La Chiesa salva l’umano
Lunedì
22, ore 11Relatore:
Sua Ecc. Mons. Alessandro Maggiolini, Vescovo di Como
Maggiolini: Innanzitutto in una prima parte vorrei mostrare come l’uomo, gradatamente, si estingue quando toglie Dio dal proprio orizzonte conoscitivo e vitale, quindi è una ricognizione della cultura contemporanea. In secondo luogo vorrei mostrare come Cristo, morto e risorto e presente nella Chiesa, si pone come il fine, il modello e la causa efficiente della piena attuazione dell’uomo, e poi vorrei fare in una terza parte qualche applicazione.
In modo disarmato gradirei annunciare fin dall’inizio la convinzione che mi muove: il Dio che è accettabile e da accettare quale motivo del recupero, della purificazione, del compimento dell’umano, è il Dio di Gesù Cristo, il Dio che la Chiesa annuncia. Questo non soltanto perché viviamo nella vecchia Europa, che ha alle spalle l’evangelizzazione, ma perché la rivelazione divina ci induce a vedere Cristo come l’uomo perfetto e il motivo, la ragione della salvezza e della promozione dell’umano.
Inizierei da De Lubac il quale nota che quando nella storia del pensiero umano, del pensiero filosofico soprattutto occidentale, entra in crisi la figura di Dio, allora anche l’uomo finisce per non trovare più la propria consistenza ed il proprio orientamento, quindi la prospettiva di lettura è una mentalità di fede, a cui non è affatto estranea né l’intelligenza né l’esperienza. Titolerei la prima parte: "La deriva dell’uomo". Farei passare alcuni aspetti del pensiero contemporaneo per vedere come Dio si appanna, si allontana, si dilegua, per poi avere il suo contraccolpo sull’uomo.
Assistiamo ad un graduale e profondo distacco dell’umano dall’universo della grazia, sia in chiave comunitaria che in chiave personale. In particolar modo ci si accorge come si intende leggere e spiegare tutto entro i limiti della ragione umana; uno degli esiti di questa pretesa è la visione teistica, cioè la visione di un Dio lontano, di un Dio che si limita a fare l’orologiaio o a dare il colpo di pollice che fa cominciare la ruota delle cose, dove Gesù Cristo non ha più il suo significato. Gesù Cristo, siccome Dio è un Dio lontano, non è figlio di Dio, ci appare come un uomo scoronato della divinità, non è più rivelatore e pienezza della rivelazione divina. Egli può come massimo essere considerato quale maestro e modello di moralità, un saggio religioso, un poeta, un lettore acuto dell’animo umano, un rivoluzionario, per altro non troppo riuscito, che si schiera dalla parte dei poveri. Qui basterebbe prendere la letteratura occidentale, da Tolstoj, a D’Annunzio, a Gide per vedere come Cristo è ridotto ad un uomo eccezionale.
Un ulteriore screditamento della ragione umana e di Dio si ha quando con il kantismo si ritiene che la conoscenza termina soltanto al fenomeno. Allora, d’ora in poi Dio non è più raggiunto nemmeno attraverso la ragione, è soltanto il postulato morale che ci fa affermare delle idee, Dio, l’io e il mondo, ma non come realtà, ma unicamente come delle affermazioni a priori di cui non sappiamo valutare la consistenza. Con l’idealismo la persona umana nella sua unicità originale scompare addirittura: quando lo spirito assoluto, attraverso la passeggiata lungo la storia, ritorna a se stesso arricchito, dispiegato totalmente, non c’è più né l’uomo come soggetto, né Dio come colui dal quale si dipende. Una variante di questo tipo di concezione è la concezione feuerbachiana secondo la quale Dio è la proiezione delle nostre aspirazioni, cioè Dio è la povertà dell’uomo capovolta che si rassegna a proiettare in Dio unicamente ciò di cui manca e di cui sente l’esigenza. Marx in fondo è in questo schema anche se identifica poi nella lotta di classe e nei rapporti economici il vero motivo della negazione di Dio.
