Nel cielo della realtà

 

 

Mercoledì 26 agosto, ore 21.45

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Relatore:

Riccardo Muti, Direttore d’Orchestra

Moderatore:

Renato Farina

 

Farina: Volevo anzitutto chiederle che ricordo ha della serata a Sarajevo.

Muti: A Sarajevo c’era la sensazione della morte tutt’intorno e di un pubblico che, attraverso la musica, cercava l’anelito ad una vita nuova, ad un futuro ancora incerto che nasceva sulle macerie ancora fumanti. Eseguire musica coincideva quindi con il portare un messaggio di grande spiritualità e di grande speranza. Per questo c’era una commozione straordinaria che non si può definire con parole. Ciò che aveva maggior valore era il messaggio insito nella nostra esecuzione, più che l’esecuzione tecnica: non dimenticherò mai il momento in cui i musicisti dell’orchestra filarmonica di Sarajevo - per via della guerra erano rimasti in 37 di un orchestra sinfonica che generalmente ha 100, 120 elementi - sono entrati sul palco e si sono uniti ai musicisti della filarmonica della Scala e hanno cantato insieme a loro il Va pensiero del Nabucco. Hanno suonato e cantato con una assoluta unità di intenti, pur non avendo mai fatto prove: è stata una dimostrazione, lampante e palpitante, che la musica veramente non conosce frontiere, ma unisce persone di culture diverse, di lingue diverse, di stati sociali diversi, li unisce decisamente e immediatamente.

Farina: Si ricorda la prima musica che ha sentito?

Muti: All’età di due anni i miei genitori mi portarono al teatro Petruzzelli, e sembra che io abbia sentito per la prima volta La Traviata: mi dicono che rimasi fino alla fine dell’opera senza dare segni di impazienza o strilli da poppante. Questo fu considerato molti anni dopo, come un segnale della mia musicalità. Questo è stata la musica che io ho sentito a livello incosciente, invece la prima musica che ricordo molto chiaramente sono le stonazioni che facevo emettere dal mio povero violino all’età di sette anni.

Non sono stato né un bambino prodigio né un bambino che fin da piccolo - come spesso si usa oggi - voleva fare il musicista o addirittura il direttore d’orchestra. All’età di sette anni ho ricevuto in dono un astuccio di violino: è stata una delle cose più terribili della mia vita, perché mi aspettavo la pistola ad acqua, il trenino, il fucile... invece ho trovato questo violino. Mi hanno messo il violino in mano perché mio padre credeva profondamente - come don Giussani - che la musica fosse elemento fondamentale e essenziale nella preparazione generale di un individuo, ed infatti ognuno dei cinque suoi figli ha avuto in mano uno strumento. Mi mettevano davanti alla finestra con questo violino e l’insegnante: io vedevo giù i miei compagni che giocavano a pallone e io ero li che facevo gemere questo orrendo strumento. Non riuscivo ad indovinare le note, ed infatti mio padre stesso ad unc erto punto voleva farmi smettere; mia madre invece disse "proviamo ancora un mese": questa frase ha determinato tutta la mia vita.

Ed infatti di colpo, improvvisamente, una mattina mi sono svegliato e ho individuato le note e come funzionavano; ho fatto proprio dei salti da gigante e all’età di otto anni ho tenuto il primo concerto come violinista nel seminario pontificio di Molfetta, di fronte a 300 seminaristi.

In seguito il mio insegnante ha detto che avrei dovuto anche studiare il pianoforte, perché il pianoforte completa. Mi sono così accorto che mentre per il violino avevo bisogno di qualcuno, col pianoforte ero autonomo: così mi sono completamente innamorato del pianoforte e in poco tempo ero pronto per l’esame di quinto corso, che ho sostenuto da privatista al conservatorio di Bari. Il direttore - il famoso Nino Rota, che ha musicato i film di Fellini, di Visconti - mi diede 10 con lode e aggiunse "non per come hai suonato oggi ma per come potrai suonare domani". Poi mi iscrissi al conservatorio di Bari. Dopo, sono andato a Napoli e ho studiato pianoforte con un grandissimo maestro, Vincenzo Vitale, uno dei grandi caposcuola della scuola pianistica italiana e soprattutto napoletana. Ho studiato pianoforte e intanto ho finito il liceo in uno dei licei più severi di Napoli.

