La tradizione della Chiesa:
una testimonianza di ecumenismo
Domenica 18, ore 18.30
Relatori: Julien Ries, Michael Waldstein,
Dimitri Salachas, Direttore del Centro di Storia Presidente dell’Internationales
Docente di Diritto Canonico Orientale delle Religioni dell’Università Theologisches Institut di Gaming
presso le Università Pontificie Cattolica di Lovanio
di Roma: Urbaniana, Gregoriana,
Angelicum e Istituto Orientale
Salachas:
A trent’anni dal Concilio Vaticano II e nella prospettiva del terzo millennio le Chiese sono ancora divise: per questo ci chiediamo se c’è speranza solida che le Chiese possano ricomporre l’unità e, proprio per rispondere a questa domanda, quale era lo stato dei rapporti delle Chiese d’Oriente e d’Occidente – Roma e Bisanzio – durante il primo millennio.Nel primo millennio la Chiesa di Cristo era indivisa. Oriente ed Occidente hanno celebrato insieme i Concili Ecumenici che hanno difeso la fede apostolica, hanno definito la fede cristologica, hanno composto il credo che oggi noi recitiamo come cristiani sia in Oriente che in Occidente. Non mancarono, durante il primo millennio, le tensioni tra Roma e Costantinopoli: dietro queste tensioni e rivalità c’erano le controversie politiche del tempo. Malgrado tutto però la Chiesa rimase indivisa: tutto ciò che oggi noi abbiamo ereditato di fede comune apostolica è stato definito insieme da Roma e dalle sedi apostoliche dell’Oriente, ed è il nucleo dell’unità della Chiesa indivisa.
All’alba del secondo millennio, nel 1054, avvenne la rottura tra Roma e Costantinopoli. Apparentemente le ragioni che la determinarono erano teologiche, ma in realtà si trattava del culmine della rivalità tra questi due centri; dietro alle rivalità delle sedi ecclesiastiche c’erano le rivalità dei poteri politici, e la Chiesa è stata strumentalizzata. Chi ha firmato lo scisma? Chi erano i protagonisti della rottura ecclesiastica tra Roma e Costantinopoli? Non le Chiese, né Roma né le Chiese orientali: i protagonisti erano uomini non autorizzati a compiere lo scisma. In questa tappa dolorosa della storia, i legati pontifici hanno deposto sull’altare di Santa Sofia, cattedrale di Costantinopoli, le scomuniche, e il patriarca Cerulario con il suo Sinodo hanno risposto ugualmente. Queste scomuniche hanno pesato per un millennio sulle spalle delle Chiese, fino al 7 dicembre 1965, alla fine del Concilio Vaticano II, quando Paolo VI e Athenagora I hanno tolto dalla storia le scomuniche, hanno liberato le Chiese da quest’infamia degli anatemi, hanno riparato la storia e sono così diventati protagonisti di una nuova era.
Durante il secondo millennio hanno avuto luogo, di comune accordo, diversi tentativi per ristabilire l’unità, tutti destinati al fallimento: tra questi, il secondo Concilio di Lione del 1274 e il Concilio di Firenze del 1439, che hanno fallito malgrado la buona volontà dei protagonisti ecclesiastici di Roma e Costantinopoli. Il contesto di questi Concili non permetteva infatti una vera ricerca dell’unità, secondo il desiderio di Cristo. L’Oriente infatti durante il secondo millennio ha conosciuto solo le dominazioni dell’Occidente e la latinizzazione del suo popolo, a cominciare dalle crociate, che, deviando dall’iniziale sacro scopo, si limitarono a sostituire le gerarchie orientali con quelle latine: ciò è la causa della riserva e dei pregiudizi che ancora pesano nella coscienza degli orientali verso l’Occidente.
All’inizio di questo secolo, il movimento ecumenico non è cominciato da Roma: sono stati piuttosto il mondo protestante e quello ortodosso ad inaugurare l’era dell’ecumenismo. Roma era molto diffidente di fronte ai movimenti ecumenici, prima di tutto per ragioni di coerenza ecclesiologica: temeva infatti che dietro l’ecumenismo fosse in pericolo l’integrità della fede. Nel Concilio Vaticano II venne capovolto un millennio di storia del Cattolicesimo: la Chiesa Cattolica infatti, con umiltà e sincerità di fronte al mondo, ha chiesto perdono alla storia per le proprie colpe. Paolo VI ha detto questo a tutti il giorno dell’abrogazione delle scomuniche a Roma: si è messo in ginocchio davanti al rappresentante di Costantinopoli, chiedendo perdono e realizzando così un atto di immensa umiltà, ispirato dallo Spirito Santo.
