lunedì 27 agosto, ore 15.00
RAZIONALISMO E SENTIMENTO NELLA "CITE’ INDUSTRIELLE" DI TONY GARNIER
Presentazione della mostra
Partecipano:
Sandro Benedetti:
Docente di Storia dell’architettura presso l’Università La Sapienza di Roma
Riccardo Mariani:
Docente di Teoria e Storia dell’urbanistica presso la Scuola d’Architettura dell’Università di Ginevra
Modera:
Carlo Cabassi
C. Cabassi:
L’Associazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ha con piacere, durante quest’anno, incontrato il professor Riccardo Mariani, che stava preparando una riedizione italiana della grand’opera dell’architetto lionese Tony Garnier: la "Cité industrielle". Dal rapporto con il professor Mariani è nata l’idea di questa mostra che è stata poi costruita, sia come lavoro teorico che come allestimento, dall’architetto Marco Benedettini, coadiuvato da Luigi Ranori. Questa è una mostra particolare che si collega ad una delle tematiche fondanti il Meeting di quest’anno: la ragione. C’è sembrato che l’opera di Garnier potesse fornire una sfaccettatura interessante di come una ragione aperta alla realtà possa produrre dei frutti efficaci per la società intera. Oggi vorremmo riflettere su ciò che con la mostra si vuole dire, sulle questioni che la mostra vuole porre, e per questo abbiamo qui Riccardo Mariani, che vi ho già presentato, e Sandro Benedetti, un amico di vecchia data del Meeting, un amico che ha seguito negli anni l’evolversi di questa manifestazione, in particolare modo per quel che riguarda l’architettura. La parola a Riccardo Mariani.
R. Mariani:
Grazie. La mostra è l’esposizione dell’idea di Tony Garnier su come dovrebbe essere una moderna città industriale o meglio una città del lavoro, una città operaia. (Il 99% dei critici mondiali attribuisce a Garnier la responsabilità di essere il capostipite di quello che è definito "movimento moderno", in pratica si riconosce in lui il padre di un intero movimento culturale che ancora è operante e che in ogni caso vede ancora i suoi protagonisti operare in Europa e nel mondo intero. A mio avviso, però, questo è il primo punto importante da rimuovere perché Garnier in realtà non ha niente a che vedere con il movimento moderno come lo conosciamo oggi. Garnier è sicuramente un uomo moderno e un razionalista, ma dobbiamo assolutamente attribuire un valore specifico a questi due termini, per non confonderlo con l’ondata di modernismo e razionalismo che invade quasi totalitaristicamente l’Europa e poi l’intero pianeta nel secondo dopoguerra. Perché questa distinzione? Se mi permettete, vorrei dare qualche punto di riferimento per collocare le cose. Stiamo parlando di un personaggio che è Tony Garnier, nato nella seconda metà dell’Ottocento a Lione, città operaia, città che vede i primi moti sindacali in Francia e in Europa. Un personaggio strettamente legato alla vita della sua gente. Figlio di due operai tessitori lionesi, cresce e vuole lavorare, vuole studiare e mentre studia concepisce questa Cité Industrielle. Non è un'opera d’arte, non è un’invenzione architettonica, è soltanto la risposta di un uomo che nella vita svolge la professione d’architetto, una risposta ai bisogni umani e sociali della sua gente. In questa risposta noi troviamo tutte le differenze con il successivo movimento moderno e razionalista. Garnier assume la sua cultura nell’ambiente sociale della Lione della fine dell’Ottocento, ambiente ricchissimo d’avvenimenti politici e culturali. Entra in contatto attraverso la stampa popolare di quel tempo con Geddes, urbanista scozzese, che racconta a tutti in conferenze pubbliche, in articoli molto semplici, come si concepisce un piano urbanistico. Geddes parte dall’idea che un piano urbanistico è la vita delle persone prevista e proiettata in avanti a partire da una base storica, perché la storia è il gradino per la successiva progettazione: non si può progettare il domani finché non si è interamente assunto il passato. Geddes nasce biologo e in quanto tale scrive il suo primo libro per spiegare le teorie dell’evoluzione di cui è perfettamente