Un giorno il direttore del conservatorio di Napoli mi ha chiamato nella direzione, e a bruciapelo mi chiese se avevo mai pensato di dirigere, perché dal modo in cui suonavo gli sembrava che avessi un concetto del pianoforte più sinfonico che prettamente pianistico. Mi misero davanti all’orchestra e dopo pochi secondi capii che quella era la mia strada; così ho cominciato a dirigere, ho studiato composizione, poi sono andato al conservatorio di Milano, dove ho avuto un altro grande insegnante, Antonino Votto. Fu lui a dirmi una cosa molto importante, che ha sempre accompagnato la mia vita di musicista e di direttore: il direttore di orchestra deve essere autorevole, deve avere un’idea ma non la deve imporre: l’orchestra aspetta dal direttore di un’idea di quel che vuol fare. È un’idea interpretativa, che si deve compiere con autorevolezza. Diceva però anche di cercare di risolvere i problemi, non di crearli.

Farina: Cosa vuol dire dirigere? Cosa vuol dire comunicare senza stare a discutere un’idea della musica che si vuole eseguire?

Muti: Innanzitutto uno deve salire sul podio avendo veramente passato mesi se non anni su una partitura, deve avere chiaro il concetto, certo non in maniera inflessibile, perché certe esecuzioni di oggi sono diverse da quelle da ieri e diversissime da quelle dell’altro ieri. Generalmente, il direttore che ha un’idea chiara della sua idea interpretativa non ha bisogno di urlare, di sbraitare, di fare il duce, di mostrare i denti: ha una naturale capacità di trasmettere questa sua idea agli altri. Non è necessario che l’orchestra o una parte di essa condivida al cento per cento l’idea interpretativa del direttore, è necessario invece che la trovi valida. Solo così l’orchestra segue: fortunatamente è finita l’era del direttore che impone la sua idea con forza, con rabbia, o addirittura con atteggiamenti dittatoriali.

Farina: Quando entrai la prima volta nel suo camerino, lei mi mostrò un quadretto appeso alla parete con due terzine di Dante.

Muti: Le ho messe lì non solamente per un fatto di bellezza del testo e di straordinarietà del messaggio. Sono nel XIV canto del Paradiso, quando Beatrice conduce Dante nel cielo di Marte e Dante vede una croce luminosissima formata dagli spiriti beati, nella quale c’è anche l’immagine di Gesù Cristo. E Dante dice: E come giga e arpa, in tempra tesa/ di molte corde, fa dolce tintinno/ a tal da cui la nota non è intesa,/ così da’ lumi che lì m’apparinno/ s’accogliea per la croce una melode/ che mi rapiva, sanza intender l’inno.

L’ho messa nel mio camerino perché secondo me la musica è una grande amica, una grande madre, una grande sorella. Mi arrabbio quando vedo delle persone che vengono nei teatri o nelle sale da concerto intimorite da coloro che si definiscono intenditori, cioè da quelli che intendono l’inno. Ho visto tante volte delle persone semplici, capaci naturalmente di vibrare interiormente, senza avere una cultura musicale capaci di essere, anche improvvisamente, folgorate da un messaggio musicale. In musica non c’è niente da sapere, c’è solo da sentire; questi versi di Dante sono per me la maniera migliore di esprimere ciò che io non sono mai stato capace di esprimere. Nel rapporto con la musica infatti ciò che è importante è il rapimento. Dante viene rapito dalla straordinaria bellezza di questa armonia, anche se non ne capisce l’inno. Nella musica non c’è niente da capire, la musica non ha un messaggio che si può tradurre in parole. La musica non incita. La musica può essere usata per fini nefasti o straordinari, ma in qualche modo viene usata.

Farina: Cosa vuol dire sentire?