Fino al Vaticano II prevaleva nella concezione teologica cattolica l’esclusivismo ecclesiologico, secondo il quale al di fuori della Chiesa Cattolica Romana non c’è verità e Grazia. Invece, mediante il decreto sull’ecumenismo, la Chiesa Romana rivaluta le Chiese, per esempio ortodosse, sebbene non siano in piena comunione con la Chiesa Romana; queste Chiese sono Chiese di Cristo basate sulla sacramentalità e l’ecclesialità, in virtù della successione apostolica. Noi cattolici oggi siamo convinti che con le chiese ortodosse, che hanno a capo Costantinopoli, la comunione della fede è quasi piena, fondata sulla fede apostolica definita dai primi Concili della Chiesa indivisa. Ci sono delle controversie perché dopo la rottura del 1054 l’Oriente e l’Occidente hanno seguito la propria strada: l’Occidente ha sviluppato i suoi dogmi, ha approfondito anche per esigenze pastorali la sua teologia, e l’oriente non ha partecipato a questo processo.
Cosa significa questo processo di unità intrapreso dopo l’abrogazione delle scomuniche? Non è tolto lo scisma, però dal punto di vista giuridico possiamo dire che nei confronti dell’ortodossia siamo passati dallo stato canonico di scisma in uno stato de facto di non comunione e nello stesso tempo di impegno per restaurare l’unità. Una commissione teologica è stata costituita dal Santo Padre e dalle Chiese Ortodosse, impegnate da 15 anni in questo processo. Si cerca di restaurare, di ristabilire la piena comunione nella linea della tradizione della Chiesa indivisa; abbiamo un millennio comune e un secondo millennio di processo unilaterale. Lo sforzo deve essere quello di rivedere il processo dello sviluppo alla luce del primo millennio.
I problemi che in questo momento affrontiamo nel dialogo con le Chiese Ortodosse sono il primato del Romano Pontefice e l’esistenza delle Chiese Cattoliche Orientali in comunione con Roma, a una delle quali appartengo io stesso, e che in questo momento sono pietra di scandalo.
Il primato del Romano Pontefice è stato rifiutato dagli ortodossi. Tutti i Concili Ecumenici hanno riconosciuto una primarietà al Vescovo di Roma nella pentarchia – Roma, Costantinopoli, Antiochia, Alessandria, Gerusalemme, le cinque sedi dell’ecumene cristiana –, e mai un ortodosso oggi rifiuta che il Papa sia il primo Vescovo nella comunione universale delle Chiese. Le Chiese Ortodosse non hanno però seguito gli sviluppi del primato, e specialmente la dogmatizzazione di esso compiuta nel Vaticano I; è però falso dire che gli ortodossi rifiutano che Roma abbia un posto prevalente nella comunione come garante di unità. Il diritto di appello nel primo millennio era garantito: esso consisteva nel diritto degli orientali di rivolgersi a Roma qualora fossero sorti dissensi circa la fede e la disciplina. In questo diritto c’è chiaramente l’idea del primato. Il Vescovo di Roma, il Papa, era sempre presente ai Concili, firmava per primo gli atti, e la presenza di rappresentanze papali era preponderante e decisiva nella formulazione dei dogmi e delle definizioni: i nostri fratelli ortodossi non possono ignorare questi fatti, che costituiscono la base solida su cui il Concilio Vaticano I formula il dogma del primato.
