Martedì 23 agosto

"LE ORIGINI DELL'UOMO"

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Partecipano:

Prof. Ives Coppens, Antropologo, Direttore del Museo dell'Uomo di Parigi;

Prof. Francisco J. Ayala, Docente di Genetica all'Università di California;

Prof. Gustave Martelet, Membro della Commissione Internazionale di Teologia.

Moderatore:

Dott. Pier Alberto Bertazzi.

P.A. Bertazzi:

Buonasera a tutti. La tavola rotonda di oggi, che definisce un poco un modo di affrontare il tema generale del Meeting, sarà sulle origini dell'uomo. Già il Presidente del Meeting, Antonio Smurro, nell'introdurre questa edizione, diceva che il titolo "Uomini scimmie robot" va inteso senza opposizione; abbiamo cercato di farlo capire non mettendo le virgole tra un termine e l'altro. Ma cos'è questa improvvisa simpatia per le scimmie e per i robot? Io credo che sia un modo di interpretare un sentimento diffuso, un sentimento che l'uomo ha di se stesso al nostri giorni, cioè un modo di percepire la complessità della propria natura, della propria identità, una complessità tale che in qualche modo gli sfugge. Certo, nella natura dell'uomo c'è sicuramente una dimensione di animalità, così come c'è una dimensione di creatività, di, capacità tecnica: la scimmia rappresenta una delle dimensioni dell'uomo, il robot rappresenta sicuramente un'altra delle dimensioni dell'uomo. Ma, e qui ci poniamo un po’ di questioni, come è possibile che questo uomo che, per quanto comunemente leggiamo, deriva dalla scimmia, come è possibile che questo uomo sia capace di inventare e costruire il robot, per esempio? Da dove salta fuori questo uomo, con la sua identità e la sua natura? In che cosa si differenzia da tutto il resto che è nella natura? Qual è la sua originalità? Da dove origina? Ciò che muove questo Meeting, l'abbiamo detto più volte, e credo che muova non soltanto gli organizzatori ma tutti noi che partecipiamo, è veramente un desiderio di capire, di conoscere, perciò un desiderio, di fare tesoro di ciò che l'intelligenza e la sincera passione di ricerca degli uomini può dirci riguardo questi interrogativi che sono ormai dell'uomo comune, perciò di ciascuno di noi. Allora abbiamo provato a porre questi medesimi interrogativi, queste domande, queste osservazioni a tre personalità di assoluta rilevanza internazionale, ciascuna riconosciuta autorità nel proprio campo di ricerca, e ve li presento: il prof. Ives Coppens, di Parigi. Il prof. Coppens, uno dei più importanti paleontologi a livello internazionale, ha iniziato la sua carriera nel '56 a Parigi, al Centro Nazionale della Ricerca Scientifica; l'ha quindi proseguita al Museo Nazionale di Storia naturale, dove è stato nominato professore di Antropologia nel 1980; è stato anche nominato membro del Collegio di Francia, che come sappiamo è la massima istituzione accademica di quel Paese, dove è diventato professore, titolare della Cattedra di Paleoantropologia e di Preistoria; il prof. Coppens ha svolto un'intensa attività di ricerca sul campo, organizzando e collaborando a 18 grandi spedizioni scientifiche in Africa, tra il '60 e il '77, quattro nel Ciad, quattordici in Etiopia. Da lì ha riportato tonnellate di fossili, e in particolare alcune centinaia di resti di uomini e di ominidi australopitechi, risalenti da 1 milione 4 milioni di anni fa, e tra questi c'è lo scheletro, famoso perché reso tale da un libro a larga diffusione, di Lucy , che è lo scheletro di una giovane nostra antenata di circa 3 milioni di anni fa; i suoi lavori (sono oltre 300) di carattere scientifico riguardano i più antichi ominidi, la loro natura, la loro discendenza, e i più antichi utensili di pietra, e l'ambiente animale, vegetale e climatico in cui tutte queste scoperte vanno situate. Secondo nostro graditissimo ospite di questa sera, alla mia sinistra, è il Prof. Francisco Ayala, dell'Università di California; il prof. Ayala è professore di Genetica presso l'Università di Davis, in California. Le sue ricerche sono state dedicate soprattutto alla studio del processo dell'evoluzione biologica, e in particolare alle modificazioni genetiche che sono alla base dell'evoluzione delle nuove specie. Anch'egli è autore di più di 300 articoli scientifici e di molti libri, ma i suoi studi si estendono anche al di là di quello che è considerato l'ambito strettamente scientifico, per interessarsi ai problemi filosofici, etici e sociali di questa ricerca e di queste scoperte scientifiche che, ripeto, riguardano in particolare l'evoluzione. Il prof. Ayala è membro dell'Accademia delle Scienze statunitense, e membro dell'Accademia americana di arti e scienze e di numerose altre accademie americane e straniere. Alla mia destra, ancora, il prof. Gustave Martelet. Penso di poter usare il termine di scienziato anche per il prof. Martelet, seppur in senso singolare, dato che anche lui si occupa, dal suo punto di vista, dell'origine dell'uomo; il prof. Martelet è teologo, ed è professore a Parigi e alla Gregoriana di Roma; in qualità di teologo, ha partecipato al Concilio Vaticano II, ed è membro della Commissione Internazionale di teologia. Tra le sue numerosissime pubblicazioni, ricordo "Risurrezione, Eucarestia e origine dell’uomo" e "L’aldilà ritrovato". Dunque al prof. Coppens, al prof. Ayala, al prof. Martelet, poniamo le stesse domande che abbiamo posto a noi. Allora, quest'uomo, che ha in sé un po' di scimmia e che sa fare i robot, da dove origina? Qual è la sua originalità?

