Martedì, 28 agosto, ore 11,15
RACCONTARE L’UOMO E I POPOLI
Al Young, statunitense, poeta, narratore e musicista, già docente di letteratura nelle università californiane di Berkeley e di Stanford Antonio Olinto, brasiliano, poeta, narratore e saggista, docente di letteratura nelle università di Rio de Janeiro (Brasile) e dell’Essex (Inghilterra), già addetto culturale brasiliano a Lagos, Washington e Londra
Per conoscere un popolo si è soliti oggi servirsi soprattutto delle scienze: dalla demografia alla sociologia, all’economia ed alle scienze politiche. Non ci aiutano però molto le scienze a cogliere l’anima di un popolo, i suoi valori, la sua cultura; anzi spesso finiscono per nasconderli. Cogliere e comunicare l’anima di un popolo, tramandare la memoria consapevole dei suoi grandi avvenimenti è sempre stato, fin dall’antichità, compito dei poeti. Perciò il Meeting dà la parola a due poeti, uno nato e cresciuto in una comunità rurale del Mississippi, nel profondo Sud degli Stati Uniti, e l’altro nel Brasile: non per avere dei dati e delle informazioni, ma per meglio cogliere e comprendere l’anima di quella componente di grosso rilievo dei popoli delle Americhe che sono gli afro-americani.
Al Young
Sono cresciuto in case in cui le ‘jam session’ verbali erano cosa comune, soprattutto nei giorni di festa: gente assiepata che conversava senza fine raccontando storie, comunicando esperienze, osservazioni, battute, indovinelli, giochi di parole, proverbi. Il nostro dire era musicale. Gli anziani spesso citavano le Scritture, e noi ragazzi mimavamo le voci ed i gesti degli altri, arricchendo i nostri discorsi i ancora impacciati con sprazzi di saggezza proverbiale Usavo rannicchiarmi in un angolo su una stuoia, oppure infilarmi a letto sotto calde coperte lasciando aperta la porta della mia stanza. E cosi, fingendo di essermi addormentato, potevo liberamente starmene ad ascoltare gli adulti che continuavano i loro discorsi alla luce delle lampade di petrolio con i grilli, o la pioggia, o il vento come sottofondo, tanto tempo fa laggiù á Pachuta, nelle campagne del Mississippi, e in altri posti ancora, molto lontani da qui Il linguaggio, con i suoi schemi cuciti insieme a punti larghi, fatti di melodie e suoni, alti acuti e bassi, era per me una cosa reale, concreta. Era tutto estremamente e misteriosamente chiaro, come i lampi che rischiarano le notti d’estate senza stelle, dandoci a sprazzi brandelli del codice universale. Mio cugino Jesse e altri ragazzi dedicavano a questi temi lunghe conversazioni. Forse allo stesso modo ne parlavano tra loro anche le lucciole. Ci immaginavamo che alla base di tutto questo ci dovesse essere un cifrario luminoso che gli uomini non potevano capire. Ciononostante cercavamo per delle ore di capirne il segreto, almeno quando non correvamo attorno per prenderle, chiuderle in bottigliette e farci così delle lanternine tutte per noi. Anche il levarsi e poi lo spegnersi del coro delle locuste nei pomeriggi afosi aveva pure qualcosa di magnetico Furono d’altro canto le locuste a provvedere al sottofondo musicale di un episodio che mi è rimasto impresso, e che ancora oggi ronza nei circuiti della mia memoria. Avevo appena finito di dare da mangiare alle galline, ed ammazzavo il tempo disegnando con un bastoncino delle lettere nella fanghiglia del cortile, quando da chissà dove apparve un vecchio ‘hobo’, un vagabondo vestito di stracci, il sorriso sulle labbra. L’uomo indossava un cappello di paglia scolorito e snervato, e portava con sé un sacco di quelli che si dice portino gli jettatori. Mi levai in piedi, trasalii e stetti a vedere che cosa avrebbe fatto Claude. Claude era il nostro lustro, nero cane da pagliaio, al cui naso