Droga
e carcere: è possibile la speranza?Domenica 21, ore 15
Relatori:
Antonio Mazzi
Francesco Di Maggio
Oreste Benzi
Sacerdote dell’Opera Don Calabria, Don Antonio Mazzi è l’ideatore del progetto Exodus per il recupero dei tossicodipendenti
Mazzi: Vorrei premettere che, parlando di tossicodipendenza e carcere, è necessario sottolineare che il tossicodipendente non è un delinquente per scelta, ma si trova a compiere reati contro la sua volontà ed è da questo punto di vista che deve essere giudicato. Che cosa, dunque, è possibile fare per i circa 2.000 tossicodipendenti che sono in carcere? È assurdo pensare che possano uscirne ed entrare in comunità, perché noi non siamo assolutamente preparati ad accoglierli. La maggior parte delle comunità non ha infatti né le strutture né gli uomini necessari per ricevere ragazzi che non sono veramente motivati a cambiare ma che desiderano solo uscire dal carcere.
Il nostro compito è quello di creare al più presto delle strutture intermedie tra il carcere e la comunità o la società che aiutino i ragazzi a riflettere e a trovare le motivazioni per un cambiamento, in modo che l’uscita non sia un’ulteriore sconfitta per il tossicodipendente.
Sia tale struttura sia il carcere a custodia attenuata, di cui si accenna nella Legge, non devono quindi essere considerati soluzioni definitive, ma mezzi per ricaricare e rimotivare il ragazzo. Io sono disponibile a fare questo, però occorre che questo Stato, se c’è, sia disponibile a darci delle strutture e a lasciarci la possibilità di collaborare con alcuni operatori carcerari disponibili ad una revisione del loro modo di stare in carcere e con alcuni dei nostri, disponibili a vedere in modo diverso il loro ruolo di animatori di comunità.
Francesco Di Maggio, Vice Direttore Generale del Dipartimento di Amministrazione penitenziaria del Ministero di Grazia e Giustizia
Di Maggio: Vorrei raccogliere immediatamente la provocazione di don Mazzi, il quale ha detto una cosa estremamente vera, anche se parzialmente: all’Amministrazione mancano punti di riferimento. Bisogna ribadire in modo chiaro e netto che bisogna riscoprire il gusto della Amministrazione: carità è anche servire. Il punto di inizio della rivoluzione culturale nell’Amministrazione dello Stato sta nel fatto che gli amministratori servono lo Stato e la comunità e non si servono dello Stato. Mi importa davvero poco che il politico faccia le sue scelte strategiche, io ho un riferimento preciso che non posso in alcun modo eludere, né scavalcare: la legalità. Difesa della legalità significa anche dire esattamente che cosa succede.
Sul penitenziario si scarica un ammasso di problemi che con il penitenziario non ha nulla a che vedere. L’avete verificato in questi giorni: debbono essere liberate le isole, trasformate in territorio penitenziario, perché è bene non sottrarre ai cittadini la fruibilità e la godibilità di queste, ma nessuno ha detto che una legge dello Stato in vigore impone all’Amministrazione Penitenziaria di dismettere l’isola di Pianosa e l’isola dell’Asinara al 31 dicembre del ‘95. Strepitano tutti sul trattamento riservato ai detenuti differenziati ex 41 bis (i mafiosi cattivissimi, come li chiamavo io), ma qualcuno ha mai legato l’efficacia di questa normativa ai risultati che sono stati ottenuti? Si gioca sul fatto afflittivo, come il fatto di dover fare i colloqui con lo schermo di vetro, che non consente al mafioso di poter toccare la mano dei propri bambini, ma vogliamo ricordarci dei padri, delle madri e delle mogli, della vedova Schifani e di tutti gli altri morti che quelle mani non possono più toccare?
In carcere non c’è soltanto l’umanità dolente, i vinti e i poveri; in carcere ci sono anche categorie, per la verità minime rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione penitenziaria, che non vogliono nessun tipo di relazione e di recupero, che tentano solo ed esclusivamente di conquistare spazi per continuare a gestire dall’interno il territorio.
Un’amministrazione corretta deve porsi il problema della differenziazione dei circuiti carcerari. Ne parla già una legge dello Stato, del 1975, che impone all’amministrazione di differenziare i circuiti; che i condannati non possono stare con i detenuti in attesa di giudizio; che i giovani non possono stare con gli adulti; che i pericolosi non possono stare con i condannati o in attesa di giudizio per fatti bagatellari. A fronte di questo c’è invece una confusione strutturale all’interno del penitenziario, che non ha probabilmente simili.
