La grande guerra civile di ieri e
le piccole guerre civili di oggi e di domani
Martedì 22, ore 11.30
Relatore:
Ernst Nolte,
Docente di Storia Contemporanea presso la Libera Università di Berlino
Nolte:
Chi ha davanti agli occhi lo scenario globale degli ultimi cinque anni, del tempo dunque successivo al crollo dei regimi comunisti nell'Europa dell'Est, presumibilmente sentirà come paradossale la tesi che, nel titolo di questo incontro, contrappone ad una "grande" guerra civile di ieri, le "piccole" guerre civili di oggi e di domani.La guerra civile nell'ex Jugoslavia è presente sugli schermi televisivi — perlomeno d'Europa — quasi giornalmente, e non è passato molto tempo da quando facevano il giro del mondo notizie che riferivano di "pulizie etniche", incendi di chiese, moschee e città intere, addirittura di violenze carnali di massa, delle quali furono vittime molte decine di uomini, donne e bambini. Ancor più inconcepibili erano le cifre che si diffondevano sul numero delle vittime della guerra civile nel Rwanda africano: più di cinquecentomila, appartenenti all'etnia dei Tutsi, sarebbero stati uccisi dagli Hutu, addirittura regolarmente massacrati con macheti. Non molto tempo dopo telegiornali e notiziari radiofonici erano pieni di immagini e resoconti di una guerra civile nella quale la Russia, grande potenza militare, costringeva alla resa e sottometteva, con totale dispendio di armi moderne, una piccola presunta parte infedele del paese, senza arrestarsi davanti alla distruzione della capitale.
E anche la guerra del Golfo — l'unica vera guerra tra Stati che sia stata condotta in questo lustro — non era forse da comparare, nella sua fase finale, con quel che è il più terribile esito di una guerra civile, il massacro di tipo genocida? E nelle vicinanze non si svolgeva una singolare guerra civile di tutt'altro tipo: la rivolta di bambini e giovani che lanciavano sassi contro una forza d'occupazione pesantemente armata, cioè l'"Intifada" dei Palestinesi contro Israele? Qui tuttavia si determinò un certo movimento, come senza dubbio un evidente risultato aveva avuto la guerra del Golfo; si mise in moto un "processo di pace" che consente di nutrire speranze, anche se la televisione è piena come prima, e specialmente oggi, di immagini raccapriccianti di attentati terroristici da ambedue le parti. E tuttavia non rimane, o forse non rimaneva, pressoché senza rappresentazione una grande parte del quadro sanguinoso? Come la lotta del fronte di liberazione del Sudan del Sud contro l'esercito del paese, come la guerra civile in Angola, le carneficine tra Tamil e Singalesi nello Sri Lanka, le esasperate lotte dei Mujahiddin dell'Afganistan dopo la loro vittoria contro il regime comunista intorno alla distrutta capitale Kabul?
Non è necessario nemmeno parlare della Georgia, dell'Etiopia, del Messico, del Perù, degli orribili avvenimenti in Algeria, del Nagorno Karabach e dell'Azerbaigian, per arrivare al risultato che noi viviamo in un presente caratterizzato da guerre civili e genocidi.
In stridente contrasto con la formulazione del tema, un'immagine del tutto diversa si delinea se si volge lo sguardo a singoli momenti dell'epoca successiva alla prima guerra mondiale: chi intorno al 1929 viaggiava nell'Europa extra-sovietica non vedeva in alcun luogo qualcosa come guerre civili.
Addirittura nell'estate del 1940 sorprendentemente un viaggiatore non avrebbe scorto indizi di una "grande guerra civile". Certo la situazione in Europa si era completamente modificata: la Francia era in ginocchio e le armate di Hitler, unitamente con l'Italia di Mussolini, dominavano quasi tutta l'Europa.
L'Unione Sovietica comunista era legata strettamente con la Germania nazionalsocialista, anzi, quasi amichevolmente, e la Polonia era divisa tra le due potenze; solo qua e là si delineava la tendenza ad una "lotta di liberazione nazionale", la quale però in Polonia orientale era stroncata dai servizi segreti sovietici (NKVD) ancor più a fondo che non, nella parte occidentale, dalla GESTAPO. La guerra mondiale che poi, dal 22 Giugno 1941, prese il posto di quella che fino ad allora era in Europa una guerra relativamente incruenta, sembrò una lotta gigantesca di grandi Stati, che lasciò apparire quasi immutata la costellazione della prima guerra mondiale.
Ancora una volta, paradossalmente, si potrebbe così formulare la tesi che le guerre civili e i genocidi, che seguirono alla vittoria delle "potenze democratiche" nel '45, siano state più numerose e più terribili delle guerre civili che saltavano all'occhio nel periodo tra le due guerre, inclusa la guerra civile spagnola. In ogni caso, l'elenco per il periodo successivo al 1945 è sensibilmente più lungo rispetto al periodo antecedente; e accanto alle guerre civili che furono condotte nel quadro della guerra fredda, e sulle quali poi c'è da soffermarsi brevemente, qui vengono registrate le centinaia di migliaia di vittime causate dalle lotte fra indù e musulmani dopo l'indipendenza dell'India, le pesanti perdite patite dall'etnia degli Ibo nella guerra civile nigeriana e la deportazione degli indù dall'Uganda.