Per quanto riguarda il secondo problema, cioè il ruolo delle Chiese Orientali Cattoliche in comunione con Roma, dobbiamo anzitutto chiederci perché esse costituiscano scandalo per i nostri fratelli orientali. Il dialogo in questo momento attraversa una crisi seria a causa di questo problema non ancora chiarito. Nell’ultimo incontro che abbiamo avuto, in Libano nel 1993, abbiamo affrontato il problema delle Chiese Orientali Cattoliche – chiamato "unitismo" appunto per indicare le Chiese unite, cioè unite con Roma. Noi cattolici abbiamo riconosciuto che per ristabilire l’unità il metodo adatto non è la conversione degli ortodossi al Cattolicesimo, che è anzi contrario al Vaticano II. Un’altra strada cerca oggi Roma: risolvere i problemi che ci dividono per poter restaurare, in base alla fede comune, il dialogo. Le Chiese Orientali affermano che le Chiese Orientali Cattoliche sono il frutto di un tempo in cui è prevalsa un’ecclesiologia cattolica di esclusivismo; noi cattolici abbiamo però sottolineato – e gli ortodossi lo hanno riconosciuto – che non sempre è stato il proselitismo dei missionari latini a convertire gli ortodossi alla Chiesa Cattolica, integrandoli nei riti orientali. Molte volte Chiese Ortodosse intere, Sinodi interi di Patriarchi, hanno voluto restaurare la comunione con Roma senza nessun influsso. È per questo che non possiamo identificare la Chiesa Cattolica con quella di rito latino.
In questi ultimi anni c’è stato anche un altro problema: per 50 anni le Chiese Orientali Cattoliche nei paesi dell’Est sono state soppresse e perseguitate: dopo la restaurazione della libertà, queste chiese sono riemerse. I nostri fratelli ortodossi pensavano che sarebbero state tutte annientate: le chiese cattoliche infatti dopo il ’48 erano state date tutte a loro, e chiaramente adesso vengono da loro reclamate. Da qui nascono i contrasti locali che ci sono in questo momento in Romania e in Ucraina: i fedeli si accusano a vicenda, cercano le responsabilità, cercano di vedere chi era con e chi contro lo Stato, chi ha contribuito alla fede, chi ha dato dei martiri... In questo momento la Santa Sede ed il Papa personalmente fanno tutto affinché questi rapporti si migliorino, perché il dialogo e l’unità non sono una questione soltanto di élite e di specialisti; se in questo momento nei paesi dell’Est cattolici orientali e ortodossi non migliorano i loro rapporti localmente, anche se i capi fanno miracoli, non avverrà nulla.
Nel 2000, c’è speranza di vedere questo miracolo dell’unità? Don Giussani crede al miracolo, come ho letto recentemente in un suo libro e come ha ripetuto nel suo viaggio in Grecia. Non conosceva il mondo greco, ma aveva un amore e una sensibilità tali per la nostra situazione, che spesse volte mi chiedeva: "Ma perché i greci reagiscono così? Perché è così difficile il dialogo con il mondo greco?" Lui stesso dava questa spiegazione: fino ad ora non ci siamo riconosciuti nella nostra realtà e nella nostra identità, abbiamo solo cercato con antagonismo reciproco di imporre ognuno la propria identità agli altri. Io credo con don Giussani al miracolo. In questo momento non ci sono, rispetto al mondo ortodosso, problemi teologici seri, tali da non poter essere risolti con la buona volontà; per il Papa attuale, il movimento ecumenico è irreversibile, e la Chiesa Cattolica non può più tornare indietro.
Spetta agli uomini, ai singoli fedeli, diventare protagonisti nella soluzione di questi problemi. Dio certamente benedirà questo sforzo: se gli uomini saranno convinti di questo pressante appello di Cristo per il 2000 affinché almeno le Chiese siano unite perché il mondo creda, sono sicuro che le Chiese – anche se non saranno unite – inizieranno questo nuovo millennio per essere fedeli a Cristo.
Ries: All’indomani della Pentecoste, gli apostoli annunciano la resurrezione e l’ascensione di Gesù; poi, fortificati dallo Spirito Santo, si lanciano nell’annuncio della buona novella, come Gesù aveva chiesto loro. Questa missione è alla base di due millenni della storia della Chiesa. Riassumerò ora questa storia dal punto di vista dell’incontro tra cristiani e credenti di altre religioni.
Si possono individuare quattro grandi periodi.
