioni e mezzo di copie.
Dal 1985 al 1990 Lapierre ha diviso il suo tempo tra Benares, New York, Gerusalemme e Parigi per ricostruire l’avventura di Più grandi dell’amore, romanzo-documento sull’epopea dei ricercatori e dei medici che si battono per sconfiggere l’AIDS, uscito nella primavera del 1990 e venduto sinora in due milioni di copie.
Lapierre: Vi racconto come sono stato portato a scrivere sull’AIDS. Un giorno sono giunto a Calcutta con mia moglie; alcuni amici mi hanno portato in un quartiere di miseria totale, che si chiamava paradossalmente: "La città della gioia". Potete immaginare un’area più ampia di quattro campi di calcio dove si ammassano più di settantacinquemila persone in condizioni di vita assolutamente subumane, senza acqua potabile, con fogne a cielo aperto, con una speranza di vita che non supera i quarant’anni, dove bisogna sopravvivere con meno di cento lire al giorno. Tuttavia, in questo inferno sulla terra, stavo per incontrare individui di luce, gente che rimaneva in piedi, che sapeva condividere con altri più poveri di loro, gente che aveva conservato il gusto della festa ed era capace di ringraziare Dio per il minimo bene. C’era ad esempio, una bambina di dieci anni cresciuta nella miseria. Ogni giorno alla mattina presto andava a raccattare pezzi di carbone brucianti sulla ferrovia vicino alla bidonville e portava questo miserevole tesoro a sua madre che lo vendeva per comprare il pugno di riso che serve alla giornata. C’era anche un uomo cavallo, di quelli che trascinano questi push-push che rimangono ancora in numero di più di centomila a Calcutta. Incontrai anche un prete cattolico che era venuto dall’Occidente per condividere la vita miserevole di questa gente. Non era venuto per evangelizzare o convertire, ma per dire a questa gente: "Sono vostro fratello e lotteremo insieme".
Ho capito che questi uomini, queste donne e questi bambini erano i veri e propri eroi di questo mondo. Erano anonimi, nessun giornale ne aveva mai parlato, così decisi di diventare loro testimone. Siamo rimasti due anni in questa "città della gioia" per raccontare l’epopea della sopravvivenza e dell’amore quotidiano. Per due anni non ci è mai stato chiesto niente, abbiamo soltanto ricevuto, e ho imparato, in questo luogo di miseria, un famoso proverbio indiano che dice: "Tutto quello che non viene dato è perso". E quando siamo partiti due anni dopo, siamo andati via con cinquantasei chili di eccedenze-bagaglio: erano i regali ricevuti dai nostri amici della città della gioia. Al momento dell’apparizione del libro La città della gioia, ho cominciato a ricevere una valanga di posta, più di centosettantamila lettere che recavano tutte doni, un assegno, un gioiello, un titolo di borsa, e perfino, un giorno, un lingotto d’oro. Con mia moglie abbiamo creato l’Associazione per i bambini lebbrosi di Calcutta alla quale devolvo la metà dei miei diritti di autore e tutti i doni che ricevo dai lettori: oggi curiamo direttamente più di 1500 bambini. Abbiamo scuole, ambulatori, centri di accoglienza per i bambini, progetti di irrigazione, ma soprattutto, in ogni lettera trovavo un messaggio che diceva: "Grazie di averci fatto conoscere gente che è capace di fare qualcosa per gli altri".
Immaginate la mia sorpresa quando, trovandomi a New York nell’85, lessi in un giornale che Madre Teresa di Calcutta, che conoscevo bene, era appena giunta nel cuore di Manhattan con il piccolo comando delle sue piccole suore indiane per creare un centro per malati di questa nuova lebbra, per malati completamente sprovvisti di tutto: casa, famiglia, genitori, parenti. In qualche modo per me era il mondo alla rovescia, era l’India miserevole che veniva in soccorso del ricco Occidente. Sono saltato in un taxi e mi sono precipitato a questo posto che si chiamava: "Il dono d’amore". La prima cosa che ho visto entrando nel centro era una specie di manifesto appeso al muro, una specie di memorandum di pensieri che Madre Teresa di Calcutta aveva scritto anni addietro, e che riassumeva in questo luogo di disgrazie e di tormento la sua filosofia. L’unica decorazione era questo manifesto affisso su una parete. Madre Teresa ne aveva composto il testo in una notte di temporale di trent’anni prima, mentre si trovava in una colonia di lebbrosi ai margini di un villaggio indiano in riva al Gange.