La popolazione carceraria nell’ultimo anno è cresciuta in media di 1200-1250 unità al mese, ma i fondi dei capitoli più importanti non solo non crescono proporzionalmente, ma alcuni si decrementano, diminuisce proprio il fondo che è destinato, per legge, a finanziare l’attività di lavoro. Se non si vuole capire che il trattamento all’interno del carcere risiede essenzialmente nella offerta e nella tutela della possibilità di ciascun detenuto di lavorare, del penitenziario non si è inteso assolutamente nulla. Si immagina che il trattamento, e questo è il risultato evidentemente di una fortissima pressione ideologica, possa riposare universalmente in una serie di conversari tra il detenuto e le cosiddette équipes psicopedagogiche. Il primo articolo dell’ordinamento penitenziario che viene citato a sproposito, reca che il trattamento è fondato sulla osservazione scientifica della personalità. Io non so bene come si possa osservare scientificamente la personalità, so però qual è la qualità media degli osservatori. Un ottimo parametro per osservare la personalità dei carcerati è quello del lavoro: la mattina alle 8.00 ci si presenta a lavorare e se non ci si presenta se ne ha una conseguenza negativa. Voi sapete che c’è la liberazione anticipata e si ha uno sconto di un certo numero di giorni per semestre e c’è una proposta di portare questo numero di giorni a 60 per semestre. Ciò significa che se passa questo tipo di normativa, ogni detenuto definitivo avrà un terzo di pena scontato per il solo fatto del decorso del tempo. Io dico che possiamo fare anche uno sconto netto del 50% a condizione di avere la possibilità di verificare all’interno della struttura che i detenuti hanno operato dei percorsi di rieducazione, che sono passati attraverso il sacrificio. Voi credete davvero che un rapinatore incallito sia disposto a mettersi a lavorare per quattro anni ogni giorno e mandare i soldi a casa? Se lo fa, vuol dire che ha tagliato con l’esperienza del passato; io sono pronto a scommettere che rimesso in libertà non avrebbe più nessun tipo di sollecitazione a ripetere l’esperienza del passato. Il lavoro penitenziario deve essere rivitalizzato e lo Stato deve impegnarsi allo spasimo per farlo. Le esperienze del passato non inducono certamente alla speranza, ed è questa la scommessa che tentavamo di fare, occorre aprire il carcere a qualsiasi tipo di apporto esterno. Abbiamo costituito una società, per dare lavoro ai carcerati, la Spes, fondata da Regione Lombardia, Dipartimento amministrazione penitenziaria, Compagnia delle Opere, Gruppo Abele di don Ciotti, Gruppo Exodus di Don Mazzi, perché tutti possano lavorare nei settori trainanti.
In questo esperimento si costituisce una società in cui è presente il volontariato e in cui la parte maggiore della struttura, del capitale sociale è in mano agli enti pubblici ed è proprio agli enti pubblici che si chiedono le commesse per far lavorare i carcerati.
E si scopre così, per esempio che nel comparto dell’informatica, se tutte le amministrazioni locali passassero all’amministrazione penitenziaria il 10% delle commesse che invece vengono date all’esterno, noi saremmo in condizione di dare lavoro al 60-70% dei detenuti, con una operazione che non costa assolutamente nulla neppure in termini di pensiero, neppure in termini di organizzazione.
Questo è il futuro del penitenziario. Un penitenziario a 3 velocità, a 3 circuiti: il circuito di chi non vuole sperare e che deve restare condannato alla sua sorte, perché non bisogna avere paura delle parole. Se il signor Riina vuole continuare a comandare Cosa Nostra, non vuole venire dalla parte dello Stato e della legalità, può stare là dov’è: la coscienza non mi rimorde. Mi rimorde invece la coscienza per i tossicodipendenti, che non sono aiutati; per i condannati a pene bagatellari, che non hanno nessun tipo di aiuto e sono invece confusi in questa massa infernale, in mezzo a tutti gli altri.
Ai circuiti più bassi bisogna aprire il carcere, aprirlo verso l’esterno.
Impegnamo per esempio la conferenza Stato e Regioni ad affrontare questo problema non soltanto sotto il profilo sanitario, ma soprattutto sotto il profilo del trattamento della tossicodipendenza e anche sotto il profilo del lavoro.
