Nel lavoro la novità è la fede: a cento anni dalla Rerum Novarum

Mercoledì 28, ore 11

Relatori:

Luigi Negri

Guzman Carriquiry

Legenda:

CA = Centesimus annus

DSC = Dottrina Sociale della Chiesa

 

Don Luigi Negri è docente di Filosofia Morale presso l’Università Cattolica di Milano. È autore di numerose pubblicazioni, in particolare sul Magistero di Giovanni Paolo II.

Negri: Cercheremo di seguire in una rievocazione necessariamente sintetica questi cento anni del Magistero sociale della Chiesa, da Leone XIII a Giovanni Paolo II.

I. Origine della Dottrina Sociale della Chiesa

La DSC nasce in dialettica con il progetto culturale, sociale e politico dell’età moderna e contemporanea di costruire una società a misura di un uomo privato della sua dimensione religiosa. In senso radicale si tratta di un progetto alla cui base sta una concezione errata della persona umana, della sua natura profonda, della sua libertà, della sua capacità di costruzione culturale e sociale. Il Magistero sociale della Chiesa, dalla straordinaria e lucidissima Enciclica di Leone XIII del 1888 intitolata Libertas, alla CA, ha normalmente individuato le forme di questo errore antropologico: alla base della cultura e della società moderno-contemporanea sta un errore antropologico, una concezione inesatta dell’uomo. C’è un irrealismo antropologico che condiziona tutta la riflessione culturale, sociale e moderna fino alle conseguenze di carattere politico. Nel n. 13 della CA Giovanni Paolo II scrive: "... se ci si domanda poi da dove nasca questa errata concezione della natura e della persona e della società, bisogna rispondere che la prima causa è l’ateismo" che, nella flessione moderna, non è la negazione formale di Dio, ma la negazione del senso religioso. È nella risposta all’appello di Dio contenuto nell’essere delle cose che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta nella quale consiste il culmine della sua umanità e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo. La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e di conseguenza induce a organizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e dalla responsabilità della persona. Negare la dimensione religiosa vuol dire negare la dignità della persona e quindi sostituire la persona con un soggetto collettivo. È questa sostituzione a cui tende tutto il processo di cultura e di costruzione sociale in cui siamo nati.

Tale posizione Giovanni Paolo II aveva già formulato con molta chiarezza nel grande discorso all’inizio della Conferenza dell’Episcopato Latino-americano a Puebla il 28 gennaio 1979. Allora il Papa aveva detto: "La Chiesa possiede grazie al Vangelo la verità sull’uomo. Questa si incontra in un’antropologia che la Chiesa non cessa di approfondire e di comunicare. L’affermazione primordiale di tale antropologia è quella dell’uomo come immagine di Dio, irriducibile a una semplice particella della natura o ad un elemento anonimo della città umana". L’uomo è più dei condizionamenti fisici e psicologici di cui vive o delle strutture sociali in cui è coinvolto perché il fondo della sua esistenza appartiene al mistero delle cose, al mistero dell’essere, al mistero di Dio. Tagliare questa radice, che lega il cuore dell’uomo al Mistero, è rendere l’uomo schiavo della materia o schiavo della società umana come complesso, come agglomerato di individui.

Il soggetto del progetto culturale e sociale moderno è dunque l’individuo che è capace di conoscere scientificamente tutti i problemi della vita personale e sociale e di costruire una società che garantisce il massimo di potere, cioè di libertà. La libertà è semplicemente una forma di espressione del potere dell’uomo. La costruzione sociale è dunque la costruzione di un immenso processo di autoliberazione che in nome delle capacità razionali e tecnologiche progetta la costruzione di un uomo e di una società nuove. Costruire un uomo scientifico, costruire una società scientifica: in questo consiste l’autoliberazione dell’uomo. Il Magistero da Leone XIII a Giovanni Paolo II ha indicato in modo drammaticamente articolato gli equivoci di tale antropologia senza domanda religiosa.

La paura che attanaglia l’umanità, e di cui la terza parte della Redemptor Hominis ha indicato termini di estrema e precisa documentazione, è la paura dell’uomo che si perde, che non sa più chi è, che è semplicemente un fatto analizzabile scientificamente e manipolabile socialmente, attraverso per esempio i mezzi della comunicazione sociale che, come ricorda Giovanni Paolo II nel n. 11 della Dives in Misericordia, sono protagonisti della vera tragedia dell’umanità, che non è l’olocausto nucleare, ma la perdita della libertà di coscienza dell’uomo e dei popoli ottenuta attraverso l’uso dei mezzi della comunicazione sociale usati cinicamente da chi detiene il potere.

Il Magistero della Chiesa ha individuato profeticamente il movimento di costruzione sociale che si è andato sviluppando in questi due secoli e che ha trovato la formulazione più rigorosa nelle grandi ideologie totalitarie. In uno dei messaggi più drammatici della DSC, quelli che Pio XII ha formulato nel Natale del 1944, quando la Chiesa sembrava vinta e il totalitarismo sembrava assolutamente invincibile, questo totalitarismo era già indicato con molta chiarezza. L’assolutismo di stato, diceva Pio XII, consiste infatti nell’erroneo principio che l’autorità dello stato è illimitata e che di fronte ad essa anche quando dà libero corso alle sue misure dispotiche oltrepassando i confini del bene e del male, non è ammesso alcun appello a una legge superiore e moralmente obbligante.

