Dall’assurdo alla speranza. Omaggio a Eugène Ionesco
Giovedì
25, ore 17Relatori:
Marie-France Ionesco
Jacques Boncompain
Gabriel Liiceanu
Fernando Arrabal
Paolo Fabbri
Moderatore:
Emilia Guarnieri, presidente Associazione Meeting
Guarnieri: Oggi il Meeting dedica non una commemorazione ma un momento di incontro con la grande testimonianza artistica, poetica e umana di Eugène Ionesco. Per tutti noi l’incontro con Ionesco è stato l’incontro con una umanità carica di energia e di tenerezza. L’energia che viene soltanto da quella domanda inestinguibile e inestirpabile sul significato della vita, di sé, degli altri, del proprio esserci e del proprio finire, dell’esserci e del finire delle cose. L’energia di quella domanda che Ionesco ha instancabilmente continuato a testimoniarci da quando ancora giovani lo avevamo conosciuto sui suoi testi a quando più adulti abbiamo avuto la fortuna e l’onore di poterlo incontrare di persona.
Ma è stato anche l’incontro con una umanità carica di tenerezza, la tenerezza di chi sa stupirsi di fronte alla realtà, di fronte alle cose, di fronte alle cose grandi e piccole; Ionesco aveva saputo stupirsi anche di fronte a noi, di fronte a quello che eravamo magari un po’ goffamente, di fronte alla confusione che cercavamo di sedare il più possibile intorno a lui quasi per non turbare l’umanità che vedevamo davvero profonda, più profonda della nostra, eppure Ionesco aveva saputo stupirsi anche di fronte a noi. Era colpito, come lui diceva, da quella esperienza di fraternità che qui aveva incontrato e che lui ci aveva detto era stata capace di dargli momenti di serenità. Tutto questo ci aveva reso amici, profondamente amici, ancora più amici di quando appunto avevamo letto con stupore, con commozione, con curiosità i suoi testi o quando avevamo visto a teatro le sue opere. Amici su quella domanda di significato delle cose, su quella questione ultima della vita che ci rendeva, pur nella diversità della storia e talora anche dell’età, così vicini. E che tutt’oggi ci rende vicino a Ionesco.
"Dio mi deve una risposta, Dio ci deve una risposta" ed è per questo che viviamo ed è per questo che ognuno di noi vive, perché questa risposta diventi sempre più chiara, sempre più evidente, sempre più sperimentata nella vita. Questo ci aveva reso così amici che Ionesco aveva voluto anche farci un regalo; un suo testo che ancora non era stato pubblicato e che Ionesco aveva scritto per un giovane musicista Dominique Probst, che oggi è qui in mezzo a noi, testo che abbiamo allestito per il Meeting, il Maximilien Kolbe. Era stato il regalo non solo di un’opera ma soprattutto di una testimonianza, la testimonianza di che cosa era Ionesco in quel momento, di che cosa eravamo noi per lui, di che cosa era questa vita attraversata dal dolore, dalla contraddizione, e illuminata pur drammaticamente da una speranza. Gliene siamo per sempre grati per una ragione affettiva, per una ragione umana.
Infine volevo ricordare il modo in cui lo abbiamo conosciuto e incontrato. Abbiamo incontrato Ionesco sempre insieme alla sua famiglia, Ionesco per noi era lui, era la moglie Rodica, era sua figlia Marie-France che oggi sono qui con noi e che salutiamo con tantissimo affetto. Erano un po’ l’uno il custode dell’altro. L’uno il custode della umanità dell’altro. Ionesco ha scritto anche che per lui il volto di Cristo sono stati Rodica e Marie-France. Oggi loro sono qui con noi a ricordare insieme e a continuare insieme la grandezza e lo stupore di questa amicizia.
Marie-France: Nell’agosto dell’87 Eugène Ionesco era proprio qui, felice, tanto felice tra voi, e il Meeting lo ha vissuto come una grazia, la grazia di incontrare degli esseri di fede o alla ricerca della fede. Nell’agosto ‘88 Eugène Ionesco era di nuovo qui per assistere alla creazione dell’opera Maximilien Kolbe della quale Dominique Probst aveva composto la musica e lui il libretto. Lo spettacolo fu sconvolgente. Gli anni sono passati, Ionesco viaggiava sempre meno ma il Meeting era sempre vivo nel suo ricordo e nel suo cuore per l’amicizia di Emilia Smurro e di don Giancarlo, di Mario Guaraldi, di Maria Pedrone, del dott. Mimmo Zanotti e di tanti altri ancora. Questa sera Ionesco è ancora qui con noi grazie alle immagini che vedremo e alle parole che saranno dette non su di lui ma con lui. E questo grazie a tutti voi. Lascio ora la parola a Eugène Ionesco attraverso l’ultima intervista, quella che ha rilasciato nel ‘90, quattro anni fa.
Intervista a Eugène Ionesco
Domanda: Prima ho evocato la rivolta che caratterizza l’origine della sua opera letteraria. In questa rivolta, nata da un concreto malcontento sociale, lei si ribella alle tattiche politiche, ad una certa mediocrità presente nella nostra società fra le due guerre. Questa ribellione ha acquistato più tardi nel suo teatro un’altra dimensione, è diventata ribellione contro la condizione di finitezza dell’uomo, contro la morte. In che modo da questa ribellione è nato l’incontro con il divino? In che modo ha incontrato Dio al termine di questa rivolta?
Ionesco: Non so se l’ho incontrato, non lo so proprio. Non smetto di cercarlo ed è proprio qui che volevo arrivare.
Domanda: Infatti il tema che si trova nel suo teatro, nei suoi saggi e soprattutto nel suo ultimo libro La quaite intermitante è esattamente il tema dell’attesa, della speranza, della ricerca e del dubbio. E se non arrivasse nessuno e se non ci fosse nessuno ad aspettarci al termine del cammino? Non è forse questa la domanda che la tormenta?