Abbiamo invece un’altra corrente di pensiero che non si limita a considerare l’uomo come misura di Dio, ma considera Dio come il rivale dell’uomo, è la corrente che ha in Nietszche il suo precursore oppure, più vicina a noi, la corrente esistenzialistica. Qui incontriamo un ateismo che è postulatorio, proprio di chi non si preoccupa di dimostrare l’inesistenza di Dio, ma afferma la non-esistenza di Dio per poter essere come uomo. L’uomo in rivolta è l’uomo che esiste, l’uomo che accoglie è l’uomo che si rassegna; in questo senso noi abbiamo il superuomo o l’uomo in rivolta, dicevo, che è legato ad una sorta di non senso davvero paradossale e mostruoso, poiché l’uomo per poter esistere deve bestemmiare un Dio che non esiste, ma a questo punto la sua rivolta, la sua bestemmia, gli ritorna indietro come un’eco che gli fa sperimentare soltanto la propria solitudine. Oltre che postulatorio l’ateismo è assiologico perché vuole salvare e promuovere il valore dell’uomo, utilizzando la scienza e la tecnica al servizio di un messianismo terrestre. È ciò a cui assistiamo in fondo anche oggi, pensiamo al marxismo ortodosso, pensiamo al tentativo di progresso materiale illusoriamente inarrestabile che è stato all’insegna di molti sforzi compiuti nelle società capitalistiche. La morte di Dio ha aperto la strada all’assoluta fiducia di sé dell’uomo, ma la strada liberata è restata vuota.
Arriviamo ora alle concezioni che sono contemporanee a noi. Qui abbiamo due modulazioni, una prima è convinta che l’illuminismo non abbia ancora terminato di dirsi e di attuarsi nell’uomo; ecco allora che l’illuminismo fa sì che l’uomo si convinca che non ha ancora raggiunto la propria meta, l’individuo deve rimanere e avere il culto della propria finitezza, deve disincantarsi di fronte a se stesso, agli altri, alle cose, deve cancellare Dio dal proprio campo di attenzione, pensiero e amore. Soprattutto la concezione attuale chiede all’uomo di strappare l’irrequietezza dal proprio cuore: il cor inquietum di Agostino deve diventare il cor anestetizzato. L’uomo, se vuol essere tale, deve rinunciare ad affermare Dio e soprattutto deve rinunciare ad autotrascendersi per agganciarsi a Dio. Deve semplicemente accettare il suo ruolo, che è il ruolo di un Sisifo felice, cioè di uno che riporta in cima il masso, lo lascia cadere, poi lo riporta in cima ancora, lo lascia cadere, e così via. Sisifo felice, cioè deve accontentarsi dell’inutilità di ciò che va svolgendo, e questa è la finalità dell’uomo che si accontenta. In un’altra modulazione c’è chi nega ogni spunto metafisico e al più accoglie gli spunti della situazione ambiente, ed elabora qualche conoscenza soprattutto con un tipo di tolleranza che però è rispetto di tutte le opinioni, il che significa non avere nessuna opinione certa e riuscire ad elaborare un sistema etico unicamente prendendo dal passato qualche spunto convinto però che questo non è uno spunto certo: in questo senso ciascuno rimane solo e sfiduciato. Al di fuori dalla visione cristiana l’uomo è archeologia: o ci si muove su quel tipo di limitatezza del culto del finito, o ci si muove nella situazione del pensiero debole che gioca con le parole sotto le quali però non c’è l’uomo.
A questo punto, potremmo dire, abbiamo due strade per riflettere sul fatto che il Cristianesimo può salvare l’uomo: una prima strada è quella di vedere la situazione dell’uomo oggi, cioè dalle conseguenze accorgerci che l’uomo di oggi non ha più le ragioni per vivere, soprattutto non ha più le ragioni per sorridere e per sperare. La veloce ricognizione del pensiero attuale sull’uomo permette di intravvedere l’esattezza dell’assunto iniziale: la dignità dell’uomo è riconosciuta ed onorata in un rapporto ed in una dipendenza da Dio e in un orientamento a Dio, anzi in una dipendenza ed in un orientamento che in qualche modo si avvicina e partecipa alla vita di un Dio che partecipa alla vita dell’umanità. Si è passati cioè alla riduzione del Cristianesimo entro i limiti della ragione, per giungere alla rivolta contro Dio, e infine allo sforzo esausto di rendere quieto il cuore inquieto dell’uomo. Nel susseguirsi di queste tappe, la persona umana ha perso via consistenza e capacità, almeno nella riflessione esplicita e pubblica. Ma ciò che si è intuito nella filosofia articolata, può essere rilevato almeno in embrione, anche nella mentalità corrente, cioè nella sub-cultura televisiva o nella sub-cultura dei giornali e dei rotocalchi.