I. Coppens:

Sono il paleontologo di questa tavola, e vorrei presentare dapprima questa materia che è la paleontologia. La paleontologia è una scienza naturale che cerca di raccontare la storia della vita. Il paleontologo è quindi una persona che vive sul campo, è una persona che cerca. Quando il paleontologo ha cercato negli strati più antichi della Terra, e quando dico quelli più antichi mi riferisco a 4 miliardi e mezzo di anno orsono, non ha trovato nessuna traccia di esseri viventi. Quando ha fatto ricerche in strati un po' meno antichi, 3 miliardi di anni fa, ha trovato tracce di esseri viventi, tracce estremamente semplici; e poi ha cercato in altri strati ancora meno antichi, e ha messo alla luce più numerosi, più vari, più complessi, e così via. Ha quindi pensato che tutto è avvenuto come se la vita non fosse sempre esistita sulla Terra, e come se questa vita fosse stata un continuum, come se tale vita non fosse stabile, e che si trasformasse, nel corso degli anni, nel corso di miliardi, di centinaia di miliardi di anni, per adattarsi a condizioni dell'ambiente, condizioni che cambiano. E tutto ciò per arrivare un bel giorno all'uomo. Questa idea va capita bene all'inizio della nostra discussione. Questa idea non è una speculazione, bensì una constatazione, che chiunque di voi può venire a dimostrare o verificare in qualsiasi nostra ricerca; questa idea è diventata la teoria dell'evoluzione. Ora, l'origine dell'uomo, e anche l'origine della vita, risale quindi almeno a 3 miliardi e 500 milioni di anni fa. L'uomo, l'uomo di oggi, l'uomo che siamo, che siete, quest'uomo è una specie di dimostrazione in se stesso di questi 3 miliardi e mezzo di anni di storia. Porta in sé infatti il ricordo degli episodi, degli eventi, degli avvenimenti di questa lunga, lunghissima storia. È fatto, ad esempio, di aminoacidi, che sono gli elementi degli esseri viventi di 3 miliardi di anni fa; ha una colonna vertebrale, esattamente come i primi vertebrati di 500 milioni di anni fa; possiede un sistema di respirazione tramite polmoni, respira con i suoi polmoni quindi, esattamente come i batraci di 400 milioni di anni fa; possiede un naso separato dalla bocca, esattamente come i rettili mamaniani che risalgono a 300 milioni di anni fa; nutre la sua prole con il latte, esattamente come i mammiferi di 200 milioni di anni fa; li porta nella placenta, come i mammiferi di 100 milioni di anni fa; ha il pollice che si oppone alle altre quattro dita, esattamente come le scimmie di 50 milioni di anni fa; ha 32 denti in bocca, quando li possiede ancora tutti, ovviamente, come le scimmie di 35 milioni di anni fa; ha una stazione eretta, cammina in piedi, sulle zampe posteriori, come le scimmie superiori di 10 milioni di anni fa; possiede dei denti che gli consentono di mangiare tutto, carne, vegetali, gorgonzola, come i primi uomini di 4 milioni di anni fa, e ha un cervello che supera 1.200 cm cubici con un’irrigazione sanguigna assolutamente straordinaria, esattamente come i primi uomini moderni: di 200.000 anni fa. Con tutto ciò, voglio dire che a livello del suo corpo, l'uomo è perfettamente legato e collegato all'intero mondo vivente, sia esso animale o vegetale. Quindi, è ovvio che, a partire dal 1983, tutto sembra succedere come se questa lunga evoluzione, come se questo lungo cammino, fosse per arrivare all'uomo. Però non bisogna lasciarsi prendere da questa impressione, che è una mera impressione, e comunque a posteriori. A qualsiasi momento di questa storia, il numero di voci che potevano seguire il cammino dell'evoluzione era numeroso, e ogni volta è la congiunzione di fenomeni di mutazione cromosomica, ma anche di adattamento all'ambiente che cambiava, che hanno consentito che una voce e stata scelta piuttosto di un'altra. Poi, ad un tratto per il paleontologo si scoprono accanto a quest’uomo, a questo pre-uomo, si scoprono dei sassi, delle pietre, che sono state lavorate grazie ad altre pietre o sassi, cioè è stato necessario prendere un primo oggetto, e col primo lavorare il secondo: questo per realizzare una forma destinata poi ad una certa applicazione, a un certo progetto, a una proiezione dell’avvenire. E qui siamo estremamente sorpresi di fronte all'apparire di un nuovo fenomeno, che è la riflessione, la coscienza riflessiva non era nel programma della biologia. Dato che la paleontologia è una scienza comparata, e che l'uomo è l'unico essere vivente che abbia una coscienza riflessa, il paleontologo non può paragonarlo a nessun altro; quindi cosa fa? Si limita a constatare che l’evoluzione di questa cultura, di questa tecnologia assumono un importanza, crescente e straordinaria, direi addirittura stravagante; l'aspetto innato, istintivo scompare, e arriva invece l'aspetto insegnato; ciò fa dell'uomo che ad un tratto ha coscienza di se stesso, degli altri e dell'ambiente, della morte, un essere che si può paragonare a un altro essere, nel vero senso della parola. E questo essere imparagonabile svilupperà la sua tecnologia, al punto da fabbricare questi straordinari robot, che conoscete bene. In altri termini, la paleontologia, e questo bisogna sempre ricordarselo, quali che siano le sue lacune, e sono numerosissime, spiega sempre più l'evoluzione, la trasformazione, la storia della vita, fino all'uomo odierno, voi, io compreso. Però non fa altro che constatare questa straordinaria innovazione che è costituita dalla coscienza riflessiva, e si limita a situarla nel tempo e nello spazio, senza spiegarla.

P.A. Bertazzi:

Grazie molte, prof. Coppens. Ora un altro filone di ricerca scientifica, quello biologico sui fenomeni genetici che sono alla base di questa evoluzione. Prof. Ayala, il suo parere sul queste domande.