convinto. Trasporta poi in urbanistica questo suo sapere, dopo essere entrato in contatto con un grande cattolico dell’epoca che è Federico Le Play, il primo e il più grande sociologo urbano della nostra storia moderna. Lo scopo di Le Play è quello di risolvere i problemi della società industriale senza ricorrere alla violenza, salvaguardando i principi fondamentali della società, che a suo avviso sono il luogo, la famiglia, il lavoro; Le Play arriva a scoprire quali sono i meccanismi che determinano un certo benessere autogestito nella società operaia ed inventa la casa operaia con giardino per ripristinare il senso della proprietà, della famiglia e della società. L’opera di Le Play, che genererà un grande movimento internazionale, ha la funzione di creare una differenziazione tra massa ed individuo, tra atteggiamento politico, ed atteggiamento sociale e filosofico dell’uomo. Vedremo poi che Tony Garnier nella sua città industriale esalta questo stesso concetto costruendo un’intera città sul principio del rapporto casa-orto o casa-natura. Dunque Le Play è uno dei personaggi chiave nella vita e nella cultura dell’epoca, insieme con Geddes. Geddes costruisce nella sua città, Edimburgo, uno strumento per pianificare e redigere piani urbanistici a partire dalla storia. Lo strumento consiste in una casa dove al piano terra e raccontata la storia della formazione della Terra attraverso pannelli illustrativi, al primo piano è illustrata la geografia del mondo con i movimenti delle popolazioni e delle economie, poi si arriva alla presentazione dell’Europa, della sua composizione, dei suoi interessi, dei suoi conflitti, delle sue popolazioni. Infine si arriva all’Inghilterra, alla Scozia, e, all’ultimo piano, alla città di Edimburgo che è raccontata attraverso la sua storia, con vecchie mappe, con vecchi oggetti, con l’ultima rappresentazione grafica della città stessa, cioè l’ultima mappa. Perché tutto questo? Perché Geddes pensa e sostiene che nessuna città possa essere programmata o pianificata se non a partire dalla sua storia, altrimenti si fa della pianificazione violenta imposta alle persone. L’ultimo personaggio di cui vi parlerò rapidissimamente, per citare alcune referenze fondamentali nell’opera di Garnier, è Pietro Kropotkin, rivoluzionario ed anarchico russo. Egli è convinto che in Russia non ci sia altra strada che la rivoluzione, ma pensa che sarebbe deleterio per l’Europa occidentale ed industriale accedere al metodo, della violenza per cambiare le cose. Kropotkin fa una sua proposta di gestione sociale e territoriale sostenendo la necessità di un’amministrazione regionale delle risorse pubbliche (intendendo come tali i fiumi, le montagne con le loro foreste, il carbone del sottosuolo): tutto quello che può essere trasformato in energia deve essere restituito alla popolazione attraverso una trasformazione dell’energia stessa. Kropotkin parla inoltre della necessaria integrazione tra lavoro in campagna e lavoro in città e chiede che non esista più una divisione netta tra la città industriale da una parte, la campagna dall’altra e tutta l’altra serie di città settorializzate, la città commerciale, la città degli affari, la città dell’arte, la città della cultura. Kropotkin domanda un’armonia, nelle attività dell’uomo, e quindi pensa ad una città in cui le funzioni siano integrare tra loro. Tutti questi personaggi, anche se con origini e tendenze diverse, si preoccupano della integrazione tra le funzioni sociali e umane, cioè pretendono che l’uomo mantenga la sua globalità e la sua interezza e non si divida. Ora, se noi partiamo da questo presupposto applicato da Tony Garnier interamente nel suo progetto di città industriale, vedremo che la sua razionalità, la sua modernità appartengono a questa prima sfera culturale e politica di cui ho parlato, e non già alla seconda che prenderà il nome di modernismo razionalista, il quale, per altro, prevederà una suddivisione delle categorie sociali, delle categorie produttive, delle funzioni nella città fino all’eccesso, al paradosso.