Il soggettivismo conoscitivo che spinge alla coltivazione del dubbio come traguardo insuperabile della ricerca nel settore teoretico, morale e religioso è all’ordine del giorno, guai ad avere delle certezze, l’imperativo è il dubbio. Perché se uno ha delle certezze allora non rispetta più l’altro, l’importante è che ad ogni avvicinamento alla verità ci si accorga e si voglia che la verità si allontani. L’individualismo rende vacua e impossibile l’autentica conversazione interpersonale. Abbiamo disimparato l’arte della conversazione, e l’arte della conversazione è innanzitutto il saper ascoltare e per poter tacere bisogna avere qualcosa da dire. Dovremmo metterci in un atteggiamento di attenzione per cui riceviamo un messaggio, ben diversamente da quanto accade nelle tavole rotonde televisive.
L’individualismo che rende vacua la conversazione porta alla frantumazione dell’io che è costretto a prendere maschere diversissime quando è al bar, quando è allo stadio, quando è al cinema, quando è in famiglia, uno, due, centomila. Perché? perché non c’è un soggetto che abbia un nerbo, non c’è una capacità di critica e di risposta, c’è semplicemente il lasciarsi prendere dalla paura pressoché patologica, quando si tratta di accertarsi chi si è. Questo tipo di manipolazione non è fatta con la violenza, ma con la seduzione e con la sloganizzazione: una frase ripetuta continuamente è una verità; se una cosa viene condivisa da molti, magari per sentito dire, non può essere contraddetta, salvo poi accorgersi di aver messo una divisa e di essere stati giocati, perché si son fatti passare dei messaggi senza che noi ne fossimo consapevoli. È diffuso questo vivere come di riverbero, la paura di riconciliarsi con se stessi, una paura che non si riesce a superare se non davanti a Dio.
L’uomo, infatti, riesce a cogliere se stesso soltanto quando s’accorge che Dio, che mi conosce fin nell’intimo, non grida allo scandalo, ma mi accoglie per quel che sono. Se Dio perdona a me di essere me stesso, allora anch’io riesco a perdonare a Dio di essere quel che è. Allora ci si mette in un atteggiamento di comunione, ed è qui che, dicevo, ci sono due strade, per mostrare come Cristo nella Chiesa salva l’uomo: il dire: "Vediamo dove vi ha condotto il pensiero contemporaneo, vediamo se l’uomo di oggi è felice!". Invece lo guardiamo in faccia e ci accorgiamo che è o arrabbiato o disperato. A questo punto dovrebbe innestarsi il discorso del credente, Péguy direbbe che andando avanti non bisognerà avere né divise né distintivi, per conoscere un credente basterà guardarlo in volto, perché se riesce a sorridere, quello è un credente davvero. Ecco allora l’uomo salvato in Gesù Cristo.
La Chiesa, questa istituzione denigrata come retrograda, autoritaria, repressiva si erge oggi sulle macerie dell’uomo per proclamarne la dignità e rendere possibile l’attuazione perfetta dell’uomo. Dicevo: o si prendono le conseguenze o si prosegue con un discorso di fede. Innanzitutto l’uomo soltanto come uomo non esiste, cioè non esiste l’uomo che sia unicamente frutto di creazione, esiste l’uomo che è stato modellato su Cristo, e allora ha dentro l’esigenza di essere liberato dal peccato ed è dal di dentro orientato a Cristo. Esiste l’uomo al tempo stesso contaminato dal peccato, ma chiamato a superarsi come creatura in Cristo. Questo significa tener conto del fatto che Dio quando progetta la storia, il cosmo, la sua evoluzione ed il suo coronamento, cioè l’uomo, ha in mente Cristo. Ne consegue che tutto è predestinato in Cristo morto e Risorto. Dio ha progettato e compiuto ogni uomo di ogni tempo, di ogni spazio, e l’intero universo avendo il Signore Gesù come causa efficiente, come causa esemplare e come causa finale: in Lui ci ha tutti predestinati ad essere suoi figli adottivi, come ha predestinato il cosmo a servizio dell’uomo e a lode della gloria divina. Voi comprendete allora che non c’è più la possibilità di dire: "Curiamo l’uomo, poi cureremo il credente"; è curando il credente che si