F. Ayala:

Il professor Coppens ha giustamente parlato delle grandi somiglianze nella configurazione del corpo umane e del corpo delle scimmie. Gli uomini e le scimmie si assomigliano molto perché vengono da una progenitore comune e anzi si sono separate come specie, molto recentemente. L'evoluzione è un processo graduale e le specie che hanno un antenato comune sono anche molto simili. Negli ultimi tempi si è avuta la possibilità di studiare i geni che rappresentano o che formano i caratteri comuni degli organismi, e tutto questo ci ha permesso di fare un confronto più particolareggiato delle somiglianze esistenti tra l'essere umano e i loro parenti più vicini, cioè le scimmie dell'ordine superiore. Se si confrontano i geni dell'uomo e quelli delle scimmie si possono notare delle somiglianze sorprendenti. Se prendiamo un gene tipico, quello che codifica le informazioni delle proteine, cioè il, Citocroma C, vediamo che questa proteina è costituita da un po' più di cento unità. Gli uomini, gli scimpanzé e i gorilla hanno una composizione identica. Analogamente, se confrontiamo le emoglobine che costituiscono il sangue vediamo che i loro due componenti principali, cioè l'Alfa e la Beta, sono costituiti da circa 140 unità e, tutte queste 140 unità di ciascuna di queste componenti è identica negli uomini e negli scimpanzé. E c'è soltanto una differenza tra l’uomo e lo scimpanzé se li confrontiamo con i gorilla. Negli ultimi tempi molti geni sono stati confrontati, abbiamo fatto un confronto tra quelli umani e quelli degli scimpanzé e attualmente sembra che 2/3 di tutti i geni siano del tutto identici nell'uomo e nelle scimmie dell'ordine superiore. L’altro terzo dei geni rappresenta delle differenze, ma differenze poco significative. Questo significa che noi siamo molto simili ai gorilla e agli scimpanzé e che forse non siamo più diversi da loro di quanto queste due specie animali non differiscano una dall'altra. Non sappiamo ancora se la risposta sia sì o no. Come ho detto per molti versi noi siamo simili alle scimmie dell'ordine superiore, però abbiamo anche delle differenze considerevoli. Il prof. Coppens ha già indicato alcune differenze morfologiche. Io vorrei sottolineare quelle che secondo me, sono le tre caratteristiche più importanti dell'uomo a livello morfologico e cioè: la stazione eretta, il fatto che noi camminiamo su due piedi, e che teniamo la colonna vertebrale eretta; il fatto che abbiamo una mano prensile in cui il pollice è opposto alle altre dita, e quindi la nostra mano è diventata uno strumento per manipolare oggetti; e poi la differenza più importante: un cervello molto grande rispetto alle dimensioni del corpo. Di queste differenze la principale, in un certo senso è la stazione eretta, perché gli antenati dell'uomo hanno cominciato a diventare bipedi; è stato per questo che hanno avuto le mani libere di manipolare oggetti e pertanto hanno potuto cominciare a costruire utensili. Ebbene, la costruzione degli utensili implica, naturalmente, qualcosa di più della semplice abilità manuale, cioè la capacità di manipolare oggetti implica la capacità di vedere gli strumenti, gli utensili proprio in quanto utensili, cioè vederli come mezzi per fare qualcos'altro. Man mano che l'essere umano ha sviluppato questa capacità di creare degli utensili sempre migliori, insieme a questo processo ha anche sviluppato la capacità di rapportare questi utensili ai fini da raggiungere. E naturalmente questo ha richiesto lo sviluppo di un cervello complesso che è stato in grado di elaborare un pensiero astratto, perché è la capacità di crearsi delle immagini astratte che permette di vedere gli strumenti, gli utensili come dei mezzi intermedi che permettono di raggiungere determinati fini. Quindi è il prodotto della mente umana, cioè la cultura, in un senso più vasto della parola, quello che distingue la specie umana da tutte le altre specie animali. Ora io naturalmente uso la parola cultura in un senso molto ampio, cioè comprendo anche il linguaggio, le nostre istituzioni sociali, le nostre tradizioni etiche, le opere d'arte e le opere della mente umana, in generale. Per quanto riguarda il problema della specie biologica noi siamo stati anche cambiati dalla nostra cultura, perché a differenza di altri animali, noi abbiamo due tipi di eredità: abbiamo un’eredità biologica che condividiamo con tutti gli altri organismi e che viene trasmessa dai genitori ai figli attraverso il D NA, cioè il materiale ereditario, ma abbiamo anche un retaggio culturale; trasmettiamo nozioni da un essere umano all'altro, trasmettiamo le esperienze che abbiamo accumulato. È questo retaggio culturale che forse caratterizza più di qualsiasi altra cosa gli esseri umani; gli animali possono accumulare esperienza nella loro vita individuale, mentre soltanto gli uomini possono trasmettere le esperienze che essi accumulano di generazione in generazione, cioè possono passarle dall'uno all'altro. Ortega Gassen, il filosofo spagnolo, ha detto che gli animali hanno una memoria individuale mentre gli esseri umani hanno una memoria sociale. Ed è questa memoria sociale che ci distingue proprio come specie. Quello che io voglio sottolineare è che mentre l'evoluzione delle altre specie, dipende dall'eredità biologica, negli ultimi millenni l'evoluzione dell'umanità è avvenuta sia per il retaggio culturale, sia per il retaggio biologico. L'evoluzione, quella, biologica, dipende dal verificarsi delle mutazioni che devono diffondersi su tutta la specie per molte generazioni. La specie umana negli ultimi millenni si è adattata all'ambiente non cambiando i geni, ma cambiando l'ambiente, cioè adattando l'ambiente ai geni, non adattando i geni all'ambiente. Per esempio noi siamo essenzialmente degli animali tropicali o subtropicali, il nostro corpo ha bisogno di vivere, in un ambiente ad una temperatura di circa 25 gradi centigradi, eppure gli uomini si sono sparsi su tutta la terra, salvo l'Antartide, e questo non perché gli è cresciuta la pelliccia o sono aumentati i loro peli; gli uomini sono riusciti a colonizzare anche gli ambienti più freddi inventando, scoprendo il fuoco, oppure creandosi dei rifugi, gli uomini hanno conquistato l'aria senza farsi crescere le ali; noi possiamo viaggiare sui mari e sui fiumi senza alcuna mutazione che ci abbia fatto crescere le branchie o le pinne; abbiamo cominciato ad esplorare lo spazio siderale senza aspettare dei cambiamenti genetici che ci abbiano reso in grado di respirare in un atmosfera senza ossigeno oppure di vivere a gravità zero. La cultura è un modo di adattarsi molto più efficiente che non l'evoluzione biologica guidata dalla selezione naturale è più efficiente perché è più rapida, non dipende da molte generazioni, non c'è bisogno di aspettare che un gene si diffonda in tutti gli individui di una data specie, ma semplicemente attraverso la stampa, la radio, la televisione, il cinema, un'invenzione culturale, cioè una mutazione culturale, può diffondersi in tutta l'umanità nel giro di qualche mese o al massimo di qualche anno. Sono rimasto molto sorpreso, alla fine degli anni '60, allorchè visitai la regione delle Amazzoni, nel vedere degli Indios che vivevano all'età della pietra, ecco rimasi sorpreso nel vederli canticchiare canzoni dei Beatles, che all'epoca erano i cantanti rock più famosi dell’occidente. Le radio a transistor portate dai missionari avevano portato la musica dei Beatles fin nelle Amazzoni. L'evoluzione culturale si può dirigere inoltre, mentre l'evoluzione biologica non si può indirizzare. L'evoluzione biologica dipende dal verificarsi di una mutazione spontanea, nel caso dell'evoluzione culturale noi possiamo cercare invece attivamente le invenzioni più utili. Negli ultimi millenni l’umanità ha subito un'evoluzione completamente diversa da quella invece che ha caratterizzato tutte le altre specie, e questo grazie alla trasmissione culturale, cioè al retaggio culturale. Io vorrei citare brevemente due punti, che potrebbero servire anche in seguito alla discussione. Vorrei dire che tra gli attributi caratteristici dell'umanità ce n'è uno notevole, ed è il fatto che noi siamo degli esseri etici, siamo l'unica specie che si comporta in maniera etica, cioè che sceglie di comportarsi bene o male. Io sostengo che noi siamo degli esseri etici, questo come conseguenza del nostro retaggio biologico, perché l'estremo sviluppo del cervello, che è stato facilitato dalla selezione naturale, ci ha dato i 3 attributi che sono necessari e sufficienti affinchè si manifesti un comportamento etico. Si tratta della capacità di prevedere o di anticipare le conseguenze delle nostre azioni, la capacità di formulare dei giudizi di valore e la capacità di scegliere fra possibili azioni alternative. Soltanto in presenza di questi 3 attributi noi possiamo avere un comportamento etico e penso che valga la pena di sottolineare che questi 3 attributi esistono negli esseri umani proprio a seguito dello sviluppo che noi abbiamo avuto proprio nella nostra capacità di creare utensili, perché come ho spiegato prima, la costruzione degli utensili implica la nostra capacità di vederli come mezzi per raggiungere un fine e questo naturalmente stimola lo sviluppo di un cervello che è capace di formulare delle immagini astratte. Ed è questo che ci dà la capacità di valutare le conseguenze delle nostre azioni, di formulare dei giudizi di valore e di scegliere tra possibili azioni alternative. Infine, gli esseri umani sono l'unica specie che manifesta un comportamento religioso, il comportamento religioso è un attributo universale dell'umanità; tutti gli uomini, anche i più primitivi, manifestano un comportamento religioso. Il comportamento religioso pare che sia determinato dal fatto che noi siamo consapevoli della nostra morte. Gli uomini, e soltanto gli uomini, sono capaci di rendersi conto che moriranno, che la loro vita terminerà. Ci risulta che nessun altro animale abbia questa consapevolezza di morte, perché nessun altro animale pratica la sepoltura rituale dei morti; altri animali gettano via i morti, o li usano come cibo, soltanto l'uomo ha la sepoltura rituale e questo indica che soltanto gli uomini hanno la consapevolezza della morte. E siccome noi siamo consapevoli del fatto che la nostra vita terminerà, ci sentiamo ansiosi e questa ansia si può calmare o può diminuire col pensiero che forse la nostra vita in qualche altro modo continuerà, col pensiero che la nostra vita ha un significato che va al di là della nostra singola esistenza. La selezione naturale, l'evoluzione biologica, non hanno creato di per sé questa consapevolezza di morte, però, come ha detto il prof. Coppens, hanno stimolato l'autoconsapevolezza, la consapevolezza della nostra esistenza ed è proprio per il fatto che noi siamo consapevoli di noi stessi, della nostra esistenza, è per questo che siamo capaci di astrarre da noi stessi, di vederci come oggetti ed è anche per questo che noi siamo consapevoli del fatto che la nostra vita terminerà. Ed è questa consapevolezza della morte che sta alla base, secondo me, dell'universalità delle religioni. Naturalmente io non sto parlando del contenuto delle religioni, bensì della predisposizione universale al comportamento religioso. E vorrei concludere sottolineando la natura, il carattere distintivo della specie umana, carattere che è radicato nei nostri geni, nella nostra costituzione biologica; nonostante tutte le nostre somiglianze noi abbiamo delle differenze fondamentali, differenze che possiamo riassumere nel nostro cervello grande e nella nostra capacità di formulare pensieri astratti e questo rende unica l'umanità.