Giovanni Paolo II ha indicato i termini di questo totalitarismo nel n. 44 della CA: "La radice del moderno totalitarismo dunque è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile, e proprio per questo, per sua natura soggetto di diritti che nessuno può violare: né l’individuo, né il gruppo, né la classe, né la nazione, né lo stato. E non può farlo neppure la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza, emarginandola, opprimendola, sfruttandola o tentando di annientarla". La persona, negata dalla sua dimensione religiosa, finisce per essere semplicemente assorbita dentro un soggetto totalitario, il soggetto sociale da cui dipende, da cui gli derivano i diritti, mentre secondo la concezione cristiana della Dottrina Sociale i diritti dell’uomo derivano immediatamente da Dio e sono il segno della sua appartenenza a Dio.

Fino alla CA la DSC si è assunta la responsabilità di correggere l’impostazione antropologica e sociale dominante. Ne ha discusso i fondamenti e ha indicato con lucidità le conseguenze di carattere sociale che quel fondamento portava con sé: il disconoscimento radicale della persona umana e dei suoi diritti, la creazione di strutture sociopolitiche in cui si consumava la tragedia della privazione della libertà, la mostruosa creazione di quello che con un vocabolo indimenticabile Pio XI chiamava "i nuovi idoli". Si possono individuare brevissimamente le linee fondamentali di questa azione correttiva. Ne vorrei indicare tre.

1) La difesa della priorità della persona sulla società. All’inizio non c’è la società, c’è la persona. La società è il frutto della capacità culturale e sociale della persona, la prima soggettività sociale non è quella della società, ma è quella della persona e di ciò in cui la persona si esprime: per esempio, innanzitutto, la famiglia.

2) Priorità della società sullo Stato. Lo Stato non esaurisce il complesso sociale, ma è a servizio del bene comune, cioè della libertà delle persone e dei gruppi. Lo Stato non può imporsi alla società ma deve servire la società.

3) La irriducibilità della dimensione religiosa e della struttura ecclesiale alla vita e alla struttura sociopolitica. Mentre lo Stato moderno tende a considerare la religione come parte di sé (secondo l’influsso protestantico che la religione è strumento del regno, e quindi lo Stato moderno, mentre dice che occorre separare Chiesa e Stato, sostanzialmente persegue l’assorbimento della Chiesa nello Stato, per cui si arriva senza soluzione di continuità alla concessione del permesso statale per espletare funzioni religiose o all’intervento dello Stato nella nomina e nella elezione delle autorità religiose), la DSC ha difeso la distinzione radicale fra la dimensione religiosa e la vita politica in quanto la religione non è problema della società e dello Stato, ma della persona, della sua libertà ultima di coscienza. Per questo difendendo la libertà della Chiesa la DSC ha in questi cento anni difeso anche la libertà della persona e della coscienza, fino al punto che il Concilio Vaticano II e Giovanni Paolo II indicano nel rispetto e nella promozione della libertà religiosa il criterio fondamentale che definisce la democraticità di uno Stato.

II. La novità del tempo presente

Un cambiamento totale si è verificato negli ultimi due anni: la crisi delle ideologie totalitarie e dei sistemi socio-politici fondati su di esse è risultato assolutamente evidente e irreversibile. È stato ed è questo il momento del senso religioso. L’uomo come domanda di senso della vita, come domanda di valore, cioè come domanda di ciò per cui vale la pena di vivere si ripone al centro della sua esperienza personale, e quindi al centro della vita sociale. È la riscoperta di una delle categorie fondamentali che don Giussani ci ha insegnato nel Senso religioso: è la riscoperta della esperienza elementare dell’uomo: bisogna che l’uomo riparta dalla sua esperienza elementare e la viva fino in fondo. Come ha ricordato Giovanni Paolo II nel suo intervento al Meeting dell’82: è l’uomo innanzitutto la grande risorsa che l’uomo ha a disposizione nell’impostazione e nella soluzione del grande problema della vita. È una risorsa quella dell’uomo a se stesso che è insufficiente certo, ma inevitabile. Non si può non partire dall’uomo e dal suo bisogno di verità, di bellezza e di giustizia. È proprio nell’impostazione della vita come ricerca del senso ultimo di essa che l’uomo si scopre persona, cioè appartenente ad un mistero più grande di lui, desideroso di penetrarlo adeguatamente eppure consapevole dei limiti che accompagnano questo cammino.

Il senso religioso, grande e ritornante protagonista della storia dell’umanità, vive oggi una stagione di ripresa reale, caratterizzata da tante possibilità positive ma insieme minacciata da tanti equivoci, e addirittura aperta alle più diverse contraddizioni. Soltanto nell’avvenimento della presenza di Cristo nella storia, nel mistero della sua Chiesa, l’uomo trova il compimento della sua attesa religiosa e della sua intrapresa umana e storica, solo nel permanente avvenimento fra Cristo e il cuore dell’uomo si pongono le condizioni obiettive per un’antropologia che può essere pienamente attuata. Come dice Giovanni Paolo II (CA 25): "Certo, la lotta che ha portato ai cambiamenti dell’89 ha richiesto lucidità, moderazione, sofferenza e sacrifici. In un certo senso essa è nata dalla preghiera e sarebbe stata impensabile senza una illimitata fiducia in Dio, Signore della storia, che ha nelle sue mani il cuore dell’uomo. Ma è unendo la propria sofferenza per la verità e per la libertà a quella di Cristo sulla croce che l’uomo può compiere il miracolo della pace ed è in grado di scorgere il sentiero spesso angusto fra la viltà che cede al male e la violenza che illudendosi di combatterlo, lo aggrava". Aveva detto qui al Meeting di Rimini, in una giornata che non potremo mai dimenticare: "Cristo risorto, sorgente inesauribile di vita per l’uomo. Dell’uomo Egli non ha disdegnato di assumere la natura e non in modo astratto. L’umanità di Cristo attraverso il mistero della croce e della resurrezione è diventata il luogo in cui l’uomo, vinto ma non annichilito dal peccato, ha ritrovato la propria umanità".