C. Cabassi:
Mi sembra molto utile questa prima introduzione fatta dal professor Mariani, perché ha delineato gli elementi di attualità del progetto di città industriale che vediamo. Quella che abbiamo inteso fare non era un’operazione nostalgica, ma il tentativo di capire come un architetto che ci ha preceduto abbia saputo guardare con globalità ed interezza ad un territorio e a dei bisogni. A questo punto chiederei al professor Benedetti di ampliare ulteriormente il discorso, cercando soprattutto di spiegare che cosa vuol dire progettare per una società in continua evoluzione.
S. Benedetti:
Direi che il tema di Garnier che è ripresentato qui al Meeting, sta riaffiorando nella storiografia architettonica perché siamo in un momento di grandi trasformazioni, direi di conclusione di un certo ciclo d’architettura. Da una quindicina d’anni a questa parte si parla di un’epoca post moderna e questo fa riaprire l’attenzione, su quei personaggi che in qualche modo hanno preceduto la stessa modernità, il razionalismo architettonico. Garnier è uno di questi, Garnier partecipa ad un grande ciclo dell’architettura che potremmo definire "nuova" e che nasce tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. E’ un ciclo di una trentina d’anni d’architettura europea che segna la fine dell’eclettismo e inaugura l’architettura nuova. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, infatti, questa esigenza del nuovo apre un ciclo che poi sarà portato all’estrema radicalità dal razionalismo e che si chiuderà con la fine degli anni sessanta. Rileggere Garnier oggi, significa cercare di capire che cosa caratterizza questo ciclo di trent’anni che precede il razionalismo e quali dei suoi elementi sono stati dimenticati dai cosiddetti maestri del razionalismo o nascosti dalla sua storiografia ufficiale. L’architettura nuova nasceva per dar forma ad un’esigenza del nuovo legata alla società industriale giunta ormai al suo fiorire alto, e quindi all’esigenza di dare espressione a questa condizione nell’arte e nell’architettura. Questa esigenza però non distruggeva i ponti con la tradizione architettonica, non ne recideva la radici storiche, ma ne rileggeva la storia, innestandosi su una tradizione architettonica riletta, reinterpretata attraverso i nuovi materiali: il ferro, il cemento armato o non, il vetro. Erano questi i grandi elementi nuovi che erano sentiti come espressività piena di quello che era il tempo nato con la città industriale, con la società industriale, con la nuova borghesia. Questi nuovi materiali però erano utilizzati dentro una concezione dell’architettura ancora legata alle modalità basali dell’architettura tradizionale; si cancellava in pratica l’esperienza dell’eclettismo come fatto stilistico, ma si teneva in vita l’organizzazione fondamentale della fabbrica, così come la grande tradizione architettonica l’aveva maturata. Un terzo elemento di questo ciclo di fine secolo è la necessità di utilizzare l’architettura come strumento espressivo e comunicativo, come strumento simbolico dei valori della società del tempo. Nel caso di Garnier, per esempio, la città giardino, interpreta e porta ad alto grado le idealità del socialismo romantico ottocentesco. Il razionalismo teorizza, invece, la necessità del ricominciare da capo, secondo la tesi fondamentale di Le Corbusier; ciò significa che la nuova progettazione, la progettazione razionalista non si riattacca, anche se in maniera sublimata, alla storia, non si riattacca alla tradizione, ma deve ricominciare da zero. Il razionalismo della nuova oggettività, come fu definito in Germania nell’area di Gropius, è un atteggiamento di razionalità strumentale che non si pone più il problema dei fini, ma organizza soltanto gli strumenti. Sui fini non si discute più perché sono stabiliti dalla società borghese, si organizzano gli strumenti, e la ragione non si pone più le grandi domande. Per riprendere una bellissima immagine di Giussani sviluppata nell’ultimo libro Perché la Chiesa, questo è il tipo di ragione che ha la finestra stretta, contrapposta alla ragione come