P.A. Bertazzi:

Prof. Martelet, perché un teologo si interessa delle origini dell'uomo, e cosa può dirci a questo riguardo?

G. Martelet:

Sono teologo, quindi voi rei dare il motivo dell'interesse che io ho per la preistoria: poiché 7 è un numero perfetto. Ci sono 7 peccati, ci sono 7 pianeti, ci sono i 7 colli di Roma, ci sono i 7 sacramenti, e 7 doni dello Spirito Santo, quindi penso che ci possano essere 7 ragioni per un teologo di occuparsi di scienza e preistoria. Il primo motivo, è la ragione della definizione: essere teologo significa essere, almeno era tentare di essere un uomo che parla di Dio agli altri uomini in funzione di ciò che Dio stesso ha rivelato agli uomini del Cristo. Ora la prima cosa che Dio ha rivelato agli uomini è il mondo, il creato; i cieli cantano gloria di Dio prima che l'uomo sappia parlare. Quindi è impossibile capire e parlare di Dio se non si capisce la natura come creazione di Dio; d'altra parte, nella natura la creazione suprema di Dio, almeno nell'ordine visivo, perché non voglio parlare qui degli angeli (sono presenti, ma non ne parliamo; parliamo degli uomini), ebbene, l'uomo è nell'ordine visivo la creazione più perfetta di Dio, è il punto di arrivo, l'apice; diciamo che è l'Himalaya dei viventi, l'Everest, per non parlare dell'intera catena montuosa, ma di una vetta; è l'Everest, l'Everest del mondo vivente. Quindi è impossibile parlare di Dio, in qualità di teologo, se non si sa prima parlare della creazione, e se non si sa prima parlare dell'uomo. Ora la scienza ha come scopo di analizzare obiettivamente, secondo il rigore massimo dell'intelligenza e dell'osservazione, la natura, e studiare l'uomo nel suo passato, nel suo presente e, se è possibile, nel suo futuro. Per questo la prima condizione per la teologica è di essere fedele, scientificamente fedele a ciò che l'uomo sa della natura e a ciò che sa di se stesso. Il secondo motivo per il quale ho voluto studiare la preistoria è un motivo educativo; all'età di 13 anni infatti mi hanno fatto riempire un libretto di paleontologia; era impossibile quindi per me non studiare il problema delle nostre origini. Arriviamo ora alla terza ragione. È una ragione di personale evoluzione: nel mio studio a contatto coi Padri Gesuiti, che erano scientifici, ho capito che la scienza era un'opera dello Spirito, e che era impossibile onorare lo Spirito senza onorare la scienza, e senza formare se stessi. Arriviamo alla quarta ragione: la quarta è un problema di orientamento. Quando ho parlato con i Padri Gesuiti, che erano compagni in Cina di Padre Teillard de Chardin (era un francese, non lo conoscete; studiava la gravimetria, cioè pesava il mondo, pensate!), allora nella mia semplicità di filosofo che voleva aprirsi alle scienze, ho detto loro che io volevo studiare matematica. Mi hanno guardato e mi hanno detto: "Lei? Matematica! Come Teillard, Paleontologia"; e fu così che ho studiato un po' di paleontologia, a Parigi, e che sono seduto qui, accanto al signor Coppens; come pure a Parigi, dove è professore al Collège de France, mentre io sono professore di teologia. Però per insegnare la teologia come si deve penso che sia bene fare della scienza delle origini dell'uomo, e questo è il quarto motivo. Arriviamo al quinto motivo. Questo è un motivo di vocazione teologica diretta. Sapete che Giovanni Paolo II, che l'anno scorso è stato qui con voi, ha detto fin dall'inizio del suo pontificato: "la via di Dio è l'uomo". Se vogliamo trovare il cammino di Dio, dobbiamo dapprima conoscere il cammino dell'uomo, il procedere dell'uomo. Senza essere Giovanni Paolo II, però sono pur sempre cristiano, mi è sembrato immediatamente evidente che era impossibile, in qualità di teologo, tentare di capire Dio se non avessi prima capito l'uomo. La comprensione dell'uomo costituisce dapprima una comprensione intuitiva, una comprensione affettiva, una comprensione dell’amore, però l'amore deve andare fino alla conoscenza obiettiva di colui che si pretende amare, e dato che l'uomo è conosciuto obiettivamente dalla scienza, e dato che occorre conoscere l'uomo per conoscere Dio, ebbene, bisogna conoscere la scienza dell'uomo attuale per raggiungere una conoscenza dell'uomo, che poi consentirà la conoscenza di Dio. La teologia non può fare a meno dell'antropologia. Certo, la teologia è più dell'antropologia, come Dio è più dell'uomo, però come Dio è per l'uomo e l’uomo è per Dio, c'è tra la teologia e l'antropologia un accordo, come della mano sinistra e della mano destra che si congiungono per cogliere l'intera possibile realtà. Il sesto motivo è un motivo molto più personale, e che tutto sommato è dovuto a un’intuizione, presto si è rivelata, quando ero ancora un giovane gesuita; avevo 20 anni, credo, quando lessi la Lettera di San Paolo in una versione Verbum salutis, di cui certi di voi hanno avuto conoscenza, commentata dal padre Huby. In questa lettera, al capitolo 1°, versetto 10, ho scoperto il Cristo ricapitolatore. Il prof. Coppens un attimo fa, ci ha presentato l'uomo, l'uomo com’è, come siamo, come una ricapitolazione dell'universo dei viventi, da 3 miliardi di anni a questa parte. Senza sapere tutto ciò, un tempo ho avuto, la sensazione che se il Cristo Ricapitolatore era veramente il Cristo, era impossibile amare il Cristo Ricapitolatore senza se stessi, con la propria cultura, tentare di fare la ricapitolazione possibile dell'uomo, dell'intelligenza che l'uomo può avere di se stesso e del mondo. Se ci si dà, ognuno di noi al Cristo Ricapitolatore, dobbiamo tentare, ognuno nel suo modesto ambito, di non essere un ostacolo alla ricapitolazione, cioè cercare, di capire, di comprendere e di esprimersi, di, amare, un massimo di umanità per poter testimoniare del Cristo all'interno dell'immensità stessa dell'uomo. La settima ragione è un motivo di significato. L'uomo e l'umanità è Ulisse che vive la su a Odissea; ognuno deve essere l'uomo in grado di rifare la sintesi dell'Odissea umana, dall’ameba fino al gorgonzola, cioè sentire l'immensità della storia culturale del mondo. Perché? Affinché la vita dell'uomo non appaia avulsa da quella di Dio, e l'abisso di Dio non appaia troppo grande, troppo profondo per l'uomo; l'abisso di Dio chiama l'abisso dell'uomo, e l'abisso dell'uomo chiama l'abisso di Dio. Ora ciò che la scienza ci ha rivelato, con una via scientifica obiettiva, l’immensità abissale dell'Odissea cosmica, dell'Odissea planetaria, nonché dell'Odissea biologica, e infine dell'Odissea antropologica e culturale che coprono un arco di 2 milioni e mezzo di anni circa. Non è possibile che questo abisso, che questi abissi che sono l'uno nell'altro congiunti non creino nell'uomo una sensazione di vertigine. Bisogna sentire questa vertigine, per capire che solo l'abisso di Dio può colmare l'abisso dell'uomo; in questo senso, questo mondo nel quale viviamo, dove l'uomo appare creatore di se stesso, appare ai suoi occhi come un assurdo, se non accetta che il creatore del robot non è egli stesso un robot della natura, ma è nella sua profondità autentica un’immagine di Dio, nell'abisso del quale l'uomo può vedere l'abisso di Dio. In questo senso il settimo motivo per cui ho sempre voluto mantenere un rapporto con la scienza, in qualità di teologo, è per poter parlare all'uomo della verità di Dio in funzione della verità stessa dell'uomo.