III. Rivelazione, fondazione ed educazione dell’uomo

Il problema della DSC sempre, ma più che mai oggi, in questo contesto culturale definitivamente modificato, è quello di passare alla giustificazione adeguata dell’uomo. Si tratta peraltro di dare compimento a un’intenzione profonda, l’intenzione profonda del pontificato di Giovanni Paolo II, quella che si può cogliere in una delle prime parole del suo pontificato (radiomessaggio del Natale del ‘78): "Se le nostre statistiche umane, le catalogazioni, gli umani sistemi politici economici e sociali, le semplici umane possibilità non riescono ad assicurare all’uomo che egli possa nascere, esistere ed operare come unico ed irrepetibile, allora tutto ciò glielo assicura Dio". La DSC nasce e si svolge tutta a partire dall’affermazione fondamentale che solo in Cristo trova compimento l’autentica esigenza di umanità nell’uomo e che tale incontro tra Cristo e l’uomo avviene nel mistero della Chiesa, in cui l’avvenimento di Cristo morto e risorto, pienezza di umanità autentica e definitiva, permane e si comunica ad ogni generazione della storia. La Chiesa è dunque il luogo dove emerge l’uomo; essa è rivelatrice ed educatrice della personalità umana, realtà unica ed irripetibile, soggetto creativo di società e di storia, irriducibile a qualsiasi condizionamento della sua esistenza personale e sociale; la grande intuizione pascaliana che l’uomo supera infinitamente l’uomo trova soltanto nella esperienza ecclesiale la sua adeguata e reale giustificazione.

C’è un grande ed irrinunciabile a priori: l’uomo e la sua libertà, la libertà con cui cerca Dio, la libertà con cui, incontrato Gesù Cristo, è chiamato ad assumersi la responsabilità di riconoscerlo o di rifiutarlo. In questo senso la tematica della libertà si coniuga coerentemente con il tema della verità. Bisognerebbe rileggere l’enciclica di Leone XIII intitolata Libertas: la libertà è l’energia con cui si cerca la verità, con cui ci si rapporta alla verità; se si taglia il rapporto fra verità e libertà, la libertà diventa una pura reazione istintiva e come tale diventa un fattore altamente manipolabile, proprio come in questa società, dove tutti credono di essere liberi e tutti sono ottusamente manipolati quasi senza accorgersene.

La libertà è dunque il cuore dell’uomo che vive, spera, ama e lotta; espressione incoercibile della sua coscienza personale. La Chiesa è segno e salvaguardia del carattere trascendente e luogo di educazione dell’uomo, reso capace di costruire la società; i diritti sociali sono l’espressione nella storia dell’appartenenza che l’uomo vive con Dio nel mistero di Cristo (cfr. CA n. 47).

IV. Dottrina Sociale e missione della Chiesa

Questo processo di fondazione della persona umana si attua nella presenza della Chiesa come soggetto missionario. È nella missione che si istituisce la DSC come strumento missionario fondamentale.

Il magistero di Giovanni Paolo II ci ha insegnato che la Chiesa è tutta nella sua missione. La Chiesa è chiamata ad autorealizzarsi nel mondo; nella missione la Chiesa incontra l’uomo reale, storico, gli comunica l’avvenimento imprevedibile, gratuito della presenza di Cristo, lo chiama a partecipare di tale avvenimento, in modo reale e positivo, ad un rinnovamento totale della sua intelligenza e del suo cuore e lo educa ad esprimere nel mondo e nella storia tale novità di vita e di cultura: confessare Cristo di fronte alla storia, fare compagnia all’uomo nella storia, lavorare per l’uomo e con l’uomo nella storia.

La DSC è dunque totalmente inserita dentro il grande processo della nuova evangelizzazione; essa nasce perché la fede in Cristo, salvatore dell’uomo e del mondo, incontra l’uomo e le sue problematiche reali, le illumina con criteri nuovi, e pone in atto le condizioni e le possibilità di operazioni nuove. L’aveva detto con tanta chiarezza Giovanni Paolo II sempre nel discorso alla Conferenza dei Vescovi Latino-americani: non c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il regno, il mistero di Cristo non sono proclamati.

Da questa fede in Cristo nascono opzioni, valori, attitudini e comportamenti capaci di orientare e definire la nostra vita cristiana e di creare uomini nuovi e quindi, mediante la conversione della coscienza individuale e sociale, una umanità nuova. Nel cammino umano e storico che la missione concreta della Chiesa attua è contenuta la possibilità di una educazione vera dell’uomo e di un incontro vero, stabile, e solidale fra gli uomini.

La cultura ed il lavoro sono i fattori determinanti di questa capacità di comprensione adeguata che l’uomo ha di sé e della realtà e di questa capacità di incontro fattivo, dinamico, costruttivo, con gli uomini e fra gli uomini. La Laborem exercens ci aveva già insegnato che il lavoro è la caratteristica fondamentale dell’uomo, l’espressione sintetica della sua cultura, la sua capacità di lotta contro i condizionamenti della vita personale e sociale, una capacità di costruzione che imita la eterna laboriosità di Dio nella imitazione del sacrificio di Cristo che attraverso la croce giunge alla pienezza della resurrezione. Ma la CA ha aggiunto una cosa fondamentale: il lavoro è l’opera umana in cui si esprime la capacità costruttiva dell’uomo, è imitazione di Dio e di Cristo per l’uomo e con l’uomo; scopo dell’impresa non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che in diverso modo perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società (cfr. CA 35). La cultura e il lavoro sono l’espressione di questa costruttività sociale della fede.