"La vita è un’opportunità, coglila. La vita è bellezza, ammirala. La vita è beatitudine, assaporala. La vita è un sogno, fanne una realtà. La vita è una sfida, affrontala. La vita è un dovere, compilo. La vita è un gioco, giocalo. La vita è preziosa, abbine cura. La vita è ricchezza, conservala. La vita è amore, godine. La vita è un mistero, scoprilo. La vita è promessa, adempila. La vita è tristezza, superala. La vita è un inno, cantalo. La vita è una lotta, accettala. La vita è una tragedia, afferrala corpo a corpo. La vita è un’avventura, rischiala. La vita è una felicità, meritala. La vita è la vita, difendila".
In questo rifugio incontrai una piccola suora indiana, Amanda, una donna esile che si ritrovava con malati, drogati, un compito enorme e difficile. Un giorno le ho chiesto: "Dove trova la forza di fare quello che fate qui?" E mi ha risposto che sapeva che ogni sera alle sei c’era in Libano un giovane monaco libanese che pregava per lei. Ho scoperto così che Madre Teresa di Calcutta aveva creato l’associazione forse più straordinaria che c’è al mondo, un’associazione che raggruppava quattromila malati incurabili disperati, che ogni giorno pregavano per quattromila suore di Madre Teresa per aiutarli.
In questo rifugio ho incontrato un giovane medico che aveva scelto la specializzazione "malattie infettive" perché con gli antibiotici si può guarire tutto, ma improvvisamente veniva l’AIDS e non aveva niente da offrire a questi malati. Le suore di Madre Teresa e questo giovane medico mi hanno improvvisamente catapultato in mezzo a un mondo di sofferenza che si chiama AIDS. Ho avviato un’inchiesta che è durata tre anni e che mi ha fatto conoscere i medici di questo centro straordinario di Atlanta, i quali passano la vita a indagare su questi virus, batteri e microbi. Ho capito che potevo raccontare un vero e proprio thriller medico. Sto parlando di quanti passano la vita in piccoli laboratori con luce artificiale per lottare contro i nemici invisibili, uomini e donne che vivono una vera e propria vita monacale al servizio della scienza.
Durante questi tre anni ho incontrato anche molti malati; sono sempre stato sconvolto dalla loro volontà di sopravvivere e dal loro coraggio. È uno di questi malati che mi ha dato l’idea per il titolo di questo libro. Un giorno che il giovane archeologo Josef Steiner stava molto male e intorno a lui si erano riuniti tutti i medici e gli infermieri per dargli un po’ di coraggio, si è rivolto a loro dicendo: "Grazie, siete ancora più grandi dell’amore".
Devo confessare che per un’avventura personale della mia esistenza il coraggio di questa gente mi ha molto aiutato. Mi restavano da scrivere tre capitoli di Più grandi dell’amore quando ho saputo che avevo un cancro. Dopo i primi momenti di rivolta ("Ma perché io? Che cosa ho fatto?"), quando ho accettato di affrontare la situazione, mi sono ricordato il messaggio di coraggio di tutti questi malati che avevo incontrato e ho capito che forse l’essere divenuto da semplice testimone un protagonista io stesso mi avrebbe aiutato a scrivere ancora meglio questo libro. La mattina precedente l’operazione che mi doveva guarire, un’infermiera è entrata nella mia stanza e mi ha portato una lettera con il timbro di Calcutta: era di Madre Teresa. Non so come fosse venuta a conoscenza della mia malattia, ma mi scriveva: "Caro Dominique, chiedo a tutte le mie suore e a tutti i nostri poveri di pregare per lei". Ho preso questa lettera, l’ho incollata sul vetro della mia camera e sono sceso a piedi nella sala operatoria, convinto che le mani dei chirurghi sarebbero state sfidate.
Durante questa inchiesta durata tre anni, tra i personaggi più straordinari che ho incontrato, ce n’è uno che mi è particolarmente caro, una biologa di altissimo livello, una cara e deliziosa parigina, Françoise Barré-Sinoussi, sconosciuta al grande pubblico, uno dei tanti ricercatori che passano la vita nei laboratori. Durante le ricerche per scoprire il virus dell’AIDS, nel Febbraio dell’83, è stata la prima con il suo collega German a isolare il criminale. Vorrei infine ringraziare Assunta Cescon, perché, avendo vissuto per tanto tempo vicino ai malati, so la bellezza della sua azione. Il dottor Deovits da qualche parte nel mio libro dice: "In mancanza di un vaccino o di una medicina, il primo problema dell’AIDS è un problema di accoglienza, di cura, di amore, di compassione".
Françoise Barré-Sinoussi, nata a Parigi nel 1947, dopo aver conseguito nel 1974 il dottorato all’Università delle Scienze nella capitale francese, ha iniziato la sua attività di ricerca presso l’Istituto Pasteur di Parigi dove ha percorso tutte le tappe della sua brillante carriera scientifica.