Ionesco: È la domanda che mi tormenta, è l’angoscia delle mie angosce.
Domanda: Ma allora la sua opera non è un dialogo con una possibile assenza?
Ionesco: Io ho paura di questa assenza. Sì, per un quarto, un decimo del mio tempo credo, per il resto del tempo sono agnostico. Adesso mentre le parlo non so se ho la fede o se non l’ho. Il mio desiderio è di avere la fede. Voglio avere la fede. Sono come un prete mio amico che ogni giorno pregava: "O Dio, fa’ che creda in Te". Io sono fatto così, questo è il mio atteggiamento costante. Talvolta mi ribello contro quello che mi sembra fatto male. Come in una delle mie novelle vorrei un altro universo. Voglio ritrovare questo mondo, amo la creazione, ma la vorrei diversa. Vorrei che Dio la rimaneggiasse, aspetto una nuova nascita e spero in un mondo diverso. Spero senza sperare. Nasciamo, cresciamo in forza, in bellezza e poco a poco arriva il crollo ed eccoci tutti zoppi, brutti, fragili e come è possibile questo? Come è permesso e perché? Ho interrogato tutti i preti che ho incontrato e perfino il Papa a cui ho scritto: Perché è così? Tutti mi hanno risposto: "È un mistero. Non abbiamo risposta". Il Papa non può rispondere a questa domanda, in questo vedo una crudeltà di Dio che io come uomo non posso accettare. Salacroux ha ristabilito l’ordine del mondo come lui vorrebbe e noi con lui vorremmo che fosse: nascere vecchi e ringiovanire via via che passa il tempo e ci si avvicina alla morte. E quando saremo arrivati bambini moriremo avendo attraversato la maturità, la giovinezza. C’è una vecchia donna nata moribonda che poco per volta è guarita. Il cancro che aveva si è riassorbito e si è ritrovata nel pieno vigore degli anni. Ecco come mi piacerebbe che fosse.
Domanda: E questo le piacerebbe?
Ionesco: Certo che mi piacerebbe.
Domanda: Non è forse questa la forma suprema della sua ribellione? Una ribellione di fronte a una condizione crudele? In fondo perché bisogna morire?
Ionesco: Infatti perché bisogna morire? Perché bisogna invecchiare? Perché bisogna soffrire? Perché bisogna aspettare? Perché bisogna sopportare l’ingiustizia e perché è necessario che ci sia l’ingiustizia in questo mondo? Guerre e guerre da migliaia di anni. Uno guarda un bel mare azzurro e pensa che due metri più giù si perpetua una guerra senza pietà. I pesci si divorano l’uno con l’altro. Non riesco a capire perché l’universo sia così, perché sia stato fatto in questo modo. Da qui la mia domanda. La mia unica domanda: Dio esiste oppure no e se non esiste c’è qualcuno che ha fatto questo mondo? A volte sono tentato di credere che questo mondo sia stato fatto da quegli angeli malvagi di cui parlano i catari.
Domanda: E il suo amico Cioran?
Ionesco: Il mio amico lo dice. Ma Cioran ha la fortura di avere qualche cosa che lo tranquillizza, lo rappacifica ed è la bellezza del suo stile, mentre il mio stile non è bello e non mi è di nessun aiuto. Mi ripeto con orrore che morirò, mi ripeto con infinita angoscia che mia moglie, mia figlia moriranno e senza scampo. Si può fare qualsiasi cosa, ma non c’è scampo; allora mi rivolgono un certo addio, ma Gesù Cristo che è mio fratello e quindi più vicino a me, è Lui che invoco, è Lui che interrogo, però nemmeno Lui mi risponde. So solo che ha sofferto e anche sperato e se Lui ha sperato questo è l’inizio di una risposta.
Domanda: Perché lei pensa che Cioran possa essere più sereno, più calmo di fronte alla morte lui che ha vissuto questa ossessione della morte fin dall’inizio esattamente come lei?
Ionesco: Devo dire che lui ha letto più di me e questo lo ha aiutato.
Domanda: La lettura è di aiuto di fronte alla morte?
Ionesco: Sì, aiuta a scrivere. In tutti i libri di Cioran si ritrova qualche cosa dei testi gnostici del terzo secolo dopo Cristo. Non credo che sia stato sincero del tutto. È mio amico, parliamo spesso, ma non credo nella sua totale sincerità.
Domanda: Totale rispetto a cosa? Alla sua angoscia?
Ionesco: Alla sua angoscia. Sembrerebbe un angoscia più artificiale, più finta, sì, grazie alla pratica stilistica.
Domanda: L’angoscia non è compatibile con lo stile?
Ionesco: No, per niente.
Domanda: E come spiega che chi crede in Dio, non si pone queste domande con gli stessi suoi termini? E che non finisce in un vicolo cieco come lei?
Ionesco: Non so. E tuttavia, come ha detto Cioran, è innegabile che le esperienze di San Giovanni Della Croce o di Santa Teresa D’Avila sono reali. Come questo possa accadere la mia mente non lo può concepire. Io non cerco da mattina a sera e da sera alla mattina, nelle mie notti insonni, di concepire l’inconcepibile.
Domanda: L’esperienza dei Santi non l’aiuta? Noi non possiamo vivere questa esperienza attraverso i Santi? Se ci hanno preceduto nel cammino seguire le loro tracce non sarebbe una possibilità di speranza?
Ionesco: Sicuramente, però io sono impaziente. La mia impazienza è immensa. Sono impaziente attimo dopo attimo, giorno dopo giorno.