Raccogliendo in uno sguardo sintetico la DSC e la vita di questi 100 anni di presenza cristiana Giovanni Paolo II ha affermato che si è di fatto costituito un grande movimento per la difesa della persona umana. Che questo movimento possa continuare nel mondo, segnando in modo positivo il passaggio dal II al III millenio dell’era cristiana, dipende dalla volontà di missione di ciascuno di noi.

Tale volontà di missione si deve innanzitutto chiedere a Dio con la preghiera e si deve confortarla giorno dopo giorno con una amicizia cristiana reale. Che il Signore Gesù Cristo, che è l’unico grande contenuto del sapere cristiano, quindi anche della Dottrina Sociale della Chiesa, ci dia un cuore capace di desiderarlo veramente e di desiderarne la testimonianza al mondo, capace di vivere ogni giorno la laboriosa fatica di una fede che investe il mondo e attraverso la cultura e il lavoro trasforma questo mondo già nel presente, segno di quella vita eterna di cui la trasformazione del mondo nella storia è già il centuplo quaggiù: "Cercate innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi verrà dato in sovrappiù".

Guzman Carriquiry è docente di Storia della Chiesa e membro del Pontificio Consiglio per i Laici. Nato in Uruguay, da molti anni vive a Roma. È tra i fondatori della rivista Il Nuovo Areopago.

Carriquiry: Disprezzata ieri, oggi esaltata. Così dentro come fuori dalla Chiesa: è curioso il destino della Dottrina Sociale della Chiesa. Ieri, e parliamo degli anni 60-70, tanti ecclesiastici e militanti cristiani avrebbero quasi sottoscritto, in quei tempi di neo-marxismo egemone, quello che Antonio Gramsci scriveva decenni prima, affermando: "il pensiero sociale cattolico ha un puro valore accademico (...) ma non come elemento di vita politica e storica direttamente attivo". "Al massimo, come un elemento di riserva, non di prima linea". Non per caso si arrivò a dichiararla storicamente sorpassata, perfino affermando un presunto "spirito" del Concilio che la emarginava come teologicamente caduca, culturalmente esausta, politicamente inefficace. Oggi invece, trenta, venti, quindici anni dopo, c’è perfino un’inflazione di documenti, di convegni, di commenti, che la mette in primo piano nella scena ecclesiastica, nell’attivismo degli operatori pastorali, contando anche con segni di interesse e di omaggio, di consenso, perfino di promozione, pubblicizzati a livelli politici e culturali. Saremo tentati di dire, con lo slogan del Meeting: forse "vecchia etichetta e nuovo distintivo"?

Chi non ha fatto questione di etichette appiccicate è stato Karol Wojtyla, che prima ancora di essere il Papa della Redemptor hominis e, alla sua luce, della Laborem exercens, della Sollicitudo rei socialis, della CA, allora Vescovo di Cracovia manifestava in una lunga intervista, resa pubblica solo due mesi fa nella rivista Il Nuovo Areopago", la consapevolezza di un necessario rilancio della Dottrina Sociale, nell’esigenza della sua rifondazione ed attualizzazione sulla base del suo nucleo antropologico – " il mistero dell’uomo si svela alla luce del Verbo incarnato" (GS) –, e nello slancio di una rinnovata esperienza missionaria della Chiesa nel concreto della vita degli uomini e delle nazioni.

Fu così che il Papa la riprese esplicitamente, in occasione dei due primi grandi viaggi apostolici: a Puebla, in Messico (America Latina) e in Polonia, alle frontiere cattoliche, allora, dei grandi imperi dominanti, suscitando non poco stupore e anche resistenze nella novità di impostazione e di presenza. L’impatto rinfrescante, missionario, provocato dal primo, grande giro di viaggi apostolici, riusciva a suscitare, a risvegliare i sentimenti di libertà, di dignità, di fierezza, di solidarietà della partecipazione corale di popoli, dove ancora una tradizione cristiana bruciava sotto le ceneri, contribuendo in buona misura così a minare, come dal di dentro, i regimi autoritari con pretese di una certa legittimazione cristiana (così in Cile, ad Haiti, in Paraguay, nelle Filippine), ma, soprattutto, i sistemi totalitari dell’ateismo. Non si può esaltare a dismisura, né ignorare questo compito storico, negli anni ‘80, avvenuto nella fase di esaurimento insopportabile dei cosiddetti regimi di sicurezza nazionale e di disgregazione, di crollo, questo di maggiore portata storica, del "socialismo reale", mentre già erano maturi i disegni alternativi del potere.

Ma a noi interessa oggi, ora, l’impatto reale della DSC dopo lo spartiacque dell’89 nello scenario totalmente diverso aperto negli anni 90, dove il distintivo del "nuovo ordine internazionale" e la mentalità tecnocratico-borghese segnano il quadro politico e culturale nel quale dovrà proporsi, alla fine del secondo millenio, la permanente novità del cristianesimo.

Credo dunque che sia utile, illustrativo, anche se fatto molto schematicamente, riferirsi a quattro scenari ben reali in questo mondo del post-comunismo e del dopo Yalta. In essi la Chiesa ha cominciato a misurarsi dentro il cosiddetto nuovo ordine.