Muti: Sentire con le orecchie di dentro, i messaggi e le parole che vengono dall’interno, non sentire con le orecchie. È una corrispondenza di amorosi sensi, della persona, dei sentimenti, dei sensi del soggetto con l’oggetto della musica che è fuori di noi.

Tutto questo è stato chiarissimo nella nostra già citata esecuzione a Sarajevo. Quando abbiamo suonato la Marcia funebre dell’Eroica, essa in quel momento era impregnata del dolore delle 7.000 persone che erano lì. Tra tutti i musicisti c’era una commozione impossibile da tradurre in parole. Noi eravamo lì per dire che avevamo sofferto anche noi della loro tragedia. La musica di Beethoven è una musica anche nel dolore, perché finisce coll’essere piena di senso di gratitudine al creato: la morte è un passaggio attraverso la speranza ad una nuova vita. La musica di Beethoven, pur intrisa di tanto dolore come è stata la sua vita, ha sempre questo senso di lode al Creatore e quindi di gratitudine a ciò che ci circonda: altrimenti, data la tragedia della sua vita, non avrebbe potuto scrivere quello che ha scritto. Quindi la nostra presenza lì aveva un significato umano nel momento in cui la guerra stava tacendo e i primi segnali di desiderio di rinnovamento si verificavano.

L’esecuzione, invece, della Messa da Requiem ai terremotati dell’Umbria e delle Marche, aveva per me un significato completamente diverso: quei terremotati avevano bisogno di ben altro, in quel momento, avevano bisogno di cose concrete, avevano bisogno non di un comodo viaggio in cui ci si lavava la coscienza. In un momento in cui loro lamentavano la mancanza di veri soccorsi e di vere opere positive e concrete, la nostra discesa dalla Scala, portando una Messa da Requiem, è stato una specie di ulteriore schiaffo ai terremotati.

A Sarajevo i musicisti che suonavano vicino ai musicisti della Scala - torno a dirlo perché è stata una cosa straordinaria - cantavano allo stesso modo, piangevano allo stesso modo, speravano allo stesso modo: c’era qualcosa nel nome della musica che nessun’altra cosa può fare.

Farina: E la musica è stata amica.

Muti: Ho detto spesso, fino alla noia, che è necessario studiare e fare musica insieme. La musica insegna a vivere civilmente insieme. In altre circostanze ho portato questo esempio: un’orchestra è l’immagine della società, ogni musicista ha la sua parte, alcuni hanno delle parti diverse che devono sposarsi con altre parti che stanno facendo altri musicisti in quel momento. ‘Sinfonia’ deriva dal greco sin fonos, suono insieme: io canto la mia parte, suono la mia parte e un altro la sua. Devo fare bene la mia parte, se la faccio male disturbo il lavoro che sta facendo un altro, e devo permettermi di essere libero e di agire in piena libertà di espressione e di fantasia, senza però invadere e ledere la libertà di chi deve cantare e suonare con me, perché se lo metto in posizione di soggezione o di schiavitù io compio un’operazione criminale e contro la musica.

Dal suonare insieme si capiscono i propri diritti e doveri:tutti tendiamo non al bene esclusivo della nostra parte, ma al bene comune che è il risultato finale dell’esecuzione musicale. Nello stemma del cardinale di Napoli Corrado Ursi c’è srcitto grana multa una hostia: il punto è l’unicità, raggiungere quell’unicum, attraverso grani diversi che devono unirsi per arrivare al bene comune. La musica tende a quello. Anche nelle nostre chiese si dovrebbe cantare così. Invece, le nostre vecchiette nelle chiese cantano con tanto cuore, con tanta passione, ma non sempre sanno quello che dicono; la differenza tra quello che cantano e come lo cantano è comunque un segnale.

Farina: Adesso c’è anche la moda del sacerdote che preme un bottone, parte il disco del coro pre-registrato e nessuno canta più...

Muti: Per questo è un segnale importante della salute del popolo il come si canta in Chiesa.

Farina: Cosa la fa arrabbiare di più in questo paese?