Domanda: Mi perdoni se cambio completamente il corso del nostro incontro, per ritornare nello spazio della nostra vita, nel mondo. Parlerò del tema del Rinoceronte, mi piacerebbe farle delle domande su quello che abbiamo vissuto, in questi ultimi mesi in Romania. I rinoceronti, la rinocerite e la rinocerintizzazione sono fenomeni correnti e lei ha messo il dito su una malattia che caratterizza il nostro secolo. L’umanità è vittima di certe epidemie fisiologiche, biologiche, anche l’anima è periodicamente vittima di certe malattie. Lei ha descritto una di queste malattie del XX secolo che potremmo chiamare come lei ha fatto: la rinocerite. Si può dire che all’inizio un uomo si rinocerizza per stupidità oppure perché è un fesso, ci sono però persone oneste, intelligenti che sono anch’esse vittime inattese di questa malattia, da un momento all’altro cadono anche loro, tutti coloro che più ci sono cari, vicini, subiscono un tale cambiamento.
Ionesco: È proprio stato il caso di miei amici, è inspiegabile. Questo è il motivo per cui ho abbandonato la Romania, non ci volevo più stare. Così sono venuto in Francia dove ho incontrato un gruppo di persone, proprio quando non credevo più che fosse possibile avere ragione da solo contro tutti, persino al punto di dire che forse avevo torto. Allora ho incontrato degli uomini che avevano il coraggio di stare isolati di fronte al male e che non aderivano a questa forma del male.
Domanda: Non si è mai chiesto come mai il male è tanto forte, e il bene tanto fragile? Il bene, diceva Kierkegaard, appartiene all’eternità ed è per questo che è tanto fragile, non arriva a dominare il mondo in modo definitivo. Perché la rinocerintizzazione non si impadronisce di ognuno di noi?
Ionesco: Infatti è cosa inspiegabile ma è proprio in questo che ripongo la mia speranza. Come fa il mondo a tenersi in equilibrio? Chi lo sa, come si fa a saperlo? In queste cose non è permesso non credere in Gesù Cristo, nella religione, in tutte le religioni, perché proprio tutte hanno il sentimento e la coscienza del bene. La nostra conversazione mi sta dando la speranza. Come fa a esistere il male più doloroso? Diventiamo vecchi, brutti, perdiamo la fede. Come accade tutto ciò e perché? Il male è così potente di fronte al bene e perché Dio ha lasciato un così grande potere a Satana? Mia figlia direbbe che è un Mistero, ma io vorrei la chiave di questo Mistero. Non voglio continuare a vivere senza avere la chiave di questo Mistero. Eppure la chiave di questo Mistero io non l’avrò mai.
Domanda: Certo, il mondo però non diventa un impero del male. La stessa lotta continua all’infinito. Anche Berangè resta solo. Ci lascia sperare che dalla sua solitudine nascerà una nuova comunità di bene. Come accade questo? Il mondo allora non è totalmente sottomesso. Il mondo non può essere totalmente reso satanico. Anch’io non riesco a capire tutto questo constatando quanto è imponente la forza del male.
Ionesco: In che misura il male non prevale? Mi domando se Dio permette che noi ci uccidiamo gli uni gli altri, se permette che gli uomini uccidano gli animali. Se è necessario uccidere per non essere uccisi vuol dire che la preponderanza del male non è totale. È però immensa.
Domanda: Può una cosa essere pura all’origine e finire nell’orrore?
Ionesco: Certamente. Tutto finisce nell’orrore. Il comunismo pretendeva di introdurre la giustizia e ha introdotto solo privilegi e ingiustizia. Churchill ha trascinato il suo paese nella seconda guerra mondiale con l’intenzione di conservare l’Impero Britannico, invece lo ha distrutto. Hitler ha voluto costruire una Germania splendida e l’ha distrutta. Ho l’impressione che il Diavolo si diverta a mutare le nostre intenzioni nel loro esatto contrario. Siano esse favorevoli o no.
Jacques Boncompain, presidente della Sezione Drammaturgia della Società Francese Autori e Compositori
Boncompain: Io ero l’agente di Eugène Ionesco vale a dire negoziavo i suoi contratti, e così a poco a poco sono entrato nella sua intimità e gli ho offerto la mia amicizia e la mia, per quanto imperfetta per quanto esitante, fede. Assieme, dal novembre 1992 fino alla sua morte, abbiamo compiuto il percorso. Ciò che posso dire a voi è che questo uomo del dubbio ha accresciuto la mia fede. Lo abbiamo udito agguerrito disputare come io stesso l’ho sentito disputare e discutere tanto da portarmi a confrontarlo con un avvocato del diavolo. Un avvocato però desideroso di perdere il processo. Andava verso Dio a marcia indietro, ma verso Dio andava. C’è il male e poiché c’è il male c’è il bene. Penso ancora una volta a Baudelaire; questi lodava Dio con le parole: "O Satana, abbi pietà della mia lunga disgrazia".
