Il pluralismo sociale e istituzionale nella riforma dello Stato
In collaborazione con Unioncamere
Giovedì 22, ore 18.30
Relatori: Vannino Chiti, Roberto Formigoni,
Danilo Longhi, Presidente della Regione Toscana Presidente della Regione Lombardia
Presidente Unioncamere
Longhi:
Nel dibattito sui temi sulla riforma dello Stato si sono inserite anche le Camere di Commercio italiane, istituzioni che hanno radici lontanissime nella storia del nostro paese, e che soltanto nel 1993 hanno visto una legge di riforma che le allinea come enti e istituzioni al servizio delle imprese. Le Camere di Commercio svolgono la loro attività in funzione degli interessi di cinque milioni di imprese italiane. Proprio per questo il mondo camerale desidera avere voce nella questione della riforma dello Stato.Sicuramente i cinque milioni di imprese hanno contribuito enormemente a porre in crisi lo Stato in quanto tale, perché l’impresa, abituata a confrontarsi con altre imprese non solo europee ma mondiali, può misurare compiutamente il livello dei servizi che la Pubblica Amministrazione le offre; inoltre nel 1948, quando fu approvata la Costituzione, le imprese non erano certo cinque milioni, ma un fatto molto elitario, quindi la Costituzione del ’48 non teneva presente la cultura del rischio ormai così diffusa nel nostro paese.
Le Camere sono favorevoli al federalismo e quindi a una nuova riarticolazione dello Stato, salvaguarda dando l’unità nazionale, senza con ciò arrivare alla emarginazione di alcune aree. Questa riarticolazione dello Stato non può essere soltanto un travaso di poteri dallo Stato centrale alle Regioni e agli Enti locali, ma deve essere anche una riarticolazione del potere, che tenga conto di alcune realtà istituzionali, soprattutto di Enti funzionali quali le Camere di Commercio stesse o le Università, o Enti gestori di nodi strutturali del paese. Questi Enti funzionali infatti hanno un potere ormai molto rilevante, che non può essere trascurato e che deve essere regolamentato dentro un quadro di controllo politico.
È questo quello che chiede il sistema camerale: avere dei poteri per quanto riguarda le funzioni al servizio delle imprese come delega dello Stato e delle Regioni, dentro un quadro di dirigenza che veda la Regione come momento politico decisionale sul territorio e quindi titolare degli indirizzi e delle strategie complessive da dare per lo sviluppo del territorio stesso. Quindi le Camere sono favorevoli a una riarticolazione dello Stato sulla base di un federalismo sia delle autonomie sia fiscale, ma che consideri anche le realtà funzionali come completamento logico di una nuova forma di Stato.
Chiti: Cercherò di rispondere a tre domande: perché oggi è necessaria una riforma federalista del nostro Stato, quali ne sono i contenuti essenziali, e come tutto ciò riguarda la società e i cittadini.
Il centralismo del nostro Stato ha ucciso l’efficienza, ha reso difficili i rapporti tra cittadini e istituzioni in tutte le aree del paese, e non ha certamente realizzato la coesione unitaria dell’Italia: oggi le differenze sono non meno grandi di quelle che vi erano alcuni anni fa. Ma non è soltanto un problema italiano: la spinta verso il federalismo è un processo che riguarda tutta l’Europa, che impone la modifica delle istituzioni, la riorganizzazione dei singoli Stati nazionali ed anche un riassetto della vita economica, della cultura, e dell’informazione. Per questo c’è bisogno da un lato di istituzioni nuove e più forti a un livello sopranazionale, di una Unione Europea che non sia soltanto un grande mercato economico e finanziario, ma qualcosa di più; dall’altro di una modifica della nostra politica che ci consenta di padroneggiare con una riforma il cambiamento degli Stati nazionali.
Quali sono i contenuti essenziali della riforma? La Commissione bicamerale è stata istituita per affrontare la riforma del titolo V della Costituzione. L’obiettivo della riforma – è il federalismo, cioè una redistribuzione dei poteri che oggi sono concentrati nello Stato centrale. E questi poteri sono: quello giudiziario, che non è il caso di redistribuire, quello legislativo, che invece è il caso di ridistribuire, e quello relativo all’ordine pubblico, che probabilmente in questa fase non è opportuno redistribuire, pur essendo possibile a redistribuirsi. La redistribuzione del potere legislativo comporta un nuovo patto tra gli italiani, le Regioni, gli Enti Locali e lo Stato centrale, che precisi quali sono i poteri legislativi e dunque i compiti di governo che rimangono allo Stato centrale – a parere mio e di molti altri, sono la politica estera, la difesa, la giustizia, la moneta e in questa fase anche l’ordine pubblico – e che faccia assumere gli altri poteri alle Regioni, Regioni nuove con funzioni legislative e di governo, non solo amministrative. Nel contempo bisogna che si riorganizzi il Governo centrale e i Ministeri e che si superi il Bicameralismo perfetto per avere al posto del Senato una Camera delle Regioni.