La progettualità si scontra però con la burocrazia; il burocrate non penserà mai in questi termini, perché è completamente al di fuori dei valori culturali, questa è la verità, questo è il limite, che non vale soltanto per il penitenziario, ma vale per tutti. E allora c’è tanto da fare in carcere sicuramente, per andare a dare una mano a chi veramente ne ha bisogno.
Don Oreste Benzi, responsabile della Comunità "Papa Giovanni XXIII"
Benzi: Attualmente noi, come comunità Papa Giovanni XXIII abbiamo il 40% dei giovani in terapia che hanno problemi connessi alla giustizia, quindi, su 400 giovani che abbiamo 160 hanno problemi con la giustizia per delitti commessi contro la persona o contro il patrimonio. Quindi 160 ragazzi, e di questi la metà circa sono da noi per il 47 bis, cioè sospensione della pena in vista dell’inserimento sociale, il 20% vengono grosso modo dal carcere e dagli arresti domiciliari. Qual è l’osservazione che in questi anni di presenza e di condivisione io ho maturato dentro di me? Il carcere così come è non serve a redimere realmente. La frase è troppo dogmatica, troppo assoluta, però vuole sottolineare un fatto: non serve, però ha un vantaggio, ed è questo: suscita il desiderio di uscir fuori dal carcere. Il giovane tossicodipendente che è entrato in carcere oppure che ha delle pene che stanno per scattare su di lui, desidera evitare il carcere, desidera uscirne. È evidente allora che si può patteggiare, e il giovane entra in comunità per fuggire il carcere, però rimane in comunità per la vita che ha trovato in carcere e qui trova i motivi che lo fanno restare. Il problema quindi è che non posso chiedere la salvezza del tossicodipendente al carcere; io devo avere delle possibilità che rispondono alle attese del giovane e quindi è tutta la società che è coinvolta nel problema, per questo io chiedo un’assunzione di responsabilità nostra.
Vorrei premettere che il disagio che sfocia nella tossicodipendenza è di tipo relazionale e risiede nel bisogno di essere qualcuno, di sentirsi esistere per qualcuno, il bisogno di avere uno spazio vitale, ruoli precisi, responsabilità, di avere una speranza da organizzare e una storia da compiere. Non possiamo porre tutta la nostra attenzione solo sul carcere, ma sulla causa profonda che genera questo stato di cose. Il carcere crea però nel giovane il bisogno di uscirne e noi abbiamo strutture valide, possiamo far ritrovare al giovane quella vita che lui ha abbandonato e ha lasciato perché non era più vita. Il discorso quindi sul carcere non va disgiunto dalle comunità, la responsabilità è anche nelle comunità! È una responsabilità collettiva, dobbiamo smettere di pensare che la salvezza venga da qualcuno e non da tutti.
Già nel carcere il giovane può essere illuminato sulla sua vita, se in quel luogo può incontrare persone serie che lo vogliono aiutare a ritrovare il senso della vita.
A questo punto io vorrei parlare del delinquente comune.
Delinquere significa sciogliersi dalle regole sociali ed il problema è quindi gravissimo. Quando un ragazzo sceglie di uscire dalle regole sociali è forte la responsabilità collettiva. Si possono forse biasimare i niÍos de rua che sfondano le vetrine dei ricchi? È possibile che nel nostro paese i giovani rimangano disoccupati fino ai trent’anni?
Io faccio una proposta, può darsi che sia ingenua, ma perché far stare la gente in carcere? perché invece non parliamo di strutture complementari, non ausiliarie, ma complementari, dove l’uomo, anche il più delinquente, anche quello che ha commesso i delitti più gravi, dopo aver accertato che ha un minimo di volontà di rinascere e di avere un’altra vita può stare?
Io vi dico che nelle nostre comunità terapeutiche, i migliori operatori sono i nostri ragazzi handicappati gravi e gravissimi, e noi ne abbiamo uno o due in ogni struttura di recupero. Sono accanto agli operatori che si incatenano condividendo la vita ai ragazzi che sono in terapia e non slegano la loro finché le catene dei ragazzi non sono sciolte. Moltissimi ragazzi ritornano a Dio dentro le strutture, non che risolvano il problema, però la ricerca religiosa è piena e completa. Io sono convinto, e non perché sono prete, ma perché ci credo e ve lo dico, che senza una relazione con l’infinito è difficile supportare la relazione con il limite.
Credo infine che il futuro carcere sia questo: uno spazio vitale dove l’uomo ritrovi veramente se stesso, altrimenti solo la contenzione e la repressione non servono a niente.