Il primo grande scenario da considerare si svela con la dissoluzione delle rosee illusioni suscitate dal crollo del socialismo reale e dalla vittoria del neo-capitalismo liberale che erano arrivate perfino al punto di proclamare "la fine della storia". Quel propagandato ottimismo non regge più il confronto con la realtà, anche se i recenti avvenimenti nell’URSS aiuteranno a gonfiarlo. Ma molto più difficile che dare il colpo di grazia a regimi totalitari ed atei già esauriti e in fase di accellerata disintegrazione, molto più drammatico e più decisivo, anche se meno appariscente dei sussulti, entusiasmi, vissuti in questi giorni, si rivela l’affronto della sequela di miseria materiale e morale lasciata in eredità. Pochi giorni prima del tentato colpo di stato Giovanni Paolo II constatava a Czestockowa, tra la gioventù dell’Est, un "sentimento di grande vuoto ed una deprimente angoscia circa il futuro". È così estirpata ogni traccia del cristianesimo che molti di quei 50.000 russi e bielorussi che lo ascoltavano, partecipando al grande raduno cattolico internazionale della gioventù, non sapeva neanche farsi il segno della croce.

Ma anche lì dove la Chiesa fu baluardo di difesa della persona, rifugio e portavoce della libertà, salvaguardia ed espressione della nazione, innalzando anche le bandiere della sua Dottrina Sociale, come in Polonia, oggi si avverte invece che la tradizione cristiana riesce sempre meno ad essere energia rinnovata di unità e di ragionevole speranza per la persona e la società. Altri interessi rischiano di spostarla nella nuova geografia spirituale dell’Est, sia il desiderio di far parte del modello umano e culturale dell’Occidente che da Ovest ad Est sembra non conoscere più avversari, che la carica repressa ed oggi scatenata dei nazionalismi.

In questa situazione qual è l’impatto reale, la mobilitazione ideale che possono provenire dalla proclamazione dei principi dell’etica sociale cristiana? Sappiamo bene, questo è il secondo scenario, come la culla e la prova di forza, l’avvenimento drammatico, paradigmatico del manifestarsi del nuovo ordine è stata la guerra del Golfo. Nel momento stesso nel quale sembravano crearsi le condizioni per un anelato disarmo tra il vincitore e lo sconfitto dei potenti, si imponeva questo spettacolo di una guerra a raffinato livello tecnologico di distruzione e di immagine.

Interessa oggi ricordare ciò che il Papa condannò come "avventura senza ritorno" perché fu allora nuovamente confermato che, quando la DSC esce dal livello confortevole di discorsi ed esegesi generica, quando va oltre un’astratta ripetizione dei suoi "principi", quando affronta la concreta realtà umana nella sua drammaticità e diventa modo di porsi e di giudicare che tocca il vivo di essa, quando pretende di svelare verità elementari oltre la gabbia delle immagini precostituite, quando intacca, insomma, interessi del grande potere, allora la reazione si fa pesante! Ne siamo stati testimoni: dall’esaltazione del Pontefice come campione del crollo del comunismo si passa nel controllo sempre maggiore dei circuiti del sistema informativo mondiale, alla sua censura, alla totale mancanza di ascolto, all’omaggio formale, ma nell’indifferenza reale, alla promozione della confusione, della divisione fra i cristiani, a far sentire forte perfino la solitudine inerme del Pastore universale...

I grandi riflettori che illuminano il cambiamento di scena e le grandi manovre attraverso le quale i grandi centri del potere mondiale preparano la nascita di questo nuovo ordine lasciano totalmente all’ombra – e questo è il terzo quadro da mettere in evidenza – le condizioni sempre più drammatiche dei popoli delle periferie mondiali; come non avvertire che mentre cadono i muri della contrapposizione Est-Ovest sembrano innalzarsi sempre di più i muri che separano lo spiraglio di super-sviluppo, di consumismo, di conformismo nei vari centri del potere mondiale dall’abisso di ingiustizie, di violenze, di delusioni e frustrazioni nelle più diverse periferie, dove più di un miliardo di uomini è condannato a sopravvivere in condizioni di povertà assoluta? Ma chi si interessa oggi all’Africa affamata e dissanguata? È meglio che l’Africa muoia! e non è un’espressione retorica, perché si sa benissimo che solo una straordinaria gara di solidarietà internazionale potrebbe strappare dalla morte sicura, nel prossimo decennio, milioni di derelitti schiantati dalle carestie, dalle guerre, dalle malattie.

Sembra quasi un po’ cinico a questo riguardo l’ennesimo recente impegno dei grandi, dopo trenta anni di simile promesse, di dedicare l’1% del loro reddito nazionale per l’aiuto allo sviluppo e alla cooperazione. Non c’è da credergli poiché sono stati (e sono!) assai scarsi i capitali per aiutare in modo più sollecito e consistente le trasformazioni e la ricostruzione nell’Est Europeo; i popoli dell’opulenza non sembrano avere il minimo atteggiamento di disponibilità a sacrificare il minimo della loro confortevole, privilegiata esistenza, entrando così veramente, non da retorica abusata, in una dinamica di reale solidarietà.

Ma chi si ricorda più del continente della speranza che ieri suscitava conflitti e passioni in ambienti europei, alimentava litanie di denunce e manifesti di solidarietà, manteneva alzate bandiere ed utopie? È ben morto e sepolto un certo terzomondismo cresciuto all’interno della bipolarità di Yalta e in mezzo alle alte mareggiate ideologiche di ieri. Già non funziona più lo scaricare le proprie responsabilità sulla cattiva coscienza (oggi, invece, confortevole, tranquilla nel torpore) degli Europei. C’è un’indifferenza scandalosa che è segno della crescente emarginazione alla quale sono sottoposti i popoli poveri nel nuovo ordine. Cambiano le priorità della cooperazione internazionale, diventata più meschina nei loro confronti. Si riducono per loro le possibilità di finanziamento estero. Le barriere protezionistiche che si innalzano tra i "grandi" nella lotta di ridistribuzione del potere mondiale lasciano questi paesi sempre più impotenti, emarginati, ostacolati rispetto al controllato mercato mondiale. Sulla grande stampa c’è sempre meno spazio per loro. È stato Giovanni Paolo II ad urgere nella CA un programma straordinario di cooperazione sia verso l’Est che verso il Sud. Fu il papa polacco a richiamare dal Messico, dal Sahel, che "le grandi trasformazioni dell’Est non devono spostare l’attenzione dal Sud". Rimarrà forse una voce profetica che grida nel deserto? E forse anche profetica in una Chiesa che subisce sottilmente, nuovamente, la tentazione culturale dell’eurocentrismo?