P.A. Bertazzi:

Grazie, prof. Martelet. Negli interventi del prof. Coppens e del Prof. Ayala l'origine dell'uomo ci è stata descritta all'interno e in continuità con una evoluzione dei viventi, ma all'osservatore o al ricercatore di questo processo compaiono perlomeno dei momenti di stupore, in cui capita qualcosa che sembra non andare contro questa continuità, ma porre una differenza, la comparsa di una coscienza riflessa, la dimensione della cultura, nel senso in cui ne parlava il prof. Ayala, della religiosità. Eppure io credo che, per la nostra mentalità comune, l'evoluzione biologica, venga intesa tout court come la storia dei viventi, quindi la nostra storia. Allora io vorrei chiedere, e avere una risposta in breve sia dal prof. Coppens che dal prof. Ayala, può l'evoluzione essere in grado di parlarci, se è la nostra storia, del nostro presente quindi, del nostro passato, del nostro futuro? Può anche secondo la vostra esperienza di ricercatori e di studiosi, l'evoluzione rivelare l'uomo a se stesso, spiegarlo?

I. Coppens:

Risponderò in due modi. A livello paleontologico, nella misura in cui si giudica l’avvenire basandosi sul passato, l'avvenire dell'uomo è condannato. Con queste parole voglio dire che se si va a scavare in strati di 50 milioni di anni fa, 20 milioni di anni fa, tutte le forme di vita animale che si scopriranno in questi strati saranno diverse rispetto alle forme che riscontriamo oggi, tutte, assolutamente tutte le forme. Quindi in un ragionamento prettamente biologico non c'è nessun motivo che tra 20 milioni d'anni, o 50 milioni d'anni, l'uomo sia ancora un essere vivente che costituisca l'eccezione. Però c'è questo problema, di cui abbiamo parlato tutti e tre: questa apparizione della coscienza riflessiva, questa apparizione discreta, molto discreta dapprima, dell'epifenomeno costituito dalla cultura e poi questo epifenomeno è cresciuto, è cresciuto talmente che ha oggi oramai coperto e invaso l'intero spazio dell'uomo. Ebbene, questo fenomeno culturale, per cui non abbiamo nessuna pietra di paragone possibile, pone oramai l'evoluzione su un altro piano, su un altro livello e ho parlato, e ho chiesto ora di parlarvi, per dirvi che a questo livello e su questo piano il paleontologo non può assolutamente rispondere. Non posso rispondere.

F. Ayala:

Io vorrei iniziare sottolineando che lo studio dell'evoluzione non è soprattutto lo studio della storia, cioè la ricostruzione degli eventi che hanno portato al presente, è semmai lo studio dei processi che hanno avuto luogo, è lo studio delle cause che hanno provocato determinati cambiamenti nell'evoluzione; e in questo senso lo studio dell'evoluzione ci porta a capire qual è la costituzione biologica dell'umanità, e come è avvenuta questa costituzione, e in questo senso è fondamentale per capire che cosa l'uomo. Il fatto di capire che cosa è l'umanità in senso biologico, fino a un certo punto, non so se questo ci permetterà di prevedere che cosa sarà l'umanità in futuro, sono due cose completamente diverse. Come ha detto il prof. Coppens la maggior parte delle specie che sono esistite in passato adesso si sono estinte; oltre il 99,9% di tutte le specie che sono esistite, adesso sono estinte. Ci sono due modi in cui una specie può estinguersi: può estinguersi perché non lascia discendenti, e la maggior parte delle specie che esistevano in passato si sono estinte in questo modo ma una specie può anche estinguersi perché cambia, si modifica. Praticamente tutte le specie continuano ad evolversi e a mutare; pertanto non c'è motivo per cui noi dovremmo aspettarci di avere un destino diverso, non si vede perché noi dovremmo essere diversi. Come tutte le altre specie, anche la specie umana cambia a livello biologico e continuerà a cambiare, anzi è possibile dimostrare che la specie umana sta cambiando biologicamente adesso molto più rapidamente di quanto non sia mai mutata in passato, e forse sta mutando più rapidamente di quanto non sia mai mutata in passato qualsiasi altra specie biologica. Pertanto io ritengo che alla lunga, cioè fra centinaia di migliaia, di milioni di anni, la specie umana cambierà, ammesso che riusciamo a evitare una guerra nucleare e quindi a distruggerci molto prima. Quindi, gli scienziati ci possono dire senza altro che l'uomo cambierà, ma non per questo sappiamo come cambieremo, perché l'evoluzione culturale e le capacità che abbiamo sviluppato negli ultimi 5 anni di modificare retaggio umano, ecco, forse per questa nostra capacità noi potremo anche riuscire a modificare o a indirizzare la nostra evoluzione biologica. Questo però è un fenomeno completamente nuovo nella storia della vita di questo nostro pianeta, e quindi io non so se noi saremo abbastanza saggi da cambiarci per il meglio. Questo è ancora da vedere. Io sono un ottimista, e penso che le cose andranno così.

P.A. Bertazzi:

Una domanda io vorrei fare prof. Martelet, non so se ha 7 risposte, una però deve averla. Dunque i Cristiani credono alla Bibbia, e la Bibbia ci presenta in due punti un racconto della creazione. Lei ha già implicitamente risposto, dicendo quali sono i motivi per i quali lei si è appassionato e ha studiato le origini dell'uomo; ma di fronte a questo portato della conoscenza scientifica, di fronte a questa capacità e possibilità nuova di conoscere l'uomo nella sua evoluzione; per dirla in termini molto semplici, che fine fanno Adamo ed Eva?