Ben presto mi è apparso che l’unico e possibile rimedio dovesse essere per lui la preghiera. Così una volta ebbi uno slancio e mi inginocchiai al suo fianco, gli presi le mani e iniziai a recitare il Padre Nostro, perché davanti alla sua disgrazia fisica e morale la preghiera, solo la preghiera, mi sembrava adatta ad alleviarlo. Miracolosamente è proprio ciò che è avvenuto. Mal conosceva le parole ed era sconvolgente assistere a questa sua disperata ricerca di parole dimenticate dall’infanzia, mentre io cercavo di colmare le lacune. Dopo il Padre Nostro recitammo una Ave Maria e qui assistetti alla trasfigurazione del suo volto. La veemenza di colui il quale intentava un processo a Gesù Cristo si è trasformata nella sottomissione di un bambino: dolce, amorevole, tranquillo, rappacificato. Ricevetti due giorni dopo una telefonata con la quale mi chiedeva di tornare a lui. Temevo di averlo forse disturbato ma Dio gli si era manifestato e da allora in ogni nostro incontro l’ultima parola è stata la preghiera. A poco a poco la Signora Ionesco e la figlia hanno cominciato a partecipare a queste riunioni e ogni volta abbiamo assistito al medesimo fenomeno. L’ultima volta Ionesco era così rappacificato da addormentarsi beatamente; quando l’ho trovato morto il suo viso era sorridente come l’avevo trovato l’ultima volta che lo avevo visto da vivo. Pareva, ed egli stesso ne conveniva, che ogni volta che prendeva la penna doveva appoggiarsi a se stesso, l’orgoglio tornava a dominarlo, mentre, facendo tacere la sua ragione e inclinandosi alla preghiera, la grazia agiva e prendeva il soppravvento. L’umiltà lo faceva più grande e questa è la lezione che mi ha insegnato.
Gabriel Liiceanu, docente presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Bucarest e direttore della Casa Editrice rumena "Humanitas"
Liiceanu: Ho avuto la fortuna di conoscere Eugène Ionesco in occasione di questa intervista nell’età del suo crepuscolo. Il crepuscolo è la luce che prima di spegnersi si interroga sulla propria essenza, sull’essenza del giorno e sulla essenza della propria morte, sulla essenza della notte e sulle tenebre. Il crepuscolo non è altro che la disperazione della luce nel confronto con la prospettiva della propria fine. Il crepuscolo è il momento patetico della luce. Lo Ionesco di questo filmato è uno Ionesco crepuscolare, patetico e disperato, letteralmente torturato da due problemi che l’hanno perseguitato per tutta la vita: il problema della morte e il problema del male. Questi due problemi convergono nel problema supremo della fede e dell’esistenza di Dio.
Il problema della morte. Si muore. L’uomo, in qualità di padrone di questo mondo, in qualità di padrone del visibile, muore. Come si può morire? Sono 7.000 anni che l’umanità civilizzata non impara a morire e sono 7.000 anni che l’umanità non smette di lamentarsi e di porsi questo interrogativo: come è possibile la morte?
È opportuno ricordare qui l’ultima supplica in Il Re muore per rendersi conto di quanto grande sia stata l’ossessione di Ionesco su questo tema. "Voi innumerevoli che siete morti prima di me, aiutatemi. Ditemi come avete fatto a morire, ad accettare. Insegnatelo anche a me. Fate che sia consolato dal vostro esempio, che possa appoggiarmi su di voi come su stampelle, come su fraterne braccia. Aiutatemi a varcare la porta che voi avete varcato... Aiutatemi voi; che avete avuto paura e non avete voluto. Come è accaduto questo? Chi vi ha sostenuto? Chi vi ha preparato? Chi vi ha spinto? Avete avuto paura fino alla fine? E voi, che foste forti e coraggiosi, che accettaste di morire con indifferenza e serenità, insegnatemi l’indifferenza, insegnatemi la serenità, insegnatemi la rassegnazione".
Ecco lo scandalo della morte. Ma nella stessa misura in cui esiste lo scandalo della morte, nella stessa misura esiste lo scandalo della vita. "Perché allora c’è l’essere e non, invece, il nulla?" Lo scandalo di entrambi esplode proprio a causa della collisione tra la morte e la vita, proprio perché entrambe esistono: la morte e la vita. Questo, Ionesco lo sapeva molto bene. Tra lo scandalo della morte e lo scandalo della vita Ionesco non ha fatto una scelta: li ha vissuti tutti e due. Perché solo il contatto fra i due fa emergere di fronte a noi l’altro scandalo: lo scandalo del male.
Ad un certo punto del dialogo dice Ionesco: "Infatti, perché bisogna morire, invecchiare, perché bisogna soffrire, perché aspettare, sopportare l’ingiustizia, perché bisogna che l’ingiustizia esista al mondo? Guerre, guerre da migliai di anni. Si ammira un mare blu, splendido e si pensa che due metri più sotto si perpetua una guerra spietata, i pesci si divorano l’un l’altro. Non riesco a capire perché l’universo sia così, perché sia stato fatto in questo modo. Ecco la mia domanda, la mia unica domanda: Dio esiste? O no?" A questo punto sorge il grande problema del dialogo che è allo stesso tempo il punto di incontro tra Ionesco e Dio: come si fa a conciliare l’esistenza di Dio col male nel mondo, con il crimine, la sofferenza, l’invecchiamento e la morte? Se Dio è buono, come può il mondo essere cattivo? Ma allora dal momento che il mondo è cattivo, anche Dio è cattivo; è il cattivo Demiurgo dei Borgomili, dei Catari e di Cioran?
A questo punto, la persona che lo intervista chiede: "Non si è mai chiesto come è possibile che il male tanto vigoroso e il bene, tanto fragile – il bene, diceva Kierkegaard, ha come alleati solo "le fragili forze dell’eternità" –, come mai allora il male non domina il mondo in modo definitivo? Come mai il mondo non diventa un impero del male? Come mai il mondo non riesce ad essere completamente demonizzato? "È un mistero", risponde Ionesco. Un mistero. Un mistero l’esistenza del male, un mistero la coesistenza di bene e male, un mistero lo scandalo del male, ma anche lo scandalo del bene, un mistero lo scandalo della morte come è mistero lo scandalo della vita. Usando questa parola, mistero, e chiedendo la chiave del mistero, Ionesco scopre e accetta l’esistenza dell’ambito delle cose vaghe e, con questo, il problema della responsabilità suprema.