In queste condizioni valgono sempre di meno gli appelli generici alla solidarietà: "di buone intenzioni è lastricato il cammino che porta all’inferno". I popoli, una volta detti del Terzo Mondo, finiranno per credere, drammaticamente, che servono soprattutto i mezzi più efficaci di pressione che sono alla loro portata (cioè lo spauracchio della loro crescita demografica, dell’emigrazione di massa, la minaccia della moratoria dei debiti, il ricatto sulle grandi riserve ambientali ed ecologiche), più quei mezzi che sconvolgano i sogni tranquilli dei soddisfatti di quegli altri che richiamano i diritti inalienabili di giustizia e di solidarietà. Ma per questi popoli l’emarginazione, la crisi che soffrono è condizione e lezione per affrontare di petto la propria dura e cruda realtà, oltre le menzogne delle ideologie, con una rinnovata consapevolezza, più realistica e creativa, che ogni popolo, ogni uomo è il primo responsabile ed artefice del proprio sviluppo, che è frutto del lavoro di uomini liberi e solidali e non dell’elemosina concessa agli schiavi o nell’inseguimento di progetti utopici che finiscono in tragedie di sangue e nuove delusioni.

Al fondo di questi tre scenari c’è n’è uno più decisivo, che è quello di una crescente concentrazione del potere mondiale. Non poteva essere un anacronistico colpo di coda del vecchio potere dell’URSS ad arrestarlo. Fu Augusto Del Noce il più lucido critico del conformarsi di un intreccio finanziario, economico, tecnologico, culturale che, quasi si trattasse di una morsa anonima, gestisce le fonti dell’informazione, capace oggi di un impressionante controllo del consenso e di un appiattimento, di una uniformazione di atteggiamenti e comportamenti. Tende a manipolare, scrisse il Papa nell’Esortazione Christifideles laici "dalla costituzione genetica ai contenuti della stessa coscienza e i loro modelli di vita. Converte le appartenenze in etichetta, usando tutto e tutti per i propri fini che non sono altro che conservare ed accrescere il dispiegarsi della propria volontà di potenza".

Anche se sussistono ancora, residuali, le persecuzioni del totalitarismo ateo e i rigurgiti di laicismo anticlericale, si avverte già chiaramente una modalità più sottile, più insidiosa, oggi più efficace di manipolare, di svuotare ciò che rimane di una presenza cristiana. È la pretesa di ridurre il suo messaggio, concentrandone l’azione nella declamazione generica dei grandi principi etico-umanitari, nella retorica ecclesiastica circa la moralizzazione della società e dello Stato. Non la si vuole emarginare per forza "nel privato", ma perfino si promuove la sua immagine, sempre che si adegui, che faccia la parte assegnata e circoscritta di garante, pungolo, ausilio, assistente delle pubblica moralità.

Questa immagine non è arbitraria; essa corrisponde di fatto alle esigenze che il tempo e il potere si fanno di ciò che loro urge, a partire dalla proprie mancanze e contraddizioni. Nella società odierna, così controllata ma allo stesso tempo dilaniata, minacciata radicalmente da una profonda crisi di significato, di ideali, questa urgenza assume il volto di una certa moralità; la questione etica sembra emergere con forza tramite i media e conseguentemente anche l’immagine del cristianesimo, la sua funzione, la sua funzionalità dentro il nuovo ordine è delineata a partire da tale richiesta. Cadute le ideologie, logorate le appartenenze sociali, promosso come spirito del tempo un vago ecumenismo di valori morali, spirituali, estremamente formali, astratti, in questo clima il cristianesimo rischia spesso di offrire soltanto un contributo più di immagine che di realtà, il necessario "supplemento d’anima" di un mondo che non può reggersi soltanto sulla base del più grasso materialismo ed edonismo.

Chi altri che le istituzioni religiose, nel sempre più nutrito supermarket di offerte spirituali, possono richiamare a motivazioni elevate nel regno del feticismo, delle merci, della deificazione del denaro? È utile che all’individualismo esasperato, all’idolatria del mercato, alla concorrenza selvaggia venga periodicamente ricordato un dovere di solidarietà. Come evitare lo sprofondare nello smarrimento dei giovani, il malessere, la disaffezione nel lavoro, l’abbandono dei deboli, la corruzione dilagante, l’atrofia burocratica delle istituzioni se non si promuovono volontariati di servizio, codici di comportamento, nuove regole del gioco che siano di ausilio morale per un migliore funzionamento del sistema, favorendo l’adattamento dei governati come antidoto verso quei germi di malessere che lo stesso sistema produce?