G. Martelet:

E’ un problema difficile questo. Credo che per fare un po' di luce in questo dibattito occorre distinguere l'origine dall'inizio. È un distinguo forse un po' sottile, ma che è molto importante. L'origine mira l'atto di Dio, come Dio fa sorgere l'essere dal non-essere; non possiamo assolutamente capire il "come" di quest'atto; possiamo capire, nella rivelazione cristiana, il perché: il perché è l'amore, e perché Dio ha la passione dell'altro, non soltanto dell'altro in se, per generare il proprio Figlio, ma la passione dell'altro, l’altro da se stesso, di un qualcuno che non ha nulla a che spartire, all'inizio, con Dio, e che vuole fare esistere. In altri termini, Dio si può capire come Creatore all'origine se non come un altruista, l'altruista assoluto, cioè quello che ama l'altro per se stesso, prima che l'altro addirittura sia, affinché l'altro sia: questo è l'origine, questo è l'amore. Questo non si può rappresentare, è un oggetto della fede, è una materia insondabile; si può riflettere, si può aderire e si può imitare, però ciò non può essere rappresentato. Per questo, quando si parla della creazione, si parla dapprima di questa origine, che è il mistero di Dio; però, nella creazione, c'è un altro aspetto, perché, dato che Dio ha voluto che ci sia un altro, si può trovare, si può osservare l'effetto di questa volontà. Allora avremo l'inizio, l'inizio di quest'altro da Dio, che è la creazione, non come atto segreto di Dio, bensì come risultato visivo, come risultato fenomenico. Ora, la Bibbia vuole insegnarci non tanto il come, ma il fatto: il fatto che Dio, se posso usare questi termini, e uscito da se stesso, e uscendo da se stesso ha fatto sorgere il mondo. È questo che dice la Bibbia, ed è questo che costituisce il messaggio irreversibile della Bibbia, che non sarà mai revocato, che non può essere messo in dubbio, perché Dio solo sa cos'è creare, e ci ha detto che ciò che è, esiste perché è uscito da Dio, e perché ciò che vediamo è la conseguenza di questa uscita di Dio da se stesso. Allora come rappresentare questa uscita di Dio, il fatto che Dio crei? Praticamente la Bibbia prende la rappresentazione migliore che conosca all'epoca in cui è stata scritta. Ora, il prof. Coppens potrà contraddirmi, nel periodo Neolitico, da cui dipende la Genesi, qual è l'atto artigianale più importante che caratterizza tale periodo? Non parlo qui della cultura, non voglio parlare del fatto di avere addomesticato gli animali; parlo del fare, del poièin. Qual è l'atto artigianale culturalmente principale? Bene, credo che sia la creazione dei vasi, del vasellame, la ceramica; l'argilla, l'acqua, il fuoco: questi tre elementi assieme daranno le forme, delle forme che poi si moltiplicheranno all'infinito, e che esprimeranno, sull'intera superficie della Terra allora conosciuta, la creazione artistica dell'uomo. Allora se la ceramica costituisce la modalità artigianale più elevata che ci sia, come, per spiegare la creazione dell'uomo, trovare una migliore immagine se non quella del vasaio? Ed è l'immagine che la Bibbia utilizza, per farci sentire che a livello empirico l'uomo è opera di Dio, qualunque sistema abbia usato per farlo esistere. Avete capito, penso, che il racconto della Genesi è un racconto simbolico, non è un racconto scientifico, che vuole evocare il fatto che Dio ha creato l'uomo, in tutto e per tutto. Vorrei dire che il racconto della Genesi costituisce una parabola, una parabola delle origini, come il racconto del figlio prodigo è la parabola, la parabola del nostro peccato e della nostra redenzione. Non cercate l'identità del figlio prodigo, non cercheremo l'identità dell'uomo se non dicendo: "è l'uomo, come è stato creato da Dio". Ecco, penso, il primo senso del racconto della Genesi; però vedete anche quanti errori si possono fare quando si comincia a utilizzare la Bibbia come un libro di scienza e non di saggezza e di rivelazione sulle verità religiose che definiscono l'uomo. Allora si fa un trasferimento di competenze, direi, si dà all Bibbia una competenza scientifica che non ha mai voluto avere, e si provoca il ridicolo sul messaggio religioso che ha voluto esprimere a livello simbolico, e cioè l'uomo, qualunque sia il modo in cui è creato, è opera di Dio, tramite le mani della natura, cioè della evoluzione. L'evoluzione sono le mani creatrici di Dio, dal punto di vista del fenomeno; per questa non c'è nessuna possibile contraddizione tra il racconto della Genesi, inteso in quello che vuole dire, cioè relativo alla responsabilità creativa di Dio, e dall’altra parte la scienza che ci dice il come della creazione da un punto di vista empirico. Per questo non solo dobbiamo ma possiamo mantenere insieme sia il racconto della creazione visto come una parabola delle origini sul ruolo nascosto di Dio, e la scienza che ci dice il modo in cui Dio ha creato. Sicché non c'è contraddizione, ma c'è unione nella distinzione totale dei piani: la Bibbia rivela il punto di vista religioso, e la scienza dà poi il processo concreto con il quale la creazione, nella natura, si è progressivamente compiuta, con l'appoggio nascosto di Dio.

P.A. Bertazzi:

Il prof. Coppens voleva aggiungere un commento, credo.

I. Coppens:

Volevo brevemente parlarvi di Adamo ed Eva, perché sono due persone che mi sono molto vicine: tutto sommato il mio lavoro, i miei anni di studio era di ricercare Adamo ed Eva. Ho un po' l'impressione di averli trovati. Immaginate l'Africa 10 milioni di anni fa; nel cuore di quest'Africa, nella zona equatoriale vivevano tranquillamente i nostri avi, e quando dico i nostri avi, mi riferisco ai nostri avi comuni, cioè quelli che avevano qualcosa in comune con gli scimpanzé e con i gorilla. Quest'Africa equatoriale era all'epoca molto rigogliosa: c'erano delle foreste, le savane, e tutto era perfetto. Ad un tratto la Terra fa un "crac": su 6.000 Km di lunghezza, una grande faglia, un grande taglio spacca, apre l'Africa e il Mar Rosso e quello che chiamiamo oggi il Vicino Oriente. All'inizio è soltanto un incidente tettonico, ed è molto facile per i parenti dell'Est andare a visitare i parenti all'Ovest, e viceversa; e poi questo sfregio, questo taglio, questa spaccatura, comincia a diventare partecipe di una trasformazione del clima. Il clima, che rimane molto umido all'Ovest, invece diventa vieppiù asciutto ad Est; mi riferisco all'Est e all'Ovest di questa faglia, di questo taglio. L'Ovest rimane rigoglioso, con delle splendide savane, delle foreste che si conoscono ancora, nel cuore del Golfo di Guinea, mentre l'Est, cioè l'Etiopia, la Somalia, il Kenya, la Tanzania, il Malawi, il Mozambico, diventano, come ben sapete, Paesi di savana molto più chiara, molto più secca, ed è tanto più vero che oggi, salvo le regioni situate ad una certa altitudine, sono zone immense con alberi di palme o qualche arbusto: è ciò che Hemingway chiamava "gli MMBE", cioè "migliaia e migliaia di chilometri di Africa spuria". Bene, una volta fissata questa panoramica in testa, pensate un po' che ad Ovest, oggi, si trovano gli scimpanzé e i gorilla, che sono vicini: hanno anatomicamente, biochimicamente e citogeneticamente somiglianze con noi; dall'altra parte, ad Est, troviamo, a 10 milioni, a 6, a 5, 4, a 3, a 2 milioni di anni fa, i preuomini e gli uomini. Ora la storia che vi racconto è la mia storia, e non pretendo affatto che questa sia la storia, però è strano constatare nei fossili della flora che questa siccità appare vieppiù ad Est, di constatare che sulle centinaia di migliaia di reperti, di ossa, che Lichey, Jhoansonn, Tailler, Owel e io stesso abbiamo scavato in 20 anni di ricerche, ebbene non c'è una traccia, un pezzetto, un frammento di osso di prescimpanzé o di pregorilla; non ce n'è uno. Quindi tutto sembra essersi sviluppato come se ci fossimo separati per motivi climatici, che l'uomo, più vulnerabile, in un ambiente più aperto si era adattato sviluppando la propria intelligenza, la sua tecnicità, e come se dall'altra parte le grandi scimmie avessero continuato la loro meravigliosa storia di adattamento (perché non si sono fermati, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare), questo meraviglioso adattamento ad un ambiente boschivo. In altri termini, per me Adamo ed Eva sono questi piccoli esseri, che chiamiamo homo abilis, che si sono adattati in modo incredibile a questo nuovo mondo molto difficile, dove si doveva essere molto attenti, dove si doveva essere più furbi, dove uno doveva essere più tecnico, dove si doveva mangiare di tutto un po' degli opportunisti, questi uomini che sono vissuti in questo paradiso terrestre, che è in quella splendida savana profumata dell'Africa orientale.