Il primo periodo va dagli Atti degli apostoli al De Civitate dei di Sant’Agostino. Nato in seno al popolo di Israele, il Cristianesimo si considera l’erede normale della promessa e delle profezie, ma prende le distanze riguardo alla legge e ai riti del Giudaismo. Nell’Impero Romano la religione ebraica è religio licita – religione autorizzata –, ma i suoi adepti vivono in ghetto, cosa che i cristiani rifiutano di fare; coscienti delle origini ebraiche delle fede cristiana, gli Apologisti e i Padri della Chiesa del II e III secolo si rifanno a Mosè e ai profeti, ma insistono sulla realizzazione delle promesse messianiche di Gesù. Da qui nasce una polemica – che non è certo una discussione paragonabile a ciò che oggi chiamiamo antisemitismo –, un dibattito imperniato intorno a Gesù, alla legge, ed al vero Israele. La situazione cambia nel IV secolo con Giovanni Crisostomo che chiede ai cristiani di smettere di frequentare le sinagoghe, mentre gli ebrei assistevano alla Messa dei catecumeni.
La posizione dei cristiani riguardo alle religioni pagane è diversa. La prima evangelizzazione ha già solidamente radicato la religione di Cristo nell’Impero Romano; alla fine del II secolo il mondo pagano comincia a reagire ed i cristiani si difendono. Essi criticano gli idoli ed i culti, eppure i Padri greci non rinnegano i valori della filosofia, gli Apologisti latini difendono il lealismo dei cristiani ma rifiutano il contatto con gli idoli e i culti del paganesimo. Bisognava soprattutto impedire ai convertiti di trovare nei templi pagani e di partecipare ai sacrifici ed ai culti. In grandi città come Alessandria e Roma avviene l’incontro fra la fede cristiana e la cultura antica: Clemente di Alessandria e San Giustino ne sono testimoni. La celebrazione del millenario di Roma, nel 247, sarà motivo di una prima persecuzione politica contro i cristiani che rifiutano la teologia imperiale e la mistica pagana. La persecuzione che va dal 303 al 312 porta alla conversione di Costantino ed al declino del paganesimo; la nascita della Santità nella Chiesa, la testimonianza dei martiri ed il culto dei Santi hanno contribuito ad accelerare, nel corso del IV secolo, il movimento di conversione delle masse pagane. È l’età d’oro dei Padri della Chiesa, l’età in cui giovani intellettuali cristiani si formano servendosi della letteratura pagana dei migliori autori greci e latini: Omero, Platone, Cicerone. Per i cristiani infatti non ci sono frontiere fra nazioni o barriere territoriali, perché ogni battezzato, rifiuta il ghetto: progressivamente la Chiesa assimila la terminologia profana ed integra la simbologia delle religioni pagane. Ad esempio, i simboli del culto solare sono ripresi dalla cristologia dei Padri e dall’arte cristiana in riferimento a Cristo. All’inizio del V secolo Sant’Agostino cerca di mostrare ancora una volta il peso del paganesimo e presenta alle giovani generazioni una storia della salvezza che è anche una teologia della cultura ed una teologia della storia: è il messaggio del De Civitate Dei. Quando Agostino termina il suo libro, l’Impero Romano crolla sotto l’urto delle invasioni germaniche.
Il secondo periodo va dalle grandi invasioni alla caduta di Costantinopoli, dal 405 al 1453. A partire dal 405, popolazioni venute dall’Est, chiamate barbare dagli storici, dilagano nell’Impero diventato cristiano e sommergono popolazioni da poco convertite a Cristo. Questi invasori sono portatori di una mitologia indoeuropea indebolita, poiché la funzione guerriera aveva preso il sopravvento sulla funzione del sacro e del culto. Essi si trovano di fronte ad una Chiesa ben organizzata, diretta da grandi Vescovi ed in mezzo a popolazioni con una cultura ricchissima. Gli invasori germanici si sentono manifestamente inferiori in mezzo alla cultura dei paesi conquistati, ancor più l’ideologia guerriera dominante che possiedono dà loro un senso comunitario evidenziato dalla sottomissione al capo; così la conversione di un re comporta la conversione del suo popolo. Questi dati spiegano il passaggio veloce e abbastanza indolore delle popolazioni barbare al Cristianesimo, mentre erano stati necessari quattro secoli per convertire il mondo greco-romano. La conversione comporta una mutazione profonda del sacro; la Chiesa nei tempi barbari adotta l’atteggiamento dei Padri e dei cristiani dei primi secoli, nei confronti degli idoli e dei miti del culto pagano: svuota i santuari dai loro idoli ed al posto mette Cristo ed i Santi; mantiene i luoghi sacri, le date delle feste, ma le cristianizza e crea comunità cristiane – luogo di incontro per i fedeli – ed un tessuto sociale e culturale.