Permettetemi di fermarmi su questo punto perché credo che la posta in gioco di quest’ultimo dialogo con Ionesco, sia quella della responsabilità ultima. Nel nostro mondo contemporaneo si parla molto del problema della responsabilità. La parola rischia di svuotarsi di significato. Se responsabilità esiste, vuol dire che qualcuno pone le domande, e un altro, il responsabile, è lì a rispondere. Ma su cosa si fanno queste domande e si risponde a che cosa? E poi: chi è la "persona" che fa le domande e la persona che risponde? Quando si ha la responsabilità, si è liberi. Solo un essere libero può essere responsabile. L’uomo è l’unico essere responsabile perché è l’unico che sia libero. Quando si discute della responsabilità, si intende sempre l’utilizzo della libertà: che cosa hai fatto della tua libertà? Come l’hai utilizzata? Ma se nel problema della responsabilità il dialogo porta sull’utilizzo della libertà, chi fa la domanda, e chi, come responsabile, risponde? La persona che risponde sono sempre io, perché solo io, in quanto essere responsabile, e in quanto soggetto della mia libertà, posso dare la risposta. E chi fa la domanda? Tre soltanto sono le istanze che permettono di porre la questione.
La prima istanza sono gli altri. Gli altri possono interrogarmi su un certo aspetto della mia libertà nella misura in cui questo aspetto li riguarda, li implica, e li incontra. La seconda istanza che pone la questione sono io stesso. Sono io stesso che, di tanto in tanto, talvolta in modo inatteso e sorprendente, mi pongo la domanda sull’utilizzo globale della mia libertà: cosa ho fatto con la mia libertà della mia vita? Come l’ho utilizzata? Sono riuscito a dare alla mia vita un contorno, sono riuscito a crearmi la coerenza di un destino? La mia vita è una cosa compiuta o un fallimento, e si innalza dinanzi a me come una prova inevitabile del fallimento della mia libertà? In questo caso rispondo sull’utilizzo globale della mia libertà davanti a me stesso, alla mia vita, alla mia coscienza.
La terza istanza che pone la domanda sull’utilizzo della libertà è la fonte stessa da cui la mia libertà proviene. Io, come essere libero, non ho scelto la libertà, non ho scelto di essere, non ho scelto di essere cosciente di essere, non ho scelto di essere un essere finito e quindi di morire e non ho neppure scelto la libertà. Tutto questo e perfino la capacità di scegliere precede la mia scelta. Tutto questo mi è dato. È qualcun altro che mi ha dato tutto. E questo qualcun altro è la fonte della mia libertà. Ma questo altro mi ha dato la libertà senza alcuna discussione. Non ho chiesto il dono della libertà e il senso di questa donazione mi sfugge. Come è possibile che costui, la cui identità mi è ignota, mi abbia dato la libertà? Che debbo fare di questa libertà che mi è stata data? Come potrò rispondere di qualcosa che mi è stato dato senza che io l’abbia chiesto e senza conoscere né l’identità del donatore né il significato della sua donazione? Ma d’altra parte, voler evitare questa questione significherebbe collocare la libertà e tutta la mia esistenza, sul terreno dell’assenza di significato. Riconoscere il carattere assurdo di questa concessione della libertà potrebbe, certo, assolvermi dall’obbligo di dare una risposta e, quindi, di essere responsabile. Invece, il carattere necessario di questa connessione – tra la donazione, il donatore, e il senso della donazione – si impone da sé e mi obbliga a riflettere sull’esistenza di un senso e sull’obbligo di fornire una risposta. E, se anche nell’assenza di un contratto, si aspettasse da me una risposta? Se, evitando di riflettere su questa risposta, io fossi colpevole? Se, in circostanze che ignoro totalmente, colui che mi ha fatto la concessione della libertà mi domandasse: "Cosa hai fatto della libertà che ti ho dato?" Questa volta è Dio che mi fa la domanda sull’utilizzo della mia libertà.
Se nel primo caso della responsabilità incontro gli altri, se nel secondo incontro il mio io e la mia coscienza, nel terzo incontro Dio in quanto fonte della mia libertà. Ma ecco: via via che la mia libertà e la mia responsabilità aumentano, via via che esse si dilatano, l’identità di colui che pone la domanda e di colui che dà la risposta perde i contorni.
Nel primo caso della responsabilità, colui che pone la domanda è un mio amico, mio figlio, mia moglie, il mio capo, la società. E io rispondo da padre, da amico, da marito, da dipendente, da cittadino. Nel secondo caso né la mia coscienza che domanda, né io che rispondo, abbiamo più la stessa identità precisa rispetto al caso precedente. Nel terzo caso ci troviamo nell’ambito del vago assoluto: né colui che pone la domanda e giudica, né colui che risponde, né le circostanze del dialogo sono più identificabili. Ma la posta in gioco è enorme: la posta in gioco non è la mia condanna morale o giuridica, ma la mia dannazione. La posta in gioco non è parte della mia vita o la mia vita tutta, ma l’eternità.
In questo caso la responsabilità cambia sul piano esistenziale: messa a confronto con la sua fonte, la libertà viene vissuta nelle sue conseguenze infinite, che oltrepassano il piano della nostra vita e il limite umano, e si collocano in un’altra regione. Tutto, adesso, si sposta nella "irrealtà" o in una realtà in cui i dati del problema si modificano in modo fondamentale: che ne è di quell’"io" che ha valicato l’ambito della propria vita e si è lasciato alle spalle gli altri "io" della vita di tutti i giorni?