Barré-Sinoussi ha perfezionato i suoi studi anche attraverso lunghi soggiorni negli Stati Uniti. In particolare nel 1972 ha partecipato ad una ricerca nel laboratorio di Robert Gallo all’Istituto Nazionale di Bethesda, imparando le tecniche di ricerca in materia di antivirus. All’Istituto Pasteur, Barré-Sinoussi fa parte dell’équipe di Luc Montagner che ha isolato il virus accusato di trasmettere l’AIDS.
Barré-Sinoussi: Vorrei iniziare ringraziando Dominique Lapierre per i suoi apprezzamenti nei confronti del nostro ambiente scientifico e medico. Se lui è fiero di averci incontrato, noi non siamo fieri per nulla perché in otto anni abbiamo scoperto il virus, sviluppato test di diagnosi, ma purtroppo siamo ancora tuttora incapaci di proporre una terapia e un vaccino.
Abbiamo tutti la tendenza a credere che abbiamo a che fare con un nemico. Non è affatto vero: noi dobbiamo purtroppo affrontare due famiglie di nemici: la famiglia HIV1, che è diffusa soprattutto nei nostri Paesi ed è stato il primo identificato, ma anche l’HIV2 che appartiene ad un’altra famiglia ed imperversa ora soprattutto nell’Africa dell’Ovest, ma sta penetrando purtroppo in vari altri paesi del mondo. Quando le due famiglie di virus vengono guardate al microscopio a scansione elettronica, è impossibile distinguerle. Ciò non di meno, le loro differenze sono particolarmente importanti sia per la diagnosi che per il vaccino. Una delle peculiarità di queste famiglie è la loro variabilità che sfruttano in modo che l’organismo non possa più identificarli, riconoscerli e isolarli.
Tutti i test di diagnosi sono basati su una proteina che fa da involucro al virus. Le nostre attuali speranze di ottenere un vaccino sono basate su questa proteina. Il virus all’interno dell’organismo attacca le cellule del nostro sistema immunitario che sono lì per difenderci come dei soldati contro ogni infezione. I virus attaccano un ceppo di queste cellule che vengono chiamate linfociti T CD4. Questi linfociti sono come il direttore di questa orchestra che è la nostra immunità, sono essi che manderanno degli ordini alle altre cellule del nostro sistema immunitario, affinché funzionino per difenderci dall’aggressione. Immaginate che se il direttore in un’orchestra viene a mancare, le altre cellule non ricevono più l’ordine e a quel punto cessano di lavorare.
Questo virus non solo è capace di moltiplicarsi in modo abbondantissimo, ma finisce anche con il distruggere le cellule infette che si gonfiano e poi scoppiano. Questo virus attacca non solo i linfociti, maestri d’orchestra del nostro sistema di difesa, ma anche altri bersagli. Tra l’altro va a bersagliare un’altra popolazione di cellule del nostro sistema immunitario, i macrofagi i quali dovrebbero tagliare, segmentare il virus in spezzoni e poi presentarlo alle altre cellule del nostro sistema immunitario per ottenere la risposta e difenderci contro l’infezione. Contrariamente a ciò che accade normalmente, il virus non viene distrutto, ma va a infettare anche i macrofagi e si moltiplica. I macrofagi in realtà costituiscono un serbatoio perché sono distribuiti dappertutto nell’organismo, sono nel nostro sangue, sono nei vari tessuti, fra l’altro a livello del cervello. La conseguenza, come sappiamo benissimo oggigiorno, è che i malati infetti sviluppano disordini neurologici, demenze, paralisi.
Il virus si trasmette per via sessuale, per via sanguigna (il problema numero uno è quello della droga), infine da madre a bambino. Oggi si valuta che il venti per cento di donne portatrici del virus daranno alla luce un bambino portatore del virus che nella maggior parte dei casi morirà nel primo anno di vita. In Africa la situazione è ben più grave perché il tasso di tramissione sembra essere molto più elevato, lo si valuta al 50%.
Vorrei insistere su questo punto per ricordarvi che bisogna smettere di pensare che questo virus attacca certe popolazioni e non altre. All’inizio si è insististo troppo sul fatto che questa infezione agiva sulle popolazioni omosessuali; oggi dobbiamo metterci in testa che tutti possono essere infetti da questo male virale, non c’è eccezione. Quando un soggetto viene esposto a questo virus, ci sono due possibilità: o viene infettato da una piccola quantità di virus (immediatamente l’organismo si difenderà e lo eliminerà) oppure viene a contatto con portatori asintomatici i quali per anni sviluppano anticorpi, però sono sieropositivi e possono trasmettere il virus. Ad un certo punto, magari dopo nove, dieci anni, si ammalano perché nel frattempo il virus ha lavorato subdolamente nell’organismo. Progressivamente si moltiplica, compenetra varie cellule dell’organismo, invade vari tessuti, sregola i meccanismi, va ad insediarsi; lentamente interviene una distruzione delle cellule del sistema immunitario, soprattutto i famosi linfociti CD4. Spesso si parla di fattori coadiuvanti, che faciliterebbero e accellererebbero lo sviluppo della malattia. Purtroppo ci sono diversi fattori coadiuvanti.