L’anno 622 segna una nuova rivoluzione: la nascita dell’Islam, che gli eserciti dei califfi imporranno con la spada in medio Oriente, in Egitto, in Mesopotamia, nell’Africa del nord ed anche in Spagna. La nuova religione abramitica mette al suo servizio le diverse culture e crea rapidamente una vera e propria cultura mussulmana propagata dal Corano. Numerosi cristiani sono costretti a convertirsi all’Islam; i cristiani evitano una polemica aggressiva ed instaurano un dialogo che verte sul profeta e sul Corano. In Spagna gli ambienti monastici organizzano una forte resistenza religiosa: nasce l’idea della riconquista, che si concretizza con l’organizzazione di otto crociate fra il 1096 e il 1291 per la liberazione della Terra Santa. Grazie ai monaci di Cluny, ai discepoli di San Domenico e di San Francesco, la missione cristiana si sostituisce alla crociata. L’abilità strabiliante di Raimondo Lullo fa progredire il dialogo e provoca l’incontro della mistica islamica – il sufismo – con quella cristiana, ed induce il Concilio di Vienna nel 1311 a fondare collegi per l’insegnamento dell’arabo nelle università. Nell’antichità la Chiesa e la Sinagoga hanno rivaleggiato nel loro zelo missionario verso i pagani; nel suo trattato Adversus Judeos, Sant’Agostino, che per imparare l’ebraico aveva un maestro ebreo, chiama i cristiani alla umiltà ed alla carità verso gli ebrei, popolo testimone del male e testimone della verità cristiana. Gli ebrei – dice Agostino – testimoniano con le loro scritture la loro dispersione e afflizione. Come Caino sono portatori di un segno, ma non devono essere uccisi. I cristiani hanno il dovere di amarli, di non considerarli perduti, ma di camminare con loro nella luce del Signore.
Nel 611 la nascita del Califfato di Cordova dà occasione agli ebrei di riallacciare i rapporti con le loro grandi scuole di Baghdad, così la letteratura rabbinica e talmudica fa la sua apparizione in Occidente e provoca i primi movimenti antiebraici. Con le crociate comincia l’antiebraismo vero e proprio; alcuni principi feudali avevano bisogno delle finanze degli ebrei e dei grandi banchieri dell’Europa, quindi incitano la popolazione contro di loro, accusandoli dei crimini più svariati per gettarsi sui loro averi. Tutto il movimento spinge il popolo di Israele verso il ghetto, mentre la Chiesa regolarmente interviene contro questi principi feudali. Parallelamente all’incontro con l’Islam e l’Ebraismo, la Chiesa del Medioevo si trova di fronte al Catarismo, proprio quando era in piena riorganizzazione in seguito alle riforme di Gregorio VII nel 1073-1085. Avendo fallito la crociata affidata al braccio secolare, la Chiesa istituì l’Inquisizione.
Siamo giunti al terzo periodo: dalla scoperta del nuovo mondo alla fondazione delle cattedre di storia delle religioni, dal 1492 al 1880. L’anno 1492 conosce tre avvenimenti importanti: la cacciata dei musulmani dalla Spagna – il decreto di espulsione degli ebrei da parte dei re cattolici di Spagna –; la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo; l’inizio dei tempi moderni, con una nuova visione dell’uomo e del mondo. Nel corso dei quattro secoli che seguono la scoperta dell’America, per due volte le frontiere dell’umanità conosceranno un’estensione inattesa. Nel XVI secolo tutto il continente americano, una gran parte dell’Africa e del Giappone, la Cina e l’India, sono scoperti dall’Occidente. Nel XIX secolo c’è invece la scoperta della preistoria, delle grandi civiltà dell’Oriente fertile, del pensiero dell’India, della Cina, dell’antico Egitto, e dei popoli senza scrittura.