In questo terzo caso io, a cui viene chiesto di rispondere, io non sono altro che libertà, non sono altro che il portatore di questa libertà ricevuta. Qual è in questo caso la mia responsabilità? È la responsabilità che ho nei confronti della mia libertà. Avere responsabilità nei confronti della propria libertà significa percepirla nella sua qualità di dono, e non di fardello; interrogarsi sulla sua fonte e sul donatore della libertà, porsi la domanda del suo giusto utilizzo, e soprattutto amare la libertà. "Amare la libertà" non significa amare quello slancio insurrezionale che determina gli individui e popoli quando si sollevano contro coloro che delle loro libertà li hanno privati. Perché questo senso dell’amore e della libertà sia possibile, bisogna innanzitutto che l’amore della libertà esista, cioè che io possa traspormi, con i miei limiti, in qualcosa di illimitato che possa traspormi in qualcosa di vago. Proprio perché l’amore della libertà esiste, io sono capace di traspormi in qualcosa che non ha un volto preciso, nella fonte della mia libertà, nella responsabilità suprema e nella paura del giudizio ultimo. Proprio perché l’amore della libertà esiste io posso trionfare con il mio senso del vago su tutto quello che mi fissa nella determinazione del mio essere e che mi trattiene nell’ambito del preciso.
Io credo che Ionesco abbia amato la libertà, e che abbia avuto il senso della responsabilità suprema. Proprio perché ha amato la libertà e ha avuto il senso della responsabilità suprema ha potuto trasporsi nella qualità di essere uomo e di trasporsi in ogni essere umano. Proprio perché ha amato la libertà ha potuto trasporsi nella morte, nell’amore e nella libertà. Proprio perché ha amato la libertà, ha potuto trasporsi nel dubbio, nella paura e nell’inquietudine. Io credo che Ionesco abbia avuto il senso della responsabilità suprema e che per tutta la sua vita si sia preparato a porre delle domande ultime, delle domande relative a cose vaghe. Le cose vaghe, le più vaghe forse, sono l’uomo, Dio, la libertà. Il vago è il contrario del preciso. Il vago è ciò che resta dopo avere attraversato uno spazio disseminato di limiti. Il problema che si pone è come si possa poi percorrere i gradini del preciso per accedere alle cose vaghe. Io credo che Ionesco sia entrato nello spazio delle cose vaghe e che abbia avuto la grazia di poterci invitare ad accompagnarlo in questo viaggio ultimo.
Fernando Arrabal, drammaturgo e regista teatrale francese
Arrabal: Sono molto felice di trovarmi qui al Meeting in questa città di Rimini, e soprattutto oggi, che si rende omaggio al massimo drammaturgo del nostro secolo: Ionesco. Il suo è quel che potremmo chiamare uno schema difficile e pieno di dubbi che ci porta a Dio. Penso tuttavia che potremmo anche fare l’elenco delle innumerevoli volte che Dio gli si è rivolto, col sogno, o con la premonizione, sì che appare che Dio abbia costantemente detto a Ionesco: Alzati e sogna!
Negli anni sessanta in Thailandia, entrò in un tempio, dove c’erano un centinaio di Buddha, ed ebbe l’impressione che uno di questi Buddha lo guardasse e gli sorridesse. Uscendo dal tempio il funzionario dell’Ambasciata di Francia aveva spiegato a Ionesco che davvero uno dei Buddha si era inchinato. E un’altra volta, a Bucarest, una ventina d’anni fa aveva avuto, Ionesco, una premonizione; in piena notte aveva gridato a Rodica: "C’è un terremoto! non lo senti?" Ma il terremoto non c’era e Rodica non sentiva nulla. L’indomani ci fu davvero un terremoto.
Un giorno si trovava a Bucarest ed era a passeggio con un amico, d’un tratto un albero cadde alla sua destra, mancandolo per un pelo, qualche mese dopo, nello stesso parco, un altro albero si adagiò davanti ai suoi piedi.
Il male si rivolgeva a Ionesco con fare comico, anche il bene. Un giorno si trovava in Portogallo e un bambino poverello gli chiese del denaro, e Ionesco gli diede una moneta da cinque franchi; più tardi Ionesco trovò per terra una moneta da un franco, e disse: "Dio vuole proprio scherzare con me, aveva promesso cento a uno, e me ne dà uno per cinque".
Ancora una volta Dio gli annunciò un avvenimento che doveva verificarsi: Rodica era diventata professore di filosofia in un piccolo villaggio della Romania, e Ionesco con Rodica si affacciano al balcone per guardare il panorama. Tornati in casa il balcone crolla. E poi c’è un’altra storia straordinaria. Marie-France era ammalata, Ionesco si trovava a Parigi senza denaro quando tutto ad un tratto trova per strada tremila franchi, e quando va a comprare il giornale questi tremila franchi gli vengono rubati (la storia in realtà è ancor più straordinaria, ma non voglio affaticarvi con questo racconto).