acutissimo di solito nulla sfuggiva. Ma Claude non si muove, e nemmeno si mette ad abbaiare, Il forestiero vestito di stracci, di un sogghigno, si accovaccia sui gradini del portico armato di nulla se no dove Claude sta come assopito e, dopo avermi accennato un amichevole ‘Come va?’, accarezza la testa del cane segnata dalle punture delle zecche con la stessa gentile familiarità con cui l’avrebbe fatto uno di noi. Mama, la mia nonna, stava venendo dall’orto con il grembiule pieno di fagioli, di pomodori verdi e d’altre verdure a pena colte. Mi accorsi che era non meno sconcertata di me. Tuttavia atteggiò A volto al sorriso, ci raggiunse e scambiò alcuni convenevoli con il vagabondo. L’uomo non chiedeva cibo né qualche lavoretto da fare; passava da quelle parti ed aveva perso la strada, tutto qui. Mama, con la sua dentiera d’oro che sfavillava alla luce del tramonto, pazientemente gli indicò la via giusta, lo invitò a cogliere e portarsi via qualche fico e poi lo mandò per la sua strada. Sembrava un tipo inoffensivo. Ma quando se ne fu andato, Mama studiò Claude, mi lanciò uno sguardo e poi andò su a mettersi all’ombra del porticato. Quindi, stringendo i suoi lucenti occhi neri, disse: "I do believe that old rascal musta hoodoo’d that dog," penso proprio che quel vecchio mascalzone abbia stregato quel cane con la magia hoodoo’. Forse avevo sette anni all’epoca, forse otto, ma non avevo mai sentito parlare di ‘hoodoo’. Il suo significato mi era stato tenuto nascosto. ‘Che cosa è questo hoodoo, Mama?’, le chiesi, ‘E la magia del diavolo’, mi rispose. ‘Vedi’, continuò, ‘Dio ha la sua magia e anche A diavolo ha la sua, l’hoodoo. E io preferisco non aver nulla a che fare con le persone dell’hoodoo, e ne sono sempre stata lontana. Se sento qualcosa di strano questa notte userò la pistola’. Ora questa era la stessa donna che da mattina a sera lavorava cantando gli spirituals; la stessa che mi insegnava a benedire il cibo con una preghiera ed a dire il bellissimo salmo 23. E’ questo l’ambiente in cui la poesia è cominciata in me. Forse nessuno coglie la poesia meglio dei bambini. E in quanto a me, diversamente dalla maggior parte della gente, da allora ad oggi io non mi sono mai disfatto del bisogno del magico o dei poteri terapeutici del linguaggio. La quiete verde di quei pascoli è più che mai vivida in me, e posso vedere ancora le forme delle nubi ed il cielo riflettersi in quelle acque. Non prendo alla leggera Giovanni quando dice: ‘In principio c'è la Parola, e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio’. Anche adesso, nell’Era nucleare, ora che veniamo continuamente ridotti a dei ‘micro-chips’, in un’epoca come la nostra in cui la funzione della poesia è denigrata e banalizzata, ora che nelle società post-letterarie nel migliore dei casi si guarda all'espressione poetica come ad un mero divertimento, ebbene io continuo a vedere il Creato come attuazione del Verbo di Dio, quale indicibile essenza come di sogno di una cosmica mirabile presenza. Un’esperienza di vita sostenuta ed intensa, ed A coinvolgimento con l’arcano del linguaggio, hanno aperto sia le mie orecchie che i miei occhi alla grandiosità della Parola ed al suo potere di trasformare la percezione e la consapevolezza: se volete al suo potere di trasformare la realtà Molto prima che le parole stampate e che stantie idee letterarie venissero a scombinarmi la vita, e certamente assai prima che diventassi il docile allievo dei miei insegnanti, io già dormivo con le parole, ci giocavo, le annusavo e le accostavo alle mie orecchie per sentirne il significato segreto "I always knew you were gonna be strange", ho sempre saputo che saresti stato un tipo strano’, mi ha recentemente ricordato Mama. Ha