cura l’uomo, perché la creazione rimane come primo momento e come nocciolo fondamentale della redenzione in Cristo. Se tutto è orientato a Cristo, allora noi ci accorgiamo che non esistono tre esiti: la beatitudine, la dannazione, o la natura, il limbo. Il limbo va tolto, esiste o la dannazione o la beatitudine. Perché? Perché tutti noi siamo chiamati a superarci nella dimensione creativa e a conformarci a Cristo perché lì c’è l’ideale dell’uomo, fuori non c’è. Se ciò è vero, non c’è rifolo di vento, vibrare di uno stelo d’erba o il primo vagire di un bambino che non dica ordine a Cristo. Tutto viene riassunto lì: "Cristus maxime est sapiens et amicus". È Tommaso che lo dice, e Vittorino, riportato da Agostino, esclama: "Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo". È esattamente mettendomi a paragone con Cristo, che io riesco ad intuire chi sono, e per diventare cristiano non devo mortificare l’umano, devo purificarlo, devo promuoverlo e portarlo a compimento. In questo senso la Chiesa, che non è realtà a sé, ma è realtà relativa che ha in sé Cristo, ha il compito di salvare l’umano, perché è chiamata a predicare e a donare Cristo attraverso il Magistero, attraverso i Sacramenti. La Chiesa, non soltanto in quanto realtà sacra, salvante, ma anche in quanto realtà salvata, è l’umanità rinnovata, che appartiene a Cristo e si dona a Cristo, in modo tale da diventare popolo, sposa, madre, corpo.
Qui voi comprendete come bisognerebbe che da parte nostra ci mettessimo in mente che non dobbiamo prendere la Chiesa quasi come un castigo, come se Cristo l’avesse fondata in un momento di ira mal repressa, ma è ciò che di più splendido Cristo ha potuto darci, è la sua presenza che richiede la nostra risposta. Ambrogio direbbe: "ex maculatis immaculata", Ireneo direbbe: "la santa Chiesa di noi peccatori". La liturgia ci fa dire: "Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa".
Come bisognerebbe appassionarci alla Chiesa, sapendo che si può appartenere "corpore" ma non "corde" alla Chiesa. Bisognerebbe riuscire a capire che anche nelle nostre povere scalcagnate comunità locali, dove c’è una parrocchia che vive, ebbene lì c’è il miracolo che scatta o che dovrebbe scattare. Oggi se la gente vuol vedere Cristo non basterà nemmeno il libro, dovrà guardare i lineamenti delle nostre comunità, per vedere come ci amiamo, per vedere come riusciamo ad esistere in una maniera nuova. Ma se prendiamo la Chiesa quasi come un ostacolo a Cristo cadono le vocazioni sacerdotali e religiose, cadono lo spirito missionario e lo spirito ecumenico autentici. È ovvio, se per me la Chiesa è una sorta di castigo, una tristezza, me la tengo per me, ma se per me la Chiesa è il dono più grande che Cristo mi ha fatto, allora devo annunciarlo agli altri. Signore, rendi buoni i cattivi e rendi simpatici i buoni, cioè rendici capaci (Péguy direbbe ancora che fino a trent’anni uno ha il volto che la natura gli ha dato, e dopo ha il volto che lui con la Grazia di Dio si è fatto) di dare la speranza.
Per introdurre la terza parte vorrei dare qualche esemplificazione. Mi piacerebbe ad esempio dare uno sguardo sui giovani a riguardo dei quali spesso ci si limita a esaltarne la freschezza e la forza, mentre frequentemente vivono nella paura, nell’incertezza, quasi nell’incapacità di scegliere per il futuro e tacitamente invocano un aiuto da chi ha sofferto più di loro, ma soprattutto da Cristo che li ama e che li vuole lieti e coraggiosi.
Mi piacerebbe sostare un istante sulla vita di fede e di grazia che sollecita i credenti a scuotersi di dosso l’indifferenza e spesso un qualche timore, una qualche repulsione nei confronti dell’impegno politico, perché riescano a vedere e a sperimentare il servizio ai fratelli, specialmente i più poveri, non solo in chiave economicistica, ma globalmente umana, perché trovino la forza di spendere le loro energie in una singolare forma di carità, che non si limiti al dovuto, ma si spinga anche in una zona di gratuità senza alcuna degnazione.