L’ultima considerazione è che il cambiamento dello Stato da centralista a federalista non riguarda soltanto le istituzioni ma anche la società: insieme a una dimensione sopranazionale prende forza una dimensione locale, che non è solo di identità e partecipazione ma anche di sviluppo economico a livello locale, di riorganizzazione dei servizi sociali. Qui entrano in gioco istituzioni quali le Camere di Commercio, le organizzazioni economiche, sindacali e culturali, le associazioni del volontariato e del settore non-profit... insomma, tutte le istituzioni che lavorano nell’ambito della sussidiarietà.
Le istituzioni, sulla base delle loro competenze, hanno il compito di indirizzare le risorse, di fissare le priorità e gli obiettivi fondamentali che le diverse coalizioni politiche che vinceranno una volta o l’altra le elezioni vogliono realizzare, affinché ogni cittadino italiano possa ricevere alcuni servizi di base nella scuola, nell’assistenza sociale, nella sanità. I modi in cui questi servizi si danno saranno i più diversi, nel rispetto del pluralismo: le istituzioni devono controllare che il minimo sia destinato a tutti e che ci siano per tutti le pari opportunità stabilite e la qualità di quello che viene dato.
Formigoni: Su un tema come quello della riforma dello Stato, l’esigenza maggiore oggi è quella della chiarezza: per questo cercherò di essere schematico.
Il primo punto dello schema è un’affermazione molto chiara: così come sono le cose non si può più andare avanti, perché in questi anni il dominio assoluto dello statalismo e del centralismo ha sfigurato il volto di questo paese. Siamo il paese d’Europa con l’economia più socializzata, abbiamo un sistema scolastico e universitario totalmente fondati sullo Stato, abbiamo mortificato l’iniziativa che nasceva dal basso, e abbiamo creato quella voragine di debito pubblico che tutti conosciamo. Riforma e cambiamento sono indifferibili, nel rapporto tra lo Stato e il cittadino e quindi nella forma dello Stato, riconoscendo che il mondo è cambiato, che non esistono più gli Stati nazione, che tutto il mondo e l’Europa soprattutto è in marcia verso una valorizzazione delle realtà regionali e infine che siamo in un momento dominato da un’ansia grande di libertà, di protagonismo sociale, in cui la persona, le aggregazioni, i movimenti, i soggetti sociali, le realtà dal basso, possono cambiare realmente le cose.
Questa riforma – e passo subito al secondo punto – deve basarsi sul riconoscimento della libertà e dunque sul primato della persona e di tutto ciò che dalla persona nasce, in tutte le forme aggregative che le persone scelgono. La parola "federalismo" oggi così in voga su questi temi, coglie il suo momento di verità se parte esattamente da qui. Il primo federalismo è il federalismo dei soggetti sociali. Il primato nel riconoscimento dell’autonomia, prima ancora che essere dato alle comunità locali va riconosciuto ai soggetti sociali che operano in una dimensione locale o sovralocale. Dal punto di vista della vita della gente essere dominati da un centralismo nella capitale dello Stato nazionale o nella capitale dello Stato regionale sarebbe esattamente la stessa cosa: è una rivoluzione di mentalità che va fatta, che porti a riconoscere il primato dell’uomo, della persona sulla legge, della libertà sul regolamento che pretende di vincolarlo. Purtroppo spesso quando si parla di decentramento si parla di un diritto graziosamente concesso dal centro, che di fatto continua a comandare, ma siccome è un centro magnanimo e democratico concede che qualcosa sia governato dalla periferia... il vero centro non è il centro che governa, ma il centro che riconosce che è la periferia che vive, che crea, che è la sorgente della sovranità e del potere.