P.A. Bertazzi:

Prof. Ayala credo che si rossa dire che spesso la scienza è tentata di spiegare il complesso con le proprietà che hanno i singoli componenti. Potremmo dire che la scienza può avere la tentazione di spiegare quella complessità che è la situazione dell'uomo, il suo senso, il suo destino, basandosi su alcune proprietà, come quelle biologiche del meccanismo evolutivo. Credo tra l'altro che in termine tecnico questo si chiami "una posizione riduzionista", "riduzionismo". Allora l'impressione è che, questo approccio scientifico, come quello biologico, sull'evoluzione, sia ricco di notevoli risultati, ma che lascia fuori una certa quantità di informazioni che sono però essenziali per la conoscenza degli stessi quesiti che, credo, sostengono e spingono la ricerca scientifica. Lei crede che sia così?

F. Ayala:

Non c'è dubbio che il grande successo della scienza moderna dipende in grande misura dall'applicazione del metodo analitico, cioè è questo un approccio riduzionistico: si prende un problema complesso e lo si suddivide in tanti problemi più piccoli, oppure si prende un oggetto complesso e si studiano le sue parti componenti, che sono più semplici. Si tratta però di vedere se noi poi capiamo, se riusciamo a capire attraverso le parti componenti anche tutto l'insieme; io penso che, a differenza di quanto sembra ritenere la maggior parte degli scienziati, la risposta debba essere "no". La maggior parte degli scienziati ritiene invece che la risposta sia "sì", perché non ci hanno pensato. Noi possiamo conoscere tutto sull'ossigeno, e sull'idrogeno, e sull'azoto, e sul fosforo, e credo in questo modo, di avere già citato il 98% di ciò che costituisce l'essere umano, e facendo questo esempio estremo dovrebbe essere chiaro che capire l'ossigeno, l'azoto, l'idrogeno, il fosforo, il carbonio, anche se noi conosciamo tutte queste sostanze, ciò nondimeno non conosciamo l'essere umano. Adesso il problema è molto importante, è vitale, perché proprio negli ultimi anni, nell'ultimo quinquennio, abbiamo sviluppato delle tecniche che ci permettono di individuare esattamente la costituzione genetica dell'essere umano; sostanzialmente, il materiale ereditario, cioè quello che viene trasmesso dai genitori ai figli, e che ci fa come siamo. Si tratta di lungo codice di 200.000 lettere, e ogni lettera può essere soltanto di 4 tipi, A, C, D, e G. Noi adesso abbiamo individuato la costituzione esatta di molti geni per un totale di 200.000 lettere, ma non siamo ancora arrivati a spiegare neanche un millesimo della costituzione dell'essere umano; e quindi il problema non va sottovalutato, perché anche solo per scrivere questa sequenza di 200 mila lettere avremmo bisogno all'incirca di 1.000 volumi di 1.000 pagine ciascuno. Adesso noi stiamo cominciando a mettere queste informazioni nei computers, e soltanto i computers saranno in grado di manipolare queste informazioni; noi ci limitiamo a mettere le informazioni nel computer, e poi possiamo cominciare a porre delle domande specifiche. In ogni caso, è soltanto una questione di anni, di pochi anni: fra poco, fra pochi anni, noi disporremo della sequenza completa dell'informazione genetica, che costituisce l'essere umano.Ma quando noi avremo la sequenza completa, avremo capito che cos'è l'essere umano? Come ho detto, credo che la risposta possa essere soltanto "no". Eppure gli scienziati, seguendo questo approccio riduzionistico, induttivistico ed empirico, sembrano credere, perlomeno alcuni scienziati, che invece in questo modo avremo risolto tutti i nostri problemi, quando disporremo di tutte le informazioni genetiche che costituiscono l'essere umano. Io invece penso che nel giro di qualche anno il tempo dimostrerà che saremo arrivati soltanto all'inizio, un nuovo inizio. Bisognerà capire come stanno le cose invece facendosi delle domande sull’insieme, bisognerà cercare di capire che cosa sono gli uomini in sé, nel loro rapporto con altri esseri umani, e nel loro rapporto con l'ambiente. La risposta non ci verrà dalla genetica. Quindi, per ribadire la mia risposta originale, io penso che l’approccio riduzionistico sia veramente insufficiente. Dobbiamo sempre integrare le risposte riduzionistiche con delle risposte olistiche, cioè ponendoci degli interrogativi sull'insieme, cioè adattando un approccio sintetico, piuttosto che analitico. Quando gli esperti di genetica avranno completato la sequenza che riguarda la formazione dell'essere umano, ci saranno sempre i filosofi, i teologi, tutta una serie di altre persone che dovranno porsi delle domande importanti e cercare di rispondervi, anzi direi che queste sono le domande più importanti.

P.A. Bertazzi:

Vorrei, per chiudere questo momento di incontro con i nostri tre ospiti, fare un’ultima, brevissima domanda a loro. Al di là delle conoscenze, dei contributi che hanno dato le vostre conoscenze, direi, se posso usare l’espressione, voi, come uomini, cosa avete imparato da tutti questo lavoro, da tutta questa ricerca, da tutta questa messe di dati sulla domanda che più sta a cuore a noi. Della vostra esperienza, cosa sentireste di dire a noi, uomini diversi, diversi anche per idea, per età, per esperienza, che sentiamo una domanda sul nostro oggi come la domanda sull’origine? Una richiesta di una breve risposta, proprio personalmente.