La presenza di nuovi popoli pone alla Chiesa il problema dell’evangelizzazione; essa disponeva di due esperienze, la conversione del mondo antico e quella dei popoli germanici, scandinavi e slavi. In America ed in Africa i missionari seguono i conquistatori; in Asia invece, dove le religioni sono legate a culture molto nobili, la situazione è diversa, e così si inizia un dialogo ed una riflessione, che proseguono tuttora. Sotto l’influenza degli umanisti, la Chiesa ha messo fine all’Inquisizione ed ha ripreso il dialogo con gli ebrei ed i musulmani, in un’Europa che cerca il proprio equilibrio. Il XIX secolo è caratterizzato da una lunga serie di sconvolgimenti e convulsioni.
Durante questi quattro secoli la Chiesa ha fatto fronte a difficili problemi: rottura della cristianità e Riforma, missioni cristiane in Asia ed in Africa, in America, filosofia dei lumi, positivismo ed ateismo, diversità ed origini delle religioni. Nel corso del dibattito del XIX secolo sulla rivelazione, le religioni e la salvezza, John Henry Newman ha fatto progredire le soluzioni mettendo in evidenza una concezione della storia come luogo di incontro fra Dio e l’uomo.
Prendiamo in esame l’ultimo periodo: dal Parlamento delle religioni di Chicago del 1893 all’incontro di Assisi del 1986. Alla fine del XIX secolo lo studio del patrimonio religioso dell’umanità che si va riscoprendo, dà inizio ad una nuova scienza: la storia delle religioni, lo studio comparato delle religioni. In occasione della celebrazione del IV centenario della scoperta dell’America, la Chiesa Presbiteriana e la gerarchia cattolica degli Stati Uniti convocano a Chicago il World Parliament of religions, nel 1893. È stato il primo incontro mondiale delle religioni: 17 giorni di lavoro che hanno avuto una grande ripercussione nel mondo. A partire dal 1900 si organizzano congressi internazionali di storia delle religioni, condotti dai pionieri di questa disciplina, e gli incontri dei cristiani con i non cristiani si moltiplicano. Il 17 maggio 1964, il giorno della Pentecoste, Papa Paolo VI fonda il segretariato romano per le religioni non cristiane ed apre le prospettive del Concilio Vaticano II per l’incontro ed il dialogo con le religioni non cristiane. Nel corso della terza e della quarta sessione è preparato e discusso un documento, votato e promulgato il 28 ottobre 1965: la dichiarazione Nostra Aetate. Il Concilio vede l’umanità alla luce dell’incarnazione; dopo aver accettato le esperienze recenti della storia delle religioni, affronta le religioni legate al progresso della cultura – Induismo e Buddismo –, riconoscendone il valore. Nel testo sull’Islam, la dichiarazione è molto positiva: considera la fede del musulmano, la pratica del fedele, la questione di Gesù e Maria nel Corano, la preghiera, l’elemosina, il digiuno, ed invita musulmani e cristiani ad una migliore comprensione reciproca. Infine, la visione del Concilio sulla religione ebraica è un confronto di fede sul mistero della Chiesa e sul legame fra il popolo ebraico ed il popolo cristiano posto sulla scia della Lumen Gentium. Il testo termina con una condanna esplicita dell’antisemitismo.
Il 27 ottobre 1986, dodici religioni si sono trovate all’appuntamento di Assisi fissato da Papa Giovanni Paolo II, nella logica del Concilio Vaticano II, per una giornata di preghiera, di pellegrinaggio e di digiuno per la pace nel mondo. Assisi è diventata un simbolo e un prototipo per l’incontro dei cristiani e dei non cristiani. La Chiesa sta vivendo una nuova esperienza della propria missione, che consiste nel promuovere l’unità e la carità fra gli uomini e i popoli.
Waldstein: Il testo più ricco di tutto il Nuovo Testamento sulla tematica ecumenica è Giovanni 17. Esso si pone alla fine dei discorsi di Gesù come l’interpretazione più profonda di ciò che Giovanni chiama l’ora della croce, morte e resurrezione di Gesù.
In Giovanni 17, tre sono gli oggetti della preghiera di Gesù: Gesù prega dapprima per la sua glorificazione – versetti 1-8 –, poi per i discepoli – versetti 9-19 –, e infine per tutti i credenti futuri – versetti 20-26. Questa struttura tripartita suggerisce il movimento di espansione in cerchi sempre più ampi, iniziando da Gesù, muovendo verso i discepoli e terminando con tutti i futuri credenti nello spazio del mondo intero, che i Greci chiamavano Oikumenee. Una lettura attenta del testo mostra che già il primo cerchio, quello della missione di Gesù, è totalmente comprensivo di Cristo stesso, e in un certo senso non si può aggiungere nulla. La sua gloria è già luce infinita nella quale tutta l’economia salvifica trova il suo posto.