I sintomi associati all’AIDS sono spessissimo l’apparire di gangli dovunque, di linfonodi nell’organismo. È un inizio di una riduzione dei linfociti CD4. Poi il paziente evolve irrimediabilmente verso l’AIDS. Con la perdita delle difese appaiono queste infezioni cosiddette opportuniste, cancri, tumori, insorgono anche quei famosi disturbi neurologici che sono atroci per questi malati.
Le strategie terapeutiche sono di due tipi. Il primo consiste nel cercare di impedire al virus di moltiplicarsi nelle cellulle, è l’approccio che noi chiamiamo antiretrovirale. Il secondo approccio, allo stato avanzato della malattia, è dato dalla stimolazione del sistema immunitario con sostanze immunostimolanti, che consentirebbero di indurre la crescita delle cellule del nostro sistema immunitario. Vorrei soffermarmi sul primo. Si basa sulle varie tappe del moltiplicarsi del virus sulla cellula. La prima tappa consiste nel cercare di impedire al virus di penetrare nella cellula. La seconda tappa consiste nel cercare di impedire al virus di trovare, per così dire, la porta di ingresso. La terza consiste nel cercare di impedire il moltiplicarsi del virus, bloccando un enzima necessario ad esso, la trascrittàsi inversa. Questo enzima consente di trasformare il materiale genetico del virus in uno simile a quello della cellula come in una trascrizione. L’approccio alla trascrittasi inversa si chiama AZT. Questo farmaco inibisce la trascrittasi inversa ingannando l’enzima che si sbaglierà, lo riconoscerà al posto di una sostanza naturale presente nella cellula, e non potrà continuare a funzionare. Purtroppo l’AZT non è una panacea. Abbiamo visto nei pazienti trattati un miglioramento, certo, un progresso per quanto riguarda la durata di sopravvivenza, ma constatiamo che dopo un certo numero di anni di trattamento appaiano nei pazienti delle forme di virus resistenti a l’AZT. Da qui l’idea dei ricercatori di sviluppare altre sostanze, simili all’AZT, ma leggermente modificate, in modo che questi virus resistenti all’AZT non siano però resistenti alla seconda sostanza. Siamo riusciti a produrre proteine CD4 e cominciamo ad utilizzarla nei malati, come trattamento, affinché questa proteina costituisca un inganno per il virus prima che lui abbia tempo di esserlo a sua volta per la cellula. Purtroppo anche questa volta il virus ha trovato una risposta: se trova la porta di ingresso principale della cellula chiusa va a cercarne un’altra e la troverà forse aperta. Vi sono altri trattamenti in sviluppo. Si può cercare di bloccare queste famose proteine regolatrici del virus, quelle che provocano il moltiplicarsi abbondante della cellula; abbiamo sviluppato strategie che corrispondono a dei piccoli frammenti del materiale genetico del virus stesso, che corrisponde a queste famose proteine regolatrici, facendo penetrare questi frammenti di acido nucleico nelle cellule che riconoscendo il loro omologo, il loro specchio, il loro corrispondente, si appiccicano e così facendo inibiscono il loro potenziale. Questo è un approccio molto incoraggiante; purtroppo le difficoltà sono numerose perché questi minuscoli frammenti devono essere resistenti nella cellula, non devono essere distrutti, quindi oggi si cercano i mezzi affinché questi frammenti che vengono ad appiccicarsi sul materiale genetico del virus non vengano distrutti all’interno della cellula.
Un altro approccio ancora interviene in una fase abbastanza finale nelle tappe del moltiplicarsi del virus. Per consentire al virus di formarsi come particella virale, le proteine del virus che si formano nella cellula devono essere tagliate. Cosa produce questo taglio? È un enzima del virus che chiamiamo proteasi virale. Abbiamo pensato che se riusciamo ad impedire alle proteine di essere tagliate, non ci sarà più formazione di virus. Abbiamo quindi sviluppato inibitori di questa proteasi virale. Questi inibitori, in laboratorio, in coltura sono efficaci, impediscono la formazione del virus. Prove terapeutiche sono state iniziate su certi malati, non abbiamo ancora risultati; però non inganniamoci, sappiamo che per combattere veramente questo virus ci vorranno dei cocktail, delle miscele di molecole che bloccheranno l’ingresso, molecole che bloccheranno il moltiplicarsi, la trascrittasi inversa, altre molecole ancora che bloccheranno le proteine regolatrici, ma anche molecole che bloccheranno l’uscita del virus come questo inibitore della protesi. Quindi arriviamo ad una chemioterapia abbastanza simile al trattamento oncologico del tumore, una chemioterapia che andrà ad associare vari tipi di droghe, di farmaci e una chemioterapia che dovrà intervenire rapidissimamente in stadi avanzatissimi nei malati. Se già il paziente sviluppa sintomi, si dovranno immediatamente associare sostanze che vanno a stimolare il sistema immunitario per impedire al virus di moltiplicarsi, e contemporaneamente stimoliamo le difese immunitarie.