Dò soltanto alcuni accenni circa il compito degli intellettuali. Parto dagli studiosi che si appartano dalla vita pubblica, non parto dagli intellettuali organici gramsciani, anche se molto spesso lo sono, che si mettono al servizio di una causa per creare consenso; parlo piuttosto dei pensatori che vivono dal di dentro e al tempo stesso con un certo distacco le vicende di un popolo o di una civiltà. Costoro, soprattutto se sono credenti e vogliono salvare l’umano, hanno il compito di saper leggere la situazione storica in cui sono con sguardo ampio e lungo, analizzandone le cause e prevedendone gli sviluppi. Così possono incontrare la prova della solitudine e dell’andare contro corrente, non cambiando opinione secondo i potenti del momento e fiutando la direzione del vento, per saltare sul carro dei probabili vincitori, senza nemmeno chiedere scusa o trovare il coraggio di tacere per un po’. L’intellettuale non ha il compito di essere il menestrello del principe, il cappellano della marchesa che comanda, ma ha il compito di essere la coscienza critica della società. In questo senso gli intellettuali che servono la verità e la libertà dei fratelli richiamano l’attenzione su tutti gli uomini e sui diversi problemi umani, che non si limitano alla economia, ma si ampliano sulla questione morale sotto diversi aspetti. Qui davvero la fede può singolarmente aiutare. Io vi inviterei a leggere un libro di Forlenza, intitolato: "Cattivi maestri" (Ioppolo Editore, 1993). V’accorgerete che razza di enunciazione di intellettuali che prima erano con il ventennio, poi sono diventati per la liberazione, poi sono diventati filo-brigatisti e adesso sono qui ancora a pretendere di guidarci.
In secondo luogo la funzione degli operatori dei mass media. Qui mi limito a fare qualche domanda, per esempio: oggi dichiararsi giornalisti è titolo di merito? I giornalisti possono davvero scrivere quello che vogliono? Oppure vedono in forse lo stipendio? Oggi è davvero esistente un pluralismo? Talvolta se si osservano i giornali addirittura hanno le stesse titolature, la stessa prima pagina, sembrano fatti con la carta carbone, perché? Perché dietro sta il padrone! E non penso soltanto alla Fininvest, penso anche agli altri, che non sono da meno della Fininvest; inoltre c’è un vero dialogo, oppure c’è un dialogo quanto basta per far capire che c’è libertà? Io non dimentico un giornalista che scriveva su due settimanali dell’identica catena, e su uno firmava col proprio nome, e sull’altro con uno pseudonimo, sostenendo tesi opposte(1).
Da ultimo la struttura democratica. Dico soltanto che se una democrazia non ha un complesso di valori umani c’è il rischio che diventi tirannia perché ci si muove sulla tirannia del numero. Nel 1933 Hitler andò al potere democraticamente. Intaccato il principio del diritto soggettivo nativo, per esempio nella legge sull’aborto (dove lo Stato non deve attribuire il diritto ad esistere a chi vuole, ma deve riconoscere il diritto a chi c’è), se si tira la conseguenza, qui c’è l’inizio di uno sfaldamento di democrazia che domani darà arbitrariamente a chi vorrà il diritto di esistere.
In tale contesto i credenti hanno il compito di salvare l’umano in modo tale da fare emergere e lievitare i valori più autentici, in tutti i campi, perché se la democrazia non ha un tessuto sociale vivace, con iniziative dei gruppi intermedi (vedi art. 2 della Costituzione) a partire dalla famiglia, se manca questa vivacità della società inevitabilmente la legge o appare come un peso, cioè come una specie di vendetta, o appare come un adeguarsi della legge al costume.
Abbiamo il compito di salvare la freschezza della convivenza civile e di fare emergere iniziative che siano profetiche, in modo che l’uomo davvero abbia la capacità di sperare, non perché egli stesso se la dia, ma perché gli viene data da Dio, e abbia la capacita di servizio, umile, costante, gratuito, volontario, perché venga redenta anche la convivenza civile.
NOTE
(1) Io non posso dimenticare il giornale locale a Carpi che il 31 dicembre annunciava una veglia di preghiera del Vescovo coi giovani. Leggo la notizia con stupore perché non avevo organizzato nulla di simile. Ma fin qui passi; il bello è che il 2 di gennaio c’era la cronaca della veglia che non c’era mai stata, con il sunto dell’omelia. Pirandellianamente non c’è ciò che c’è, c’è ciò che è pubblicato!