I versetti da 1 a 5 hanno una struttura simmetrica, che si trova molto spesso nella Bibbia: per esempio, i versetti 1a ("Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo") e 5 ("E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse") si equivalgono; anche i versetti 1b ("perché il Figlio glorifichi te") e 4 ("Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare") sono strettamente correlati. La parte centrale, il versetto 3 ("Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo"), spiega il risultato della irradiazione della gloria divina nell’ora della croce, cioè la vita eterna. Le due parti che si corrispondono in questa struttura interpretano l’ora delle croce in due direzioni: i versetti 1a e 2 ("perché [come tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano] egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato") mettono a fuoco l’effettività della luce gloriosa del dono della vita eterna, ed i versetti 4 e 5 mettono a fuoco l’origine ed il termine di questa luce. Inoltre, nei versetti 1 e 2 non è contenuta una petizione ("Padre, [...] glorifica il Figlio tuo") per una glorificazione isolata o privata: lo scopo è la glorificazione del Padre, che si identifica con il dono della vita eterna. La frase parenetica ("come tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano") mostra l’estensione universale o ecumenica della potenza del Figlio nell’ora della croce. Un’interpretazione simile dell’ora della croce si trova in Giovanni 12, ai versetti 23 e 24: "È giunta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo. Se invece muore, produce molto frutto". L’immagine del chicco di grano che cade e muore interpreta la glorificazione del Figlio: come il chicco diventa fecondo attraverso la sua morte, così sarà anche per Gesù. Attraverso la sua croce, egli non rimane più solo, ma costruirà la nuova comunità, la vera Oikumenee.
La seconda parte – i versetti 4 e 5 – considerano l’ora di Gesù nella direzione opposta, non in termine di efficacia nel dare la vita, ma in termine della gloria preesistente di Gesù: "Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse". La natura di questa gloria, di questa luce assoluta e preesistente, è spiegata nella terza parte della preghiera, nel versetto 22: "E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola, io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità". Questo brano suggerisce che la gloria del Figlio sta nella sua unità con il Padre, o nell’essere del Padre nel Figlio; la luce originaria del Padre è il centro della gloria, e questa luce è la luce dell’amore del Padre. Il versetto 24 ("Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella mi hai dato; poiché Tu mi hai amato prima della creazione del mondo") evidenzia invece che la gloria preesistente di Gesù è non solo fondata causalmente nell’amore del Padre, ma anche contenutisticamente ed essenzialmente da esso determinata.
Possiamo dunque comprendere la gloria accennata in Giovanni 17, 5 e 24, come l’essere infiammati, penetrati dal raggio dell’eterno amore di Dio. Il versetto 5 si può comprendere su questo fondamento: la gloria preesistente del Figlio è la presenza dell’amore del Padre in lui, e così la gloria di cui si parla nei due versetti di Giovanni 17 non è altro che la presenza nella realtà storica di questa luce di gloria. Il versetto 5 interpreta la morte di Gesù e la sua resurrezione non solo come un ritorno alla sua gloria preesistente, ma anche come una presenza effettiva di quella gloria nell’ora di morte.
Consideriamo ora i versetti 17-19. Anche questo brano ha una struttura simmetrica: i versetti 17 e 19 si corrispondono infatti nel tema della consacrazione alla verità: "Consacrali nella verità. La tua parola è verità" (17); "per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità" (19). All’inizio della sua prima supplica per i discepoli, nel versetto 11b, Gesù si rivolge al Padre dicendogli: "Padre Santo custodisci nel Tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola come noi". È una nozione strana, "custodire" in un nome; la supplica "consacrali" significa "conducili nella sfera santa espressa da questo nome: Padre Santo, che è la sfera di vita aperta tramite la verità, tramite la rivelazione del Padre in Gesù". Il maestro più grande di pensiero degli studi giovannei, padre Ignace da la Potterie, sostiene che la vita umana di Gesù, la sua attitudine filiale, la sua sottomissione al Padre, sono la traduzione e l’immagine a livello storico del rapporto trascendente e intra-divino fra il Padre e il Figlio. Per Giovanni, la verità è questa manifestazione della vita profonda di Gesù, e la trasparenza della gloria di Cristo è nell’uomo Gesù, la limpidezza della presenza del Padre e del Figlio. Su queste basi si può comprendere il motivo per cui il centro del brano, il versetto 18, parla di missione: "Come Tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo". La vita che si svolge nell’ambito sacro del nome del Padre non è una vita che riposa in se stessa, ma che partecipa al movimento della vita del Figlio, un raggio della luce di gloria che esce dalla profondità fontale assoluta che è l’amore del Padre.