Per concludere: a che punto siamo col vaccino? Quali sono gli ostacoli ancora da superare? Il primo è costituito dalla variabilità del virus da paziente a paziente e addirittura dal modificarsi di uno stesso virus nel corso della malattia. Questa variabilità, che è tipica delle famiglie HIV1 e 2, è ancora più complessa perché sappiamo che esistono malati infetti sia da HIV1 che da HIV2, quindi per la terapia bisogna bersagliare tutti i virus HIV1 e HIV2 e lo stesso vale per il discorso del vaccino. Il secondo problema è costituito dall’assenza di un modello di studio, che per ora rimane l’uomo. Il modello animale è un grosso problema perché manca un modello ottimale.
Le strategie di vaccinoprofilassi cui pensiamo oggi nel mondo sono molto varie. L’involucro del virus si presenta sotto forma di un anello, nel nostro gergo lo chiamiamo l’anello V3, dove V sta per variabilità. Su tre scimpanzé, due sono stati protetti dal vaccino e non hanno sviluppato l’infezione, uno è stato protetto in modo transitorio. Questo risultato che abbiamo ottenuto all’Istituto Pasteur di Parigi è stato ripetuto da altri gruppi di scienziati negli Stati Uniti, sicché quando lavoriamo insieme pensiamo finalmente di essere sulla strada giusta per arrivare ad un vaccino: l’anello è necessario. Certo, non abbiamo ancora il vaccino, perché V3 cambia. Ci aspetta un lavoro faraonico in quanto dobbiamo fare la tipologia di tutti i virus presenti nel mondo. Se riusciamo a definire delle sottofamiglie, sulla base di V3, a quel punto avremo delle miscele, un vaccino che corrisponde ai virus maggioritari nel mondo.
Nell’attesa, l’unico mezzo contro la malattia, e noi ricercatori cerchiamo di appoggiarci su questo punto, è la prevenzione. La prevenzione attuale è rappresentata dal preservativo, che ci consentirà se non altro di lavorare un certo numero di anni e impedirà la diffusione del virus nelle popolazioni del globo. È l’unico modo, è l’unico vaccino attuale, purtroppo.
Per concludere, vorrei lanciare un messaggio. All’inizio degli anni ottanta la progressione rapidissima sulla conoscenza di questo virus e sulla sua diagnosi è stata dovuta ad una cooperazione internazionale favolosa tra ricercatori di ogni disciplina, medici, associazioni, ma anche e soprattutto tra i malati. Sotto l’influenza forse di malessere e scoraggiamento davanti al lento progredire della ricerca, questa cooperazione oggi è meno intensa. Si ha l’impressione che, in certo qual modo, i pazienti, i malati, anche le associazioni abbiano un po’ perso fiducia nei ricercatori. Io vorrei dire, vorrei insistere, vorrei gridare che senza questa cooperazione in piena fiducia, sarà difficile andare avanti, sarà difficile ottenere risultati perché abbiamo bisogno dei malati e della loro fiducia per lavorare e combattere questo terribile morbo.
Assunta Cescon ha iniziato a lavorare nel 1980 come vigilatrice e poi come assistente sociale presso il carcere femminile di Venezia.
Nel 1984 è diventata assistente sociale presso la USL n. 62 di Carate Brianza (Milano) dove ha istituito il NOT (Nucleo Operativo Tossicodipendenze).
Dal 1985 svolge la sua professione presso l’ospedale di Niguarda a Milano. Qui si è occupata per quattro anni del Centro per le tossicodipendenze e dal 1989 ha iniziato a lavorare presso il reparto infettivi che ospita gli ammalati di AIDS. Nasce da questa esperienza la "caritativa di Niguarda", un gruppo di volontari, adulti soprattutto, che a turno, settimanalmente, prestano opera presso il reparto o nelle case degli stessi malati.
Cescon: Volevo ringraziare Françoise Barré-Sinoussi, molto conosciuta dai nostri malati che offrono la loro sofferenza per tutti i ricercatori, proprio per sostenerli e perché continuino questo lavoro estenuante che stanno facendo. Vorrei ringraziare anche Dominique Lapierre perché se io sono qui e se questa nostra storia è continuata, è grazie anche a lui.