quasi cento anni adesso: è una piccola donna di campagna bella e piena di forza, i cui occhi appena un po’ umidi possono ancora guardare a fondo dentro di me. Da tempo mio padre ha lasciato questo mondo, ed anche mia madre se ne è appena andata. Ho girato dal Mississippi al Michigan e alla California; sono stato un po’ in tutto il paese e in tutto il mondo. E Mama è ancora lì a dirmi le cose che ho bisogno di ascoltare: ‘Ho sempre saputo che saresti stato un tipo strano Quando eri ancora un bambino piccolo ti mettevamo per terra con un libretto o una rivista in mano, e tu giravi le pagine e ti sforzavi di capire e poi ad un tratto sparivi in un altro mondo. Bastava darti dei libri e non piangevi, eri felice. Non ho mai visto niente di simile’. Tutta la mia vita ho cercato di conservare ed espandere la gioiosa purezza di quei primi momenti e le magiche parole di cui essi si nutrivano
A. Olinto:
Prima di tutto vorrei veramente congratularmi con lo spirito che regna qui a Rimini. Non c’è niente oggi al mondo che assomigli a questo Meeting di Rimini. Niente d’uguale a questo spirito. Niente d’uguale a questo entusiasmo per la conoscenza delle nazioni e della loro essenza. Avete scelto molto bene A tema dell’incontro di quest'anno, ‘America, Americhe’. Esistono, infatti, molte Americhe, almeno quattro o cinque. Ci sono gli Stati Uniti e c’è il Canada, con una cultura in parte inglese ed in parte francese, e che non ha nulla da spartire con gli Stati Uniti. Poi c’è l’America spagnola, e quindi quella portoghese, cioè il Brasile. Dire del Brasile che è l’America portoghese non è però dire tutto. Il Brasile, è parla portoghese, ma in effetti non è soltanto un paese d’eredità latina. L’antica presenza originaria degli indios; poi ci sono molti altri contributi: italiano, spagnolo, tedesco, greco, polacco, libanese, giapponese (un milione di giapponesi e loro discendenti, la più grande colonia giapponese del mondo). Al di là di tutto questo direi però che il Brasile è in sostanza un paese afro-latino, con una cultura afro-latina. Il Brasile è il secondo paese africano del mondo. Il primo è la Nigeria, in Africa, con 90 milioni di abitanti; ma il secondo è appunto il Brasile, dove, su 130 milioni di abitanti, circa 35 milioni sono negri o mulatti. Io stesso, che sono discendente di portoghesi, come la maggior parte dei brasiliani partecipo tuttavia della cultura africana. Perché, malgrado anche negli Stati Uniti ci sia una consistente presenza afro-americana, il Brasile è cosi più africano degli Stati Uniti? In primo luogo perché, diversamente che negli Stati Uniti, in Brasile le antiche religioni africane, perlopiù di origine Yoruba, non si sono estinte. A Rio de Janeiro si contano oggi circa tremila luoghi di celebrazione della ‘macumba’, e si calcola che ogni settimana almeno tre milioni di persone partecipino a riti di questi culti afro-brasiliani. Si tratta di religioni le cui prime origini risalgono all’antico Egitto, da cui poi si diffusero estendendosi da una parte, verso nord-est, fino alla Grecia classica e dall’altra, verso sud, nel Sudan. Più tardi, quando i Romani cercarono di conquistare il Sudan, molti sudanesi, in fuga dal loro paese, si rifugiarono nell'attuale Nigeria ed in altre regioni del Golfo di Guinea portando con sé la propria religione. Di qui essa raggiungerà poi le Americhe insieme agli schiavi deportati al di là dell'Atlantico dei negrieri. Perciò le antiche religioni degli Yoruba trapiantate nel Brasile sono cosi simili alla religione della Grecia classica. Alla Venere, a Marte ed a Minerva corrispondono rispettivamente le nostre divinità afro-brasiliane Oshun, Ogun ed Oya. Sia nella Grecia classica sia da noi gli dei e le dee sono