Muti: Quando si va in una Chiesa austriaca, c’è anche nel canto una pulizia ed un senso del pulito: cantano intonato, cantano semplice, cantano insieme, e non è perché ce l’hanno di natura, è la scuola. Da noi ancora non si è capito l’importanza dell’insegnamento, l’importanza fondamentale della musica dal punto di vista educativo e sociale. Non bisogna solamente insegnare ai giovani a cantare Va’ pensiero, perchè Va’ pensiero come anche Fratelli d’Italia sono passate di moda.

Farina: Fratelli d’Italia è un buon inno?

Muti: È un inno al ricordo del quale molto sangue è stato versato, e che fa parte del nostro DNA. Ma le parole sono spaventose: "dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa"... c’è dentro una gagliardia, una spudoratezza, qualcosa di buttato in faccia.

Ci sono molti che dicono che Va’ pensiero dovrebbe essere l’inno nazionale. Va’ pensiero, fatto al tempo voluto da Verdi che è un tempo lentissimo e sottovoce, perché è il pianto di un popolo schiavo, fuori dalla sua terra che piange sulla sua tragedia, è improponibile. Provate a immaginarlo prima di una partita di calcio... Non so quali medicinali dovrebbero adoperare dopo per tirarsi su... La musica è anche un corroborante, è vitaminica, quindi l’inno deve spingere. Non è possibile che dopo il Va’ pensiero una squadra scatti violentemente, prenda il pallone e lo porti in rete, se ha dovuto fare due minuti di una cosa così mortale.

Verdi, quando ha scritto il Nabucco, non pensava neppure ai moti rivoluzionari, che sono venuti dopo: Verdi ha scritto il Nabucco perché era innamorato della Bibbia. Quando si è accorto che poteva sventolarvi la patria, lo ha fatto, e vi ha aggiunto altri fini: ma il Nabucco non è contro gli austriaci, ed infatti in Austria si esegue tranquillamente.

La musica di Verdi, il messaggio di Verdi, è stato scolpito in parole da Gabriele D’Annunzio, come nessun altro ha saputo fare. Se si va alla tomba di Verdi ci sono le parole di D’Annunzio: "Diede una voce alle speranze ed ai lutti, pianse ed amò per tutti". Il Nabucco, il Va’ pensiero sono il pianto disperato di tutto il mondo: quando la musica è a quella altezza diventa universale. A Gerusalemme - dove l’anno prossimo il ravenna festivale che ha organizzato i concerti di Sarajevo e di Beirut vuole compiere il suo ‘cammino di pace’ - quindi significherebbe il pianto e la speranza di tutta l’umanità e non semplicemente di una parte della città e non dell’altra.

Il messaggio da musicista che voglio lasciarvi è quello di credere nella musica, di avvicinarvi alla musica, di vivere della musica senza nessuna paura. La musica non deve adescare - come i giornali che fanno a gara nel proporre supplementi per vendere di più -: si tratta semplicemente di una questione di educazione che una società civile deve preoccuparsi di dare ai propri giovani.

Farina: Che cosa dovrebbe fare il nostro governo che non sta facendo?

Muti: Non ho la ricetta. Chi vive di musica sin dall’inizio, fa si che la musica l’accompagni per sempre. Gli inglesi hanno dimostrato più volte che gli animali, le vacche, ascoltando la musica di Mozart, producono più latte... e se sono sensibili le vacche alla musica di Mozart... Bisogna che i giovani abbiano la possibilità, facilmente, di essere accostati alla musica: il primo luogo sono i teatri.

L’Italia è un paese pieno di teatri, bisogna aprirli tutti, non esiste nesun altro paese al mondo che abbia così tanti teatri come l’Italia. Tra quelli che sono chiusi e quelli che si bruciano, si stanno dimezzando. Invece, l’Italia è l’unico paese che non ha una vera sala da concerto. La Spagna è pienissima di sale da concerto, non parliamo dell’America o della Germania.

Abbiamo perduto tanto tempo: adesso siete voi che dovete reclamare assolutamente perché si faccia qualche cosa.