G. Martelet:

Ciò che mi colpisce di più quando si vuole riflettere sulla creazione è che, credo, bisogna avere il coraggio di dire "certo, la creazione è opera della potenza di Dio"; tutto ciò che Dio ha voluto, lo ha fatto, in cielo e in terra. S. Agostino ha meditato a lungo, e non c’è nulla da dire di più, però creo che possiamo aggiungere qualcosa. Il massimo mistero della creazione certo è la potenza, ma è la potenza che occorre per avere l’umiltà necessaria per essere creatore, per creare, per Dio, è per così dire, lasciare, lui che è l’essere primo, lasciare il posto al non-essere. La creazione da parte di Dio è un atto di modestia, per così dire, è come l’oceano che si ritira affinchè la costa possa apparire. Creare, per Dio, è fare ciò che Heidegger chiede ai filosofi di fare: dice che il vero filosofo deve lasciare essere i tempi: è ciò che fa Dio. Dio lascia lo spazio al mondo, affinchè possa svilupparsi, ampliarsi, estendersi, non avere nessuna pastoia, nessun freno, alla sua espansione necessaria, e in modo che abbia tutta la libertà possibile per creare le forme che porta nel suo grembo, e che chiedono, per apparire, milardi e miliardi di anni. Sicchè la creazione costituisce un atto di umiltà da parte di Dio, di questo sfuggire dalla sua potenza, per lasciare apparire il mondo che non è Dio, in modo che, al termine della creazione, tutto il non-Dio possibile si sia presentato davanti all’eternità di Dio. Questa creazione non è un atto istantaneo: la creazione per Dio è eterna, è un atto di storia, è un atto di evoluzione, è un atto di pazienza. Rappresenta, per così dire, un po’ il maestro in un’orchestra, che dà il là, che dà il via, e che lascia poi l’orchestra suonare quello che vuole suonare, chiedendogli un’unica cosa: alla fine dell’improvvisazione dammi l’uomo affinchè possa io stesso farmi uomo, ed essendomi fatto uomo vi possa fare Dio. La creazione è un immenso progetto d’amore per un Dio che non ha fretta, e per un Dio che non è impaziente di manifestarsi, ma che è impaziente invece di vedere che tutto ciò che è vero, allora l’Incarnazione di Cristo assume una nuova dimensione. Vedete bene che in questa fantastica impresa, con la quale Dio dà a ciò che non è Dio il diritto assoluto di esistere, c’è una fantastica paura del non-essere rispetto all’essere assoluto, c’è un malessere del non-Dio rispetto a Dio. E il non-Dio non potrebbe portare questo fardello se Dio stesso, con la sua Incarnazione, non perdesse le veci del non-Dio per consentirgli di portare il peso tragico di questo divenire infinito della creazione; sicchè l’Incarnazione non si può spiegare in modo univoco; si spiega certo, col peccato, però si spiega anche, e forse prima di tutto, con l’amore di un Dio che, facendo del non-Dio, non vuole lasciarlo alla paura di non essere Dio. In questa prospettiva, non dobbiamo soltanto riflettere, come alla luce di S. Agostino, o alla luce del peccato originale; bisogna riflettere anche alla luce di Sant'Ireneo, che spiega l'Incarnazione con il divenire progressivo della creazione, che ha bisogno dell'appoggio di Dio per andare fino al suo termine, là dove Dio lo chiama. Se ciò è vero, allora il nostro compito di cristiani e - ovviamente il compito del teologo - è di ascoltare la rivelazione, nella sua integralità, in funzione di tutto ciò che l'uomo può sapere scientificamente. Ma deve anche resistere, il teologo, e qualsiasi cristiano, alle sirene, all'appello dello scientismo, non della scienza, notiamo bene, e del materialismo, non della materia; per ascoltare veramente non solo il big bang cosmico, per ascoltare nascosto nell'ultrasuono della fede il big bang eterno dell’amore di Dio che crea il mondo, per entrare nella sua creazione, affinché questa sua creazione non possa ribellarsi contro il suo creatore. Se Ulisse dovette farsi legare alla nave per resistere al canto delle sirene, siamo tutti Ulisse, però bensì all'albero della Croce, alla Croce, che ci rivela che l'orizzontalità del mq! rido è solcata dalla verticalità del dono di Dio, e che è impossibile capire l'uomo se lo si riduce alla sua mera orizzontalità e se non si accetta la verticalità assoluta del rapporto dell'uomo con Dio, che è la base del rapporto uomo-Dio nel mistero di Cristo crocefisso e resuscitato.

P.A. Bertazzi:

Grazie, prof. Martelet. Prof. Coppens, un suo breve commento conclusivo.

E

I. Coppens:

Dopo la conclusione dell'amico Martelet, dopo questo lirismo non posso dire altro se non delle banalità. Dato che sono il paleontologo, qui, non voglio limitarmi a parlarvi a filo della Terra, ma nel seno della Terra. E posso dirvi che la ricerca scientifica è una materia che vi riempie sempre, è una materia che colma la realtà, perché la realtà va ben oltre la finzione; e vorrei a questo proposito raccontarvi un aneddoto personale. Non importa se ha un'altra visione rispetto a ciò che abbiamo sentito. Quando ero giovanissimo, molto giovane volevo diventare due cose: soldato nero e paleontologo. Al collegio mi chiamavano "il fossile"; dato che siamo un po' tra di noi, posso dirvi di più: mi chiamo Coppens, e mi chiamavano "Cocco" il fossile; ora, sono partito alla ricerca delle tracce dell’antico uomo nell’Africa nera, e sono certamente il paleontologo più felice. `k 1

P.A. Bertazzi:

Prof. Ayala, la sua breve conclusione.

F. Ayala:

Darò il mio messaggio con due dichiarazioni molto semplici: la prima è che secondo me non c'è dubbio che la scienza ha qualcosa di importante da insegnarci sull'origine dell'umanità, e quindi anche sulla natura umana. Essa ci insegna a un livello molto diverso dal livello religioso: ci insegna che chiunque vuole capire bene che cosa è l'umanità, o che cosa è l'essere umano, deve sapere che noi per discendenza siamo imparentati con tutte le altre creature viventi, e in particolare con le scimmie dell'ordine superiore. Noi discendiamo da esseri che non erano umani. La seconda cosa che vorrei dire è che non dovremmo mai avere paura della scienza; qualsiasi cosa che è vera per il credente non contraddice la fede. C'è stato in passato uno spettacolo molto triste a cui abbiamo assistito; noi abbiamo visto dei credenti, credenti di poca fede, che cercavano di negare l'evidenza della scienza, per paura che in qualche modo la scienza potesse contraddire le verità della religione. Come ha detto Padre Martelet, non ci può essere opposizione, semmai ci può essere un complemento. Noi dobbiamo ascoltare la scienza, e non opporci ad essa. Grazie.

P.A. Bertazzi:

A me non resta, a questo punto, in realtà, che una delle due cose che intendevo dire: la prima era un ringraziamento, ma mi pare che il vostro applauso l'abbia espresso in maniera sufficientemente chiara e, se permettete, anche affettuosa; la seconda cosa che volevo ricordarvi è che ringraziamo per la loro cortesia sia il prof. Ayala che il prof. Coppens, che, spostando un po' i loro programmi di viaggio, saranno disponibili nella giornata di domani per quanti di voi vorranno riincontrarli. Grazie ancora ai nostri ospiti, grazie a voi, e buona continuazione del Meeting.