L’anno scorso, dopo aver letto il suo libro, a me era venuto un grandissimo desiderio di andare a visitare quella casa di accoglienza delle suore di Madre Teresa di New York che descrive così bene nel suo libro. Ho fatto di tutto per riuscire ad andarci e sono stata dieci giorni con loro ad assistere i malati, ma la cosa che mi interessava di più era immedesimarmi con loro e imparare a volere bene ai malati così come avevo visto voler bene da queste suore.
Ieri mattina, prima di partire per Rimini, ho visto un mio malato che seguo da due anni. Lui sapeva che io ero in partenza per Rimini e gli ho chiesto: "Senti, ma che cosa devo dire domani a quelle persone?". "E cosa vuoi dire? Racconta i fatti". Gli ho risposto: "In che senso?". "Guarda, questo reparto era un reparto di morte; da quando sei venuta a lavorare qui come assistente sociale e poi sono arrivati tutti gli amici a farci compagnia, questo reparto non è più un reparto di morte, ma è un reparto di vita. Allora tu devi raccontare queste storie, queste storie che adesso sono diventate storie di vita". Pensando a questo mi è stato veramente difficile scegliere alcune storie da raccontare, perché sono proprio tante e sono una più bella dell’altra.
Io ho cominciato a lavorare coi malati di AIDS nell’88. Prima mi occupavo, sempre all’ospedale Niguarda, come assistente sociale, dei tossicodipendenti e avevo seguito vari miei pazienti che poi si sono ammalati di AIDS. Ad un certo punto mi è stato chiesto di occuparmi di AIDS in modo continuativo. Fin dai primi giorni sono rimasta colpita da tutto il bisogno che incontravo, quasi mi sentivo strappare la pelle di dosso perché vedevo bisogni economici, famiglie dove nessuno lavorava, c’erano dei problemi giudiziari perché gran parte di questi ragazzi, essendo tossicodipendenti o ex tossicodipendenti, erano stati in carcere, rischiavano magari di tornare in carcere essendo già con l’Aids conclamata; c’erano i problemi dei bambini, magari con genitori entrambi malati e da affidare a famiglie. Però la cosa che mi colpiva di più era la solitudine, la disperazione di queste persone, sole a portare questo peso. Spesso veniva censurato, perché come fa uno da solo, magari con dei gravi problemi famigliari oppure senza famiglia o da essa abbandonato, a guardare in faccia a questa realtà? Non può. Allora, come guardandomi intorno e vedendomi tutto questo bisogno dicevo: "Ma io non posso", anche perché, guardando a me dicevo: "Ma sono io un bisogno, come faccio io a rispondere a questo bisogno?". Allora ho capito che forse l’unica possibilità che avevo lì dentro era quella di condividere con loro questo bisogno, di condividere con loro questa fatica nel quotidiano, di far loro compagnia. Ho accettato questa sfida sentendomi assolutamente incapace, inadeguata, capendo che forse non ce l’avrei fatta, però capivo che la risposta concreta che in qualche modo si poteva dare poteva essere dentro questa compagnia, dentro questo rapporto.
Ricordo, ad esempio, i primi tre ragazzi che ho seguito, Andrea, Maurizio e Stefano. Questi erano totalmente soli; mi erano stati segnalati dai medici perché, una volta dimessi, non sapevano dove andare. Se all’inizio questi tre ragazzi erano angosciatissimi perché il problema era dove andare, nel momento in cui abbiamo cominciato un rapporto è come se questo problema fosse diventato di secondo ordine perché avevano iniziato a vivere una compagnia e in qualche modo avevano anche riacquistato la speranza. Era come se il problema prioritario fosse diventato secondario perché c’era questa speranza che li sosteneva. Poi è venuto Richi. Riccardo è un ragazzo che io seguivo in quanto tossicodipendente e che poi si è aggravato, ha iniziato la malattia ed è entrato in AIDS conclamato. Avevo scoperto che un mio grande amico, Fausto, era un suo vecchio compagno di classe. Allora ho chiamato Fausto e gli ho detto: "Senti, c’è Riccardo; ma perché non cominciate un rapporto come ai vecchi tempi che eravate compagni di classe?". E così è cominciata e Fausto ha coinvolto altri suoi amici del quartiere, i suoi amici della zona. Hanno fatto una compagnia così grande a Riccardo che lui è morto veramente in pace. Una volta, pochi giorni prima di morire, andando in ospedale ha detto: "Noi di CL stiamo facendo questo, io sto offrendo la mia malattia perché questa compagnia si allarghi sempre di più". Il giorno del funerale di Riccardo questo piccolo nucleo di ragazzi mi hanno detto: "Guarda, è stata così importante questa esperienza per noi, ci ha cambiati così tanto che noi desideriamo continuare questo rapporto, far compagnia ad altri ragazzi che vivono questo tipo di esperienza". Così la compagnia si è allargata. Io, rendendomi conto della bellezza che c’era stata in questo rapporto con Richi, ho chiesto che altre persone, altri amici potessero cominciare a fare questo tipo di esperienza, potessero incontrare altri ragazzi, perché il bisogno è proprio questo. Però io mi rendevo conto che il bisogno era anche mio; chiusa lì dentro otto ore al giorno, spesso mi facevo fagocitare anch’io da questo dolore. Ricordo che una volta Stefano mi aveva detto che voleva morire e quasi non ce la facevo a dirgli che non era giusto. Allora ho cominciato a chiedere che venissero altre persone a lavorare lì con me e sono venute delle infermiere, è venuto il caposala, proprio per aiutarci, per sostenerci in questa avventura.