Dio è presente nei suoi sogni (Alzati e sogna!) ma anche il diavolo e gli arcangeli. Non so come vada interpretato Jean Paul Sartre, ma Jean Paul Sartre si trova una volta in un sogno di Ionesco. Sono in un teatro vuoto, e Ionesco si rivolge a Sartre dicendogli: "Che fiasco! vedete bene, non c’è neanche uno spettatore". Sartre risponde: "Ma, guardate verso l’alto, la piccionaia è piena zeppa". Ionesco in quella ammette: "Non ho mai capito la vostra opera, non l’ho mai apprezzata", ma siccome anche in sogno egli è misericordioso, gliene chiede scusa, e Sartre gli risponde: "Troppo tardi!" Questi sogni, queste premonizioni, questa presenza di Dio hanno inizio ai tempi in cui egli si trova ancora in Romania e Ionesco ne scrive in un suo lavoro, che secondo me è il migliore, Le vittime del dovere. Ecco come, prima di compiere vent’anni, Dio si presenta già a Ionesco. Dice Ionesco: "È una mattinata di giugno, respiro un’aria più leggera dell’aria, e sono io stesso più leggero dell’aria, il sole si dissolve in una luce più grande del sole, ed io attraverso ogni cosa, le forme scompaiono, io salgo, salgo. Una luce si versa sul fondo e luminosa nelle tenebre in una calma di sogno, compare una città miracolosa, compare un giardino miracoloso, compare una fontana, e giochi d’acqua, e statue luminose. Continenti incandescenti in oceani di neve". Vedete, Ionesco sogna, Ionesco ha delle visioni, e tutto ciò è assai simile a San Giovanni della Croce o a Santa Teresa D’Avila. Ma concluderò continuando con questo lavoro, Le vittime del dovere. Compare anche il diavolo, forse non era d’accordo che io lo dicessi, ma io credo che il diavolo si incarna in un poliziotto materialista, che poi rappresenta anche il padre, un padre che aveva maltrattato Eugène, un padre che gli dice: "Non verrai a scocciarci con queste tue cose!" Mentre la madre Maddaleine dice al padre, al diavolo: "Ma sei un essere ignobile, mi hai fatto invecchiare, mi hai distrutta, non ti sopporto più, mi hai proprio stufato!" E il padre freddo, diabolico, risponde: "Non capisci niente della vita, e stufi tutti tu". È un lavoro straordinario. Il combattimento con il diavolo è fatto sul filo delle parole, e a suo padre egli dice: "Padre! Noi non ci siamo mai capiti, mi senti, padre? Io ho odiato la tua violenza, il tuo egoismo, tu mi battevi e io dovevo vendicare mia madre, ma a che serve la vendetta, è sempre il vendicatore a soffrire". E qui assistiamo ad una terribile confessione del padre di Ionesco, e si capisce perché la bontà l’abbia sempre così pervaso. La cattiveria è un’altra fase della bontà, eccola. Il padre gli dice: "Io fui soldato, e costretto a partecipare al massacro di decine di migliaia di soldati nemici, di popolazioni, di donne, di anziani, di bambini" (bisogna sapere che a parlare è un funzionario della polizia comunista). Alla fine udiamo parole straordinarie, queste: "Non avrei voluto avere un figlio, non avrei voluto avere discendenza", aggiunge il padre, "avevo cercato di impedire la tua venuta al mondo". Greve del peso di questa condanna, egli ha scritto, vissuto, gridato e trionfato (Alzati e sogna), sempre in cerca della tenerezza nascosta delle cose.
Paolo Fabbri, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Parigi
Fabbri: Vorrei sottolineare due cose: da una parte il tema della libertà e della responsabilità che ci ha proposto Liiceanu, ed il fatto della loro conduzione, se oso dire, senza ripieghi. Trovo questo molto importante, come è importante in qualche misura oggi di essere stati riuniti non a proposito di una commemorazione di Ionesco, ma in qualche modo di un progetto intellettuale e culturale in cui sulla sua linea si iscrive la parola di un drammaturgo come Arrabal.
Nella storia della filosofia occidentale, almeno, ci sono due grandi modi di pensare alla morte. La morte come senso, o come fine della vita, a partire dalla quale tutta la vita diventa rileggibile nell’ultimo minuto, perché il senso viene dalla fine. È un’immagine esistenziale e la ritrovate in gran parte del modo di pensare della filosofia, ma anche nella vita quotidiana.
C’è un altro modo di pensare alla morte, cioè di pensare alla vita come un progetto che la morte spezza. Chiunque pensi in questo secondo modo può pensare che c’è un senso al di là della morte, senso che può essere immanente o può essere trascendente, ma in qualche modo si accompagna ad una immagine della vita come progetto. La morte in questo caso introduce una specie di nostalgia di un progetto non compiuto, però si definisce come la possibilità di un passare ad altri: possibilità che altri riprendano la tua parola, e fa della tua ultima parola una parola penultima, cioè una parola aperta a che altri la raccolgano.
Il primo tipo di morte è una morte più stoica, nessuno parlerà al mio posto, nessuno può soffrire al mio posto: è evidente la scelta tra questi due tipi di morte che fa Ionesco: voglio sapere come, cosa, quando nell’aldilà qualcuno verrà e risponderà; è un secondo tipo di morte che prevede una nostalgia della vita, ma nello stesso tempo chiede la chiusura di un progetto di significato. Il secondo punto che mi interessa molto e che è stato sviluppato da Arrabal, è quello della comicità del male e della comicità del bene. Questa è un’idea fondamentale perché Ionesco non si esprime solamente per concetti, ma anche per esempi. Nell’intervista le belle idee non emergono da Ionesco, ma da un dialogo: ho notato due o tre cose curiose, per esempio Ionesco si interessa al fatto che Salacroux ha inventato una storia in cui si nasce vecchissimi, poi progressivamente si diventa bambini e si muore bambini. Questo divertiva Ionesco, questa inversione. L’ironia oggettiva della vita, l’ironia oggettiva del male: questo lo affascinava, non solo l’esplorazione metafisica, ma anche questa specie di ironia oggettiva delle cose. Vi dò un esempio, che certamente ha divertito a suo modo Ionesco, cioè l’idea che il comunismo sia crollato nelle forme esatte in cui Marx aveva previsto che sarebbe crollato il capitalismo. L’impoverimento progressivo, la rottura improvvisa, l’aumento improvviso delle catene e la restrizione del potere nelle mani di pochissimi, dovevano segnare la fine del capitalismo, invece così è finito il comunismo, almeno nella sua versione dell’Europa dell’Est. Questa ironia della storia oggettiva, che è un’ironia del male, affascinava un uomo come Ionesco, nel cui lavoro c’è un pensiero per figure che mi affascina. Per questo le osservazioni di Ionesco sul male e su Dio, che sono state messe in luce così chiaramente da Liiceanu, lo portano ad una serie di affermazioni paradossali ed ironiche, di cui ho tentato di fare brevemente una piccola lista. Come è fatto Dio? Ovale, risponde Ionesco. Legge il Vangelo di San Marco, e dice: "Non mi piace, è socialisteggiante". "Dio non ha forse il controllo di tutta la creazione? Per questo sarebbe bene che la correggesse, non mi piace quel che ha fatto, e se la modificasse un po’, non sarebbe forse meglio?" "Dio dice che pochi sono gli eletti rispetto agli uomini, dunque c’è un elitismo di Dio".