Passiamo ora all’analisi dei versetti 20-23. I versetti 20-21 esprimono una supplica al Padre perché dia i frutti dell’ora: "Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me e io in te, perché siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato"; i versetti 22-23 invece esprimono una affermazione retrospettiva del risultato dell’ora di Gesù, dell’ora della croce: "E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola, io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità, perché il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me". Il termine gloria unisce il versetto 22 all’inizio della preghiera, dove la glorificazione è considerata come dono di vita eterna. Nei versetti 21, 22 e 23, questo dono è descritto più dettagliatamente. I credenti sono portati a partecipare all’unità del reciproco "essere in", "perché tutti siano una sola cosa come tu Padre sei in me e io in Te"; "perché siano una cosa sola come noi siamo una cosa sola, io in loro e tu in me". Il rapporto fra questi due concetti, unità e "essere in" è molto significativo. "Essere in" viene usato per spiegare l’unità: una sola cosa come tu Padre sei in me e io in Te. Si tratta così di un particolare tipo di unità. I membri uniti in esso non sono semplicemente identificati uno con l’altro, perché se fosse così non potrebbero essere uno nell’altro. D’altra parte, essi non rimangono divisi o chiusi in se stessi. La frase "io in loro e tu in me" sottolinea l’ordine del fondamento dal quale ha origine l’unità. L’unità nasce dal Padre ed è comunicata tramite il Figlio, come frutto della sua croce.
Le proposizioni finali dell’ultimo brano sono interessanti: "perché il mondo creda che Tu mi hai mandato"; "perché il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me"; "da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri". Queste tre proposizioni mostrano che l’unità e l’amore dei cristiani agiscono come segno visibile attraverso il quale il mondo è portato a conoscere la luce della gloria, ovvero il movimento di amore che fluisce dal Padre e si esprime nella missione del Figlio.
La missione nel mondo ovvero la missione nella Oikumenee totale, secondo il testo analizzato, è una caratteristica essenziale della vita dei discepoli, nella sfera santa del nome del Padre. La missione non è un di più da aggiungere alla esistenza cristiana, ma uno dei suoi elementi costitutivi. Sarebbe un grosso equivoco comprendere il concetto giovanneo di missione come missione straniera, portata avanti da missionari specializzati. Secondo Giovanni l’esistenza cristiana spogliata della missione, e della missione in tutta la Oikumenee, non sarebbe affatto una esistenza cristiana, perché verrebbe a mancare il dinamismo di luce e di amore che ha origine dal Padre e si estende nella missione del Figlio. Recenti generazioni di credenti sono stati attirati in questo dinamismo grazie all’incontro con un segno visibile, presente nella loro esperienza, vale a dire l’unità vivente dei discepoli di Cristo. La comunione è dunque la modalità essenziale della missione.
Il testo Giovanni 17 può inoltre dare un grande contributo per una esperienza giusta dell’ecumenismo. Il punto di questo testo è infatti il lasciarsi attirare dal corpo visibile di Cristo, dalla comunità cristiana, per entrare in questa dinamica dell’amore. Dobbiamo sentire e sperimentare che la gloria dell’amore di Dio è molto più grande di noi. L’unità non è un risultato che possiamo produrre noi; è in primo luogo un frutto della croce di Gesù. Se entriamo profondamente in questa luce troviamo l’unità già compiuta. Tutto è trasformato da Cristo: la luce della gloria della sua croce è già presente in ogni luogo in cui arriviamo. Per questo possiamo essere aperti a tutti senza violenza.