Vi volevo leggere una lettera che mi ha scritto Francesca che è una nostra amica della caritativa. Lei mi parla di Maurizio. Maurizio è morto quattro mesi fa. Io l’avevo conosciuto perché lui era paraplegico e in seguito all’AIDS non riusciva più a camminare, per cui c’era il problema dell’invalidità civile, ecc. Quando lui è stato dimesso io gli ho proposto di conoscere questi amici proprio per continuare quel gusto di vita nuova, come l’ha chiamato lui dopo aver imparato la preghiera di consacrazione, che aveva iniziato a sperimentare con me. Ve la leggo. "Una familiarità con Maurizio è stata immediata, si faceva voler bene. Ne ha fatte tante nella sua vita. Si capiva che era semplice, buono, limpido. Essendo intelligente e aperto capì subito che non eravamo lì per caso e una delle prime volte che ci sentimmo per telefono mi disse: ‘Sono sicuro che se sono ancora al mondo è perché Dio vuole qualcosa da me’. Ho avuto chiara la percezione che stavamo accompagnando Maurizio alla morte e che questo periodo a lui era dato proprio per scoprire il senso della sua vita e questo traspariva anche dal fatto che non ha mai dominato in lui la disperazione, ed anzi, essendo molto cosciente di essere in una strada senza ritorno, si faceva sempre più sereno. Ci siamo sentiti molto impotenti di fronte a questo dramma, a questo immenso dolore. C’erano dei momenti, quando Maurizio piangeva, o poneva i suoi perché sulla sua sofferenza, sulla sua situazione famigliare, che era molto pesante, che non sapevo cosa dire perché tutto era superfluo e inadeguato. Però una cosa mi era chiara; il suo bisogno era proprio uguale al nostro bisogno, il bisogno di essere voluto bene, di appartenere a qualcuno, di avere degli amici per la vita che condividessero le cose di tutti i giorni. Allora, pur dentro l’inadeguatezza uno capisce che non è questo il problema e fa compagnia all’altro per come è capace, anzi chiedendo lui stesso di essere aiutato da Cristo nell’istante. Una cosa mi ha colpito, è che Maurizio non ha mai chiesto come mai facevamo ciò, non perché non si ponesse la domanda, ma perché intuiva la risposta, tant’è che una volta ci disse: non pensavo che Dio potesse entrare nella mia vita, e spesso si arrabbiava con i suoi genitori perché non ci lasciavano mai soli e diceva loro: voglio stare con i miei amici".
Maurizio, quando era ricoverato, era in camera con Alfredo, e questo Alfredo che era messo in condizioni migliori di Maurizio, lo accudiva, lo aiutava, lo serviva, ecc. È successo questo, che Francesca e gli altri, dovendo andare a trovare Maurizio, sono diventati amici anche di Alfredo. Alfredo in questo momento è in coma e sta morendo. Alfredo ha due bambine e la moglie. Francesca e gli altri hanno aiutato la moglie di Alfredo a trovare lavoro. Questa estate sono riusciti a mandare le bambine di Alfredo in colonia facendosi carico della retta e coinvolgendo altri amici per aiutare anche economicamente questo nostro amico. Così piano piano la compagnia si allarga a macchia d’olio.