"E se la Creazione fosse un’enorme sciocchezza"? "E se il sogno di Dio fosse un incubo"? "Sì, accetto il Paradiso, ma alla condizione di poterci andare insieme con mia moglie e con mia figlia, non voglio andarci da solo". "Mi piace Cristo soltanto perché è mio fratello e perché ha la mia stessa immagine, il mio stesso viso, cioè un uomo. Dio deve essere in qualche misura persona, viso, figura, non deve essere un principio astratto". Tutte queste proposizioni, in sé eretiche, sono un modo straordinario di pensare all’ironia oggettiva del male, in un modo in cui il bene in qualche misura è cercato e voluto. Chiudo con una osservazione che mi lascia un po’ perplesso.
Chiudo soffermandomi sull’immagine della rinocerontizzazione del mondo, il fatto di un mondo che diventa sempre più malvagio, dove c’è la guerra, dove tutti siamo pieni di buone intenzioni, ma per l’eterogenesi dei fini, finiamo tutti per fare il male, volendo fare il bene. Ecco il rinoceronte che appare, ecco perché il linguaggio si fa rinocerontico. Ora, contro questo linguaggio dei rinoceronti, contro il totalitarismo, l’aggressione, la guerra, il dolore, il male, ecc... non bisogna mai abbandonare la posizione di Ionesco, che è una posizione di responsabilità e di libertà.
Però c’è un ulteriore pericolo, che vorrei segnalare, c’è il rischio che il male stia diventando trasparente per un eccesso di vittoria del bene. C’è nella ragione e nella fede di oggi un livello così basso, che ci si domanda dove sia andato a finire, cosa che si domandava sempre Ionesco, il male. Siamo così tutti d’accordo che non bisogna uccidersi, che bisogna essere tutti buoni, che bisogna credersi tutti fratelli, che poi siamo del tutto stupiti che esista invece la morte, l’assassinio, il crimine, la crudeltà. Apriamo la televisione e siamo spettatori assoluti del male, e poi cominciamo a parlarne e produciamo fra di noi un consenso del bene. Uno dei trucchi è di dire che i cattivi sono altri. No, gli altri sono nostri fratelli, compresi i cattivi. In altri termini, che cosa sta succedendo oggi? Sta succedendo che la produzione di consensi, la produzione di razionalità sta schiacciando il fatto che in un mondo così depurato, il male si ripresenta in maniere assolutamente drammatica tanto che nella nostra epoca chi abbia il coraggio di dichiarare "Io sono il male" ha un enorme successo sui mass media e sui giornali: il male solo fa notizia. Noi siamo tutti intenti a dichiarare che il mondo deve essere buono e siamo affascinati soltanto dal male, dagli incidenti, dalla violenza, dalla morte ed è la sola cosa che guardiamo, perché è la sola cosa che diciamo che non c’è. Questo principio di negatività che sta fra noi, lo si chiami male, negativo, ciò che sta scomparendo nella nostra epoca. Per un lungo periodo il marxismo, l’hegelismo, hanno comunque tentato di pensare, e dobbiamo riconoscerlo, il problema del negativo. In un mondo di questo genere il rinoceronte è diventato una specie protetta. Questo è un altro paradosso che avrebbe affascinato Ionesco: come mai oggi i rinoceronti da pericolosi diventano protetti? Il male di oggi è il risultato che rifiutiamo di pensarlo, il fatto che il rinoceronte è diventato trasparente, virtuale, una immagine da televisione. Questo, forse, parlando, continuando e riprendendo la parola di Ionesco, potrebbe essere anche una indicazione; su questo credo che Ionesco abbia in qualche modo, nella radicalità di questa domanda, continuato a suggerirci che o nell’immanenza di questo mondo o nella trascendenza dell’altro, c’è una domanda che deve restare radicalmente aperta sul fatto che, come si diceva normalmente, l’uomo ha i difetti delle sue qualità.
Liiceanu: Vorrei riassumere il mio pensiero in tre proposizioni.
Vi sono due categorie di questioni o di domande, vi sono domande che ricevono risposta e ve ne sono altre che non ricevono risposta alcuna. Per esempio quando io chiedessi: "Dov’è la stazione in questa città?" è certo che avrò risposta. Se come scienziato, chiedessi: "Qual è la distanza fra la terra e la luna?" può darsi che con il mio lavoro riesca ad avere una risposta, ma vi sono domande che vengono rivolte nella consapevolezza del fatto che non hanno risposta. Per esempio le domande di cui ho parlato nel mio breve discorso: "Che ne sarà di me dopo la morte?" ed in genere tutte le domande che avete udito nell’intervista di Ionesco: "Dio esiste o no?" "Perché esiste il male nel mondo, perché la sofferenza?". Ebbene, solo coloro i quali hanno incontrato Dio in un modo o nell’altro, si pongono domande di questo genere, consapevoli del fatto che le risposte non possono essere date e reciprocamente quando ci si pongono domande senza risposta, in un modo o nell’altro, si incontra Dio. La lezione di Ionesco è proprio questa: di avere il coraggio di porre le domande alle quali non si può ricevere risposta.