Si badi bene che non c’è niente di male in tutto ciò; la missione della Chiesa è stata sempre fattore di vera moralità nel dispiegarsi della carità nella vita degli uomini, ma emerge subito un sospetto che quella richiesta di moralità abbia un connotato ideologico- strumentale. Infatti dentro la faciloneria di un certo ottimismo dilagante si nasconde il fatto che i valori naturali, quella legge iscritta nella coscienza dell’uomo, siano oscurati al punto che la sopressione della vita del bambino ancora non nato continua ad essere un fenomeno di massa con totale tranquillità di coscienza. E più ancora si nasconde l’esperienza del male nella drammatica condizione della persona e della nazione bisognosa di salvezza.

Il male comincerebbe lì dove la Chiesa, dove il popolo cristiano accettasse inconsapevolmente di essere ultimamente definito secondo questo prestabilito orizzonte mondano. "Non già riconoscersi", come scriveva un amico, "come la presenza del Mistero del Dio fatto uomo, salvezza dell’uomo, ma come coscienza morale dell’umanità (e, peggio, molto peggio di chi governa l’umanità)". Un teologo direbbe: quando il versante etico-sociale del cristianesimo finisce per spostare, per oscurare, trascurare la densità del suo mistero, la radicalità della sua salvezza, insomma la centralità di Cristo, Redemptor hominis, è a questo livello che si pone il rischio di ogni inflazione smisurata del discorso sociale, degli interventi sociali della Chiesa, della Chiesa come forza sociale dove il suo messaggio rischia di finire per confondersi con la generica e vuota oratoria umanitaria, spesso vuota e ipocrita. Condannata così alla sterilità, mentre occupa il protagonismo apparente dell’immagine concessa dai media.

Qual è l’impatto reale del succedersi ininterrotto di richiami etici di fronte a quella volontà di potenza e concentrazione del potere che gira intorno a se stesso e che è riuscita a costruire un mondo sulla base di una capillare scristianizzazione, "dove grandi masse di uomini", scriveva il Papa, "vivono anche i problemi più grandi della vita come se Dio non esistesse?". Quale reale attrattiva e forza di propulsione potrebbe avere un discorso etico-sociale quando il pane nostro quotidiano diventa l’utilitarismo, lo scetticismo, l’indifferentismo, proprio nell’avverarsi della mentalità borghese? Difficile, molto difficile, che il semplice ascolto delle verità di principio della Dottrina Sociale, in genere mediate dalla grande stampa, arrivi a toccare il cuore, ad intaccare la libertà, a cambiare la vita, sia carico di attrattive e di interesse più forti che lo spirito di questo mondo che ci penetra.

Permettetemi di fare un esempio. È impressionante constatare in questi trent’anni quante battaglie ideologiche e scontri molto duri sono stati vissuti nella Chiesa dell’America Latina attorno alla teologia della Liberazione, alla presenza della Chiesa nella vita sociale e politica delle nazioni. E quante buone battaglie per la verità della fede, per la dignità della persona, la difesa dei popoli, dei poveri... Ma al di là, al di sotto di questi fuochi concentrati nell’agitarsi dell’élite ecclesiastica ed intellettuale, in quegli stessi trent’anni, prima inavvertiti dopo troppo chiacchierati, da venti a quaranta milioni di battezzati nella Chiesa cattolica passavano a far parte delle nuove comunità pentecostali ed evangeliche.

Tanto più aumentano i discorsi, le lettere pastorali, gli interventi ecclesiastici sulle questioni della giustizia sociale e dello sviluppo, sulle elezioni nazionali e i comportamenti politici dei cristiani, sui richiami al bene comune, tanto più si riduce, purtroppo, la realtà dell’avvenimento cristiano dentro gli interessi, dentro la vita reale, quotidiana della gente.

Se è sconfitta una certa teologia della Liberazione in quanto pretesa assurda di composizione tra cristianesimo e marxismo, forse la sua vittoria avviene in questa tendenza che è il suo vizio più radicale, di origine, di riduzione moralistica della presenza cristiana, mentre i sentimenti religiosi di crescenti settori di popolazione, tra i più poveri, cercano appagamento nelle sette. Sintomo, segno, allarme circa una fragilità, debolezza nel "fare il cristianesimo" in America Latina. Perfino le Chiese, che tanto hanno fatto per l’anelato processo di democratizzazione anche a livello politico, avvertono che gli uomini del nuovo corso sono sempre più spesso lontani dall’influsso cattolico e sempre più spesso, a volte, sostenuti dalla capillarità espansiva delle sette. Bisogna dunque sfumare la drammaticità delle condizioni di ingiustizia, di miseria, di oppressione che soffrono i nostri popoli? bisogna sfuggire e disinteressarsi delle esigenze di sviluppo delle autentiche lotte di liberazione? Sarebbe semplice cinismo o ritirata mistica ed evanescente. Molto si aspetta – e con ragione – dalla Chiesa; ma come fare perché la Chiesa, la militanza cristiana, non si racchiuda ossessiva, sterile, nel ripetere sempre più vuoto del "bisogna impegnarsi"? Dove incontrare energie costruttive e durature che lascino indietro gli anacronismi ideologici, l’impotenza arrabbiata, il crescente scetticismo, la retorica autocompiacente? Come fare per non ridurre lo slancio della solidarietà a sentimenti, ad entusiasmi passeggeri, la potenza della carità a volontariati dei cosiddetti "tempi liberi"? Come evitare, insomma, che la Dottrina Sociale non degeneri a discorso ideologico, moralistico, utopistico?

La risposta fu data dal Papa nella CA nel primo commento che lo stesso Pontefice fece della sua encliclica. Disse: "La Dottrina Sociale, accessibile e proposta a tutti gli uomini, è tutta tesa alla conversione, al cambiamento di vita. Fuori dal Vangelo non c’è soluzione alla questione sociale". Nel coro di consensi ed elogi che suscitò l’ultima enciclica riferita ad alcuni giudizi sugli avvenimenti politici ed economici in corso, fu proprio questa affermazione la sola che provocò significativi rifiuti e perfino il ripudio sistematico.