forze della natura personificate: il dio del fuoco, del vento, del mare, della terra. Perché questa religione è stata conservata in Brasile e perché non ha preso radici o messo radici negli Stati Uniti? Io penso che la ragione di ciò sia di ordine ecologico. Infatti se si studia una carta geografica, se si vede A Brasile da un lato e l’Africa Occidentale dall’altro, si capisce bene che hanno praticamente lo stesso clima, sono sotto la stessa latitudine ed hanno gli stessi alberi, gli stessi frutti. Ebbene, nelle religioni africane è necessario fare delle offerte, delle ‘offrende’ agli dei: cibi, frutta. Quando gli africani arrivarono in Brasile trovarono gli stessi alberi, la stessa vegetazione, gli stessi frutti da offrire ai loro dei. Negli Stati Uniti invece non c’era niente di adatto da offrire, perciò gli dei africani morivano di fame, di inedia; ecco perché non si sono diffusi. Anche il clima nell’Africa occidentale è assomigliante; un clima tropicale dello stesso tipo, in tutte e due le sponde. La religione è stata trapiantata dall’Africa Occidentale in Brasile, perché i suoi dei erano degli dei tropicali che potevano vivere nel Brasile, e non invece nel Nord America. Perciò anche oggi i riti che si celebrano a Rio ed a Bahia sono uguali a quelli che si possono veder celebrare lungo le coste del Golfo di Guinea. Non solo: in Brasile, insieme alle antiche religioni, è sopravvissuta anche la lingua degli Yoruba. Lo Yoruba è il latino degli afro-brasiliani di Rio e di Bahia. Prima di recarmi in Africa, dove ho vissuto per tre anni, conoscevo già un po’ di Yoruba e, cosa più importante ancora, conoscevo dei canti in Yoruba. A Lagos, in Nigeria, nei mercati, nei quartieri, ho poi sentito parlare la stessa lingua Yoruba che parliamo a Bahia. In quanto scrittore devo dire di esser stato influenzato dalla lingua Yoruba. Anche se scrivo in portoghese il ritmo di certi miei libri è un ritmo Yoruba. D’altra parte il mio non è un caso atipico; in effetti la lingua di tutti in Brasile è influenzata dallo Yoruba. Vi faccio un esempio: in Yoruba non ci si limita a dire ‘Buon giorno’; il saluto è, infatti, una specie di breve componimento poetico ad hoc. Ad esempio, se entra in una stanza qualcuno vestito di bianco e di rosso, un nigeriano Yoruba non si limiterà ad un breve ‘Buon giorno’ ma dirà: ‘O tu che entri in questa stanza vestito di bianco e di rosso, ti saluto e ti auguro di non morire oggi’. Ebbene anche nel portoghese del Brasile si tende a non limitarsi a formule di saluto stereotipe, ed a formulare invece componimenti di saluto di genere analogo. Vorrei, prima di concludere, toccare il tema generale di questo Meeting: "L’impossibile tolleranza?". Rispondo che la tolleranza non è affatto impossibile purché si giunga ad un’autentica cooperazione internazionale. E’ però difficile essere tolleranti quando si ha fame, o se si è stati bambini in stato di abbandono. Occorre quindi risolvere il problema della fame e dell’infanzia abbandonata. Quello dell’infanzia abbandonata è certo il problema più grave del mio paese, il Brasile. Si calcola che in Brasile ci siano 25 milioni di bambini abbandonati; 25 milioni, pari al 20% dei brasiliani. Molti di più della popolazione di Cuba (5 milioni) o del Nicaragua (8 milioni), l’equivalente della popolazione dell’Argentina. Mia moglie ed io abbiamo lanciato in Brasile un'iniziativa, una campagna che si chiama degli ‘squadroni per la vita’, un nome che è una parafrasi dei tristemente noti ‘squadroni della morte’. Si tratta di un’iniziativa a favore dei bambini brasiliani abbandonati. Il problema più grave del nostro paese, infatti, non è l’indebitamento con l’estero; il problema più grave sono questi bambini abbandonati.