finestra aperta sul mondo, sulla realtà, come finestra attraverso cui l’uomo singolo guarda al totale della realtà. La ragione dei razionalisti è una ragione stretta, che si attiene fondamentalmente ad una logica strumentale e mette da parte tutta una serie di aspetti dell’umano che erano ancora presenti nell’architettura tradizionale, in Garnier e negli architetti dell’arte nuova. Questo fatto spiega poi perché la nuova oggettività prenderà la strada della cosiddetta "architettura pura" o dell’architettura dominata dal geometrismo astratto; non a caso Giussani in questo testo bellissimo dice che laddove si abbandona la totalità del vedere la natura, del vedere gli oggetti, ci si fa dominare da nuovi idoli. A questo punto emerge il nuovo idolo che è la tendenza a copiare dalla macchina, dal meccanismo, dall’oggetto prodotto dall’industria. Le Corbusier esalta la macchina come nuovo idolo dell’architettura e dice che "la macchina è tutta geometria. L'uomo che costruisce macchine agisce come un dio nella perfezione". L’architettura del razionalismo ha tentato di rispondere alle esigenze della società attraverso l’analisi delle funzioni e, non a caso, è anche detta "architettura del funzionalismo". La risposta funzionale è la classica risposta astratta di chi non analizza i fenomeni per i quali costruisce la nuova architettura a partire dalla esperienza umana, ma a partire dall’oggetto, dai movimenti che l’oggetto può compiere. Non si guarda alle esigenze primarie dell’architettura, ma alle esigenze astratte che l’oggetto architettonico può consentire. Garnier, in una frase fra le pochissime da lui scritte, dice invece che le architetture debbono partire da una risposta al bisogno che emerge dall’umano, non dall’umano astratto, reso modello o realtà di meccanismo da coordinare, ma da un umano che ancora mantiene tutta la ricchezza del substrato dell’esperienza viva, quindi la ricchezza emozionale, la ricchezza simbolica. In Garnier manca completamente la rottura con la storia e con la tradizione teorizzata e coltivata dagli architetti del razionalismo, ma, contemporaneamente a questo, c’è l’interpretazione del tempo nuovo: Garnier è uno dei primissimi che intorno al 1956 rilegge l’architettura tradizionale attraverso un nuovo materiale, il cemento, che gli permette di semplificare e ridurre l’architettura tradizionale pur mantenendola nelle sue articolazioni fondamentali. Tutte le architetture di Garnier sono costruite all’insegna della semplificazione e Garnier stesso era molto critico nei confronti dell’architettura storica, dell’architettura antica, perché la ritiene fondata su principi falsi; per Garnier l’unica bellezza è la verità. Quest’affermazione lo riavvicina ad una concezione artistica di tipo medioevale, secondo cui la bellezza è lo splendore del vero. Nell’architettura di Garnier esiste una scalatura in tre fasi: una prima fase eclettica, una seconda particolarmente nuova o d’architettura moderna e una terza fase che inizia dopo gli anni Venti. Dopo la grande guerra Garnier subisce un trauma, il suo utopismo socialista crolla di fronte alle distruzioni e alla morte che la grande guerra ha portato in Europa; prende così le distanze dal suo sogno di nuove città da costruire per la società nuova e comincia a progettare dal 1918/19 in poi l’architettura della morte, dei monumenti funebri, del silenzio, l’architettura del simbolismo dopo la vita. Si pone quindi indirettamente la domanda sul senso della vita e progetta decine e decine di monumenti funebri che, in gran parte, non saranno costruiti. Garnier non è quindi importante solo perché inventa l’architettura del cemento armato e la porta avanti con ricerche di notevole interesse formale, ma soprattutto perché tiene desta, tiene viva la dimensione simbolico-espressiva dell’architettura che i razionalisti avevano invece distrutto e cancellato; una dimensione che nell’ultima parte della sua vita diventa ossessione con l’architettura del silenzio, della memoria, della riflessione sul destino dell’uomo.
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