Non c’è soluzione alla questione sociale se non si costruisce su quella "pietra angolare", non c’è soluzione se l’indaffararsi attorno alle conseguenze sociali, politiche e culturali del cristianesimo lascia in un presupposto, sempre più irreale, la dinamica originale ed originaria della fede dentro la vita concreta della persona. Non c’è soluzione al di fuori di questa sola potenza capace di sanare il cuore dell’uomo, la sua miseria e schiavitù, e di cambiare la sua vita. Non c’è vera proposta cristiana se staccata dalla presenza missionaria di protagonisti nuovi dentro gli ambienti di vita mossi all’incontro dei più veri desideri e in risposta al bisogno del prossimo.

Perciò Giovanni Paolo II ama definire la Dottrina Sociale come strumento e dimensione di una nuova evangelizzazione, riflesso e forza di una vita effettivamente cambiata, diremmo dimensione sociale e politica di una umanità toccata dalla grazia.

Attenzione: non è un discorso ad uso dei soli cristiani. Si rivolge a tutti perché vuole cogliere ogni gesto di bellezza, di bontà, di verità, ogni sussulto di coscienza inquieta davanti all’ingiustizia, ogni lacrima, ogni speranza di chi cerca il senso della propria vita e del proprio lavoro, di chi cura la propria famiglia, di chi lotta per la propria dignità e per la dignità degli altri. Lontana da essere ingabbiata nei circuiti ecclesiastici, essa si propone a tutti, perché a tutti accessibile, alla ragione, alle attese di giustizia, di speranza del cuore di ogni uomo, ma nella convinzione che solo Cristo rivela all’uomo la sua dignità e il suo destino, via, verità e vita di piena realizzazione umana.

C’è una affermazione in questo senso che forse è la più radicale e sconvolgente nel testo della CA quando il Papa arriva ad affermare che "oggi più che mai la Chiesa è cosciente che il suo messaggio sociale troverà credibilità nella testimonianza delle opere, prima che nella sua coerenza e logica interna". Il patrimonio del Magistero Sociale si condensa sì attorno a quei principi di dignità della persona, di solidarietà, di sussidiarietà, che costituiscono come lo "zoccolo duro" dei principi derivati direttamente dal Vangelo. Ma più che la loro coerenza e logica interna, la testimonianza delle opere; più che la loro articolazione dottrinale, l’originale ed originario fare il cristianesimo come realtà e proposta di conversione, di vita nuova, di inizio di cambiamento della realtà. Più che nelle sacrestie e nei salotti culturali, nelle famiglie, nel luogo di studio e di lavoro, dentro tutti gli ambienti. Più che nella generica condanna dei sistemi o nell’inseguire affannoso dei nostri progetti, nell’incontrare, nel condividere, nel vivere qui ed ora una esperienza nuova, più vera e perciò più umana di lavoro, di amicizia, di convivenza che non aspetta per realizzarsi ne mette come condizione della sua possibilità un preliminare cambiamento del potere.

Questo tempo in cui vivamo ci offre anche la chance, che è esigenza ineludibile, di conversione alla realtà. Il sanguinoso fallimento delle utopie, la menzogna svelata delle ideologie, il fuoco abbagliante delle immagini, ci dovrebbe portare a fare quel bagno di umiltà che è il riconoscere l’unica, vera, reale strategia di cambiamento. Essa comincia nella persona, nel mistero della sua coscienza, lì dove viene toccata la sua libertà quando affronta lo spessore, il grigiore, la quotidianità dei suoi bisogni, cercando a tentoni una risposta che corrisponda ai desideri della sua ragione e del suo "cuore". Proprio in questo rapporto con la realtà, all’incontro dei "prossimi" animati da una grande passione per il proprio e loro destino, abituati ad assumere i loro problemi con realismo, con fantansia, con concretezza, i cristiani testimoniano il valore "sociale" della fede e l’esito liberante di una soggettività cambiata, resa più umana, cristiana. Allora sì il cristianesimo può tornare, torna ad interessare davvero ragionevolmente la vita delle persone, ad essere incontrato come quella risposta, sorprendente e gratuita, che attira perché piena di positività umana, insieme vera e praticabile, che si manifesta dentro i diversi ambienti e contesti culturali e si incontra nei volti dei testimoni e dentro una amicizia operosa la cui promessa intravista di felicità è capace di rompere perfino ogni steccato, ogni pregiudizio, ogni affiliazione ideologica. Così si rende presente il vero liberatore, pietra angolare di ogni costruzione umana. Non è forse la tradizione sociale dei cattolici una tradizione di opere – ricordava il Papa a Loreto – espressioni originarie e creative della fecondità dell’amore cristiano, del suo contributo originale al bene comune?

Nel 1982 il Papa, qui presente, consegnò al popolo del Meeting il compito di essere costruttori di una civiltà della verità e dell’amore. Lo ha chiesto ancora pochi giorni fa a tutti i radunati a Czestockowa. Non certo un millenarismo febbrile. Non ha nulla dell’utopismo alternativo, meno ancora messianismo secolarizzato. Qualcosa forse di troppo grandioso per i nostri limiti, i nostri mezzi, la nostra fatica? No, ci sono coloro che già la vivono, la sperimentano, nella propria famiglia e nel proprio lavoro, nella propria amicizia, la costruiscono miracolosamente in opere di solidarietà, di fraternità, l’annunciano con una testimonianza di una vera novità di vita; nonostante le proprie miserie, solo per grazia.