Dal punto di vista tecnico, ed è il terzo punto, tutto questo significa attuare una riforma che vada alla riscrittura della Costituzione. La Costituzione non è la Bibbia e non è un tabù, può essere riscritta e rivista senza essere accusati di lesa maestà. C’è oggi un conservatorismo drammatico che si cela dietro tutti coloro che si stracciano le vesti quando si parla di riforma della Costituzione. La Costituzione va cambiata perché è uno strumento per salvaguardare la libertà e il diritto dei cittadini. E io credo che si possa pensare al cambiamento non solo della seconda parte della Costituzione ma anche della prima. Rispetto a quando la Costituzione ha visto la luce, nel ’46-47, la situazione è cambiata, sono completamente diverse le condizioni politiche, la realtà internazionale e le organizzazioni sociali di riferimento; i partiti non sono più i partiti ideologici di 50 anni fa, sono partiti di opinione, rappresentanti di interessi. Se è cambiato tutto, forse val la pena di pensare di ridisegnare anche quel patto sociale che è la Costituzione, senza per questo distruggere – come la Francia ci ha testimoniato cambiando più volte la propria Costituzione – la nostra nazione ed il suo nucleo vitale.
Quali strumenti utilizzare in questa direzione? Ritengo – non è la via che ha scelto il Parlamento – che per cambiare la Costituzione la via maestra sarebbe o sarebbe stata quella di andare all’elezione a suffragio universale con voto proporzionale (senza principi maggioritari che creano una maggioranza anche dove non c’è!) da parte di tutto il popolo. Questo perché se si vuole cambiare il patto sociale è bene che tutti possano esprimersi. Il Parlamento ha invece scelto la forma della bicamerale, una bicamerale a cui non sono dati limiti temporali: quindi, è legittimo il sospetto che sia un escamotage per guadagnare tempo, e che si vogliano far discutere illustrissimi deputati e senatori della Repubblica per non approdare a nulla. Ecco perché almeno alcune delle Regioni hanno preso una diversa iniziativa, ovvero il referendum che è stato portato avanti dalla Regione Lombardia nella convinzione che lo strumento principe per sentire il popolo sia lo strumento della consultazione popolare. La Regione Lombardia ha proposto due tipi di referendum: il primo abrogativo, nazionale, per il quale ha chiesto alle altre Regioni – ne occorrono almeno cinque a norma di Costituzione – che depositino entro il 30 settembre alla Corte Costituzionale le richieste di referendum abrogativi. Mediante tali referendum, vogliamo abrogare alcuni dei Ministeri nazionali che hanno competenze che la Costituzione assegna alle Regioni – Ministero della Sanità, delle Attività Produttive, dell’Agricoltura e del Turismo (questi due ultimi in teoria erano già stati abrogati dai referendum del 1993...) – ed anche tutta una serie di norme che pongono dei controlli, dei vincoli statali fortissimi sulle iniziative che sorgono dal basso della società.
Il federalismo che noi vogliamo – ed è l’ultimo punto del mio schema – è un federalismo che vuole unire di più il paese, non dividerlo: ma per unire di più il paese bisogna ridare alla gente i motivi per stare insieme, tra i quali il principale è il sentirsi di più responsabili di fronte alla propria realtà. Per salvare l’unità del paese dobbiamo cambiare lo Stato, buttandone a mare la vecchia forma. Quindi, un federalismo per il nord e per il sud, perché da un federalismo serio hanno tutto da guadagnare non solo le regioni del nord, ma anche quelle del sud: un federalismo solidale.
Uno dei giorni più belli di questi tredici mesi trascorsi alla presidenza della Regione Lombardia, è stato il momento in cui la Regione Lombardia e la Regione Calabria hanno sottoscritto un patto di intesa per la valorizzazione reciproca dell’attività imprenditoriale e delle iniziative di giovani. Abbiamo voluto costruire con questa iniziativa delle società partecipate, maggioritariamente dai privati, dalle imprese, dagli esponenti delle Università, perché il futuro e lo sviluppo sta in quella direzione. Vorrei anche ricordare la battaglia che con gli amici assessori della Giunta Regionale Lombarda e tanti consiglieri stiamo facendo su un campo vitale per l’economia della nostra regione, quello delle vie di comunicazione. La Lombardia infatti primeggia in tanti campi dal punto di vista imprenditoriale, ma è la regione al 37° posto in Europa per le vie di comunicazione. Le strade sono di competenza statale, l’ANAS ha sempre stanziato grandi somme che poi regolarmente venivano tagliate ad ogni finanziaria... così, abbiamo programmmato una serie di grandi vie di comunicazione che potremo fare senza prendere un soldo dallo Stato. Abbiamo infine fatto una battaglia con tutte le Regioni per strappare allo Stato la concessione di poter aiutare noi, le Regioni, le nostre imprese all’estero. Abbiamo così ottenuto di potere avere le nostre rappresentanze a Bruxelles, per poter difendere nella Comunità Europea gli interessi dei nostri imprenditori, in modo che i finanziamenti della Comunità Europea siano disegnati non soltanto sulle esigenze dei francesi o degli inglesi ma anche su quelle dei nostri imprenditori.