Vi volevo leggere un’altra testimonianza, è di Donato, un altro nostro amico che ha 34 anni. Gli ultimi di questi anni sono stati passati a letto. Tre anni fa, Donato, andando a rubare in un appartamento, è caduto dal quarto piano ed è rimasto paralizzato. Oltre a questo problema, in questi ultimi anni è subentrato anche l’AIDS. Scrive Anna Maria: "Ho iniziato ad andare a trovarlo con Laura, che tutti i sabati porta in ospedale il thermos con il caffè. È un modo molto semplice di entrare in rapporto con loro, nessuno dice di no. Un sabato mi viene incontro un’infermiera e mi dice che Donato non vuole vederci. Allora io mi fermo davanti alla porta della sua stanza senza dire nulla, solo lo guardo, mi fa cenno di entrare. Si scusa perché non si sente bene. Poi mi dice di avvicinarmi perché c’è il demonio. Da tre mesi Donato aveva la febbre sui 39/40. Io gli ho detto con autorità: ‘Guarda che qui il demonio non c’è e se ci fosse ricordati che nessuno può fare del male a quelli che Gesù ama, nemmeno il demonio’. Lui è scoppiato a piangere e mi ha chiesto: ‘È vero che Gesù mi ama?’. Ed io: "Certo, e la prova è che tu stai soffrendo come ha sofferto Lui’. ‘Lo sai’, dice Donato, stamattina quando mi sono svegliato ero triste perché pensavo che avrei passato una giornata brutta come quella di ieri, invece sei venuta tu e mi è venuta anche fame, tu sei una santa". Io gli ho risposto che il santo era lui perché io nella sua situazione non so se ce l’avrei fatta. E lui: "No, sono sicuro che ce l’avresti fatta anche tu". L’ha detto con orgoglio di sé e con stima nei miei confronti. Uscito dall’ospedale mi ha telefonato in ufficio e mi ha detto di andarlo a trovare perché aveva un sacco di cose da raccontarmi. La febbre gli era passata. Mi ha detto: "La differenza fra quando sono entrato in ospedale a quando sono uscito è la stessa differenza che c’è fra il buio e la luce. Prima vedevo solo buio, adesso ho la speranza. Prima non capivo perché voi che avete già delle disgrazie venite a trovarci, poi ho capito, è semplice, basta una parola d’amore". Sua madre ci ha detto: "È venuta una signora a trovarmi ed era dispiaciuta per la mia disgrazia, invece per me questa è una grazia particolare che ho ricevuto dalla Madonna quando in ginocchio l’ho invocata mentre operavano mio figlio in coma all’ospedale e già avevo portato il vestito da morto. Mio figlio poteva morire su una panchina o in ospedale e invece è ancora vivo. Gesù l’ha preso, l’ha strapazzato e poi nell’incontro con voi l’ha abbracciato, gli ha toccato il cuore".
La cosa che comunque mi colpisce moltissimo in questo periodo è sì il cambiamento dei ragazzi, ma è anche proprio il cambiamento nostro, il mio e dei miei amici. Non mi ritrovo più com’ero una volta e nonostante continui a veder morire la gente (ad esempio, adesso mentre noi siamo qui, stanno facendo il funerale di due nostri ragazzi, Sergio e Angelo) io mi ritrovo una grande contentezza dentro ed è come se andando al fondo di questa esperienza con loro fossi sempre più me stessa. Non è solo a me che sta capitando questo, ma anche ai nostri amici. Faccio solo un esempio. Un nostro amico, un imprenditore che viene tutte le settimane a pranzo a dare da mangiare ai malati più gravi, mentre facevamo un’assemblea, diceva che proprio attraverso questa esperienza aveva avuto l’effetto di rimettere prepotentemente Cristo al centro della sua vita, perché di fronte a questi nostri amici non si può stare senza lasciarci segnare dal Mistero di questa presenza. Condividere il dolore, infatti, è come ogni volta rimettersi di fronte al fatto che non c’è altro di cui sperare se non Cristo, ma questo è in fondo l’unico atteggiamento che vale di fronte a tutta la vita e perciò questa esperienza è venuta assumendo con il trascorrere delle settimane uno spessore sempre più grande, incidendo su tutti gli altri aspetti della vita.
È proprio per questo, perché questa esperienza che è nata in modo molto semplice ha iniziato ad incidere su tutti gli aspetti della vita, e ci ha fatto amare di più la vita, che abbiamo deciso di mettere in gioco le nostre energie, le diverse competenze, per tentare di offrire risposte più concrete ai bisogni dei nostri ragazzi e a tutto quello che incontriamo. È nata la Fondazione "Maddalena Grassi", che si occupa di assistenza domiciliare ai malati terminali, agli anziani; all’interno di questa fondazione c’è un progetto, si chiama "Solidarietà AIDS" che in questo momento si prefigge in modo particolare due scopi: l’avvio dell’assistenza domiciliare, in particolare di carattere infermieristico; l’apertura di una casa di accoglienza. Per aderire a questa iniziativa basta anche mettere a disposizione del tempo per fare le molte cose, le molte iniziative che abbiamo in mente di fare, invitare altre persone a partecipare, unirsi a noi proprio per assistere in prima fila i malati, oppure pregare per noi. Imparando da Madre Teresa, abbiamo cominciato ad avere degli amici che fanno la caritativa pregando, due monasteri di clausura si sono prefissati questo obiettivo; un padre con quattro figli, impegnatissimo, ha deciso di fare la caritativa pregando per noi.