Ma se questi erano solo fenomeni marginali a confronto delle grandi guerre civili o rispettivamente genocidi, che appartengono al contesto del cosiddetto est-ovest, non si deve giungere allora ad una sconcertante e persino insopportabile conclusione? Che cioè questa guerra civile mondiale aveva uno stadio antecedente, primariamente limitato all'Europa, i cui protagonisti si chiamavano Stalin e Hitler, cosicché Stalin sarebbe da collocare dalla parte di Mao Tsetung, Ho Chi Minh, Kim Il Sung e Fidel Castro, mentre Hitler da quella di Chiang Kai Shek, Truman ed Adenauer?
È giunto tuttavia il tempo di concludere con la semplice descrizione, per passare all'interpretazione ed all'analisi.
Se si cerca di scoprire qualcosa in comune tra tutte le guerre civili fino ad ora menzionate, all'osservatore dovrebbe allora venire in mente, in primo luogo, l'insorgere contro vere o presunte ingiustizie.
Due stati possono lottare per qualcosa che ognuno cerca come bottino da accaparrarsi; gli schieramenti armati di una guerra civile si ritrovano solo quando parti considerevoli di una popolazione sono piene della sensazione di essere sottomesse ad una condizione ingiusta e di possedere una chance di cambiamento.
L'ingiustizia dalla quale prese spunto la volontà di guerra civile dei bolscevichi, era sentita da milioni di esseri umani in tutto il mondo, prevalentemente però dalle masse contadine dell'esercito russo già per metà vinto nell'estate del 1917. Così la "rivoluzione d'Ottobre" di Lenin e dei suoi uomini, significò in un primo momento una rivolta contro la guerra, e nell'essere orientata ad una condizione mondiale di pace duratura, essa aveva dalla sua parte, come oggi più nessuno dubiterà, una grande ragione storica. Come primo partito della pace pervenuto al potere, esso poteva contare su simpatie in tutto il mondo e tuttavia doveva farsi carico dell'odio di quelli che fino ad allora erano stati suoi alleati e dal cui fronte era uscito violando i termini del trattato.
Ma allo stesso tempo i bolscevichi volevano essere i paladini contro un'altra ingiustizia anch'essa ampiamente sentita: l'ingiustizia del "sistema capitalistico" che ovunque sfrutta "il lavoro" per far giungere il "plusvalore" nelle tasche dei capitalisti. Come socialisti essi appartenevano ad una antica e grande tradizione, la tradizione del movimento dei lavoratori, nato un tempo in Inghilterra e particolarmente forte in Germania agli inizi del XX secolo. Così essi avevano dalla loro parte una seconda ragione storica, e Lenin collegò immediatamente, già dopo l'inizio della prima guerra mondiale, il socialismo militante col pacifismo militante mediante la pretesa di trasformare la guerra in guerra civile; mettendosi, cioè, alla testa delle masse stanche della guerra, voleva non solo rovesciare il governo guerrafondaio dello zar, ma anche sostituire il sistema dell'economia di mercato "capitalista" — come autentica causa della guerra — con l'economia di piano "socialista". Attraverso la rivoluzione mondiale doveva così nascere, e certo non solo in Russia, una condizione sociale di tipo completamente nuovo, nella quale tutti gli esseri umani di tutto il mondo avrebbero convissuto in pace e in parità di diritti, senza sfruttamento ed oppressione. Un progetto più grande e, osservato in sé e per sé, più nobile, non era ancora stato concepito nella storia del mondo; il partito comunista dell'Unione Sovietica non era un partito come gli altri.
Ma il "progresso", di cui voleva essere l'incarnazione, era stato portato fino ad allora proprio dai paesi del capitalismo maturo o dall'economia dell'impresa e la Russia era un paese dell'economia agraria e del sottosviluppo. Non fu un caso se la "rivoluzione mondiale", che dall'inizio portò un volto così russo, fallì nel resto dell'Europa, e, accanto al concetto di Lenin di pace militante volto allo scatenamento della guerra civile, si affermò una concezione di pace di altro tipo, "borghese" e non militante, quella di Wilson.
L'autoaffermazione dei bolscevichi nella guerra civile russa giunse non da ultimo attraverso lo spaventoso "terrore rosso", percepibile fin da lontano, il quale si dirigeva espressamente contro intere classi, in primo luogo "la borghesia", ed ebbe di fatto come conseguenza l'eliminazione, come pure in larga parte quello sterminio fisico, delle "classi dominanti", che il primo marxismo aveva già postulato, anche se nella forma della espropriazione incruenta negli Stati più progrediti del mondo.
Così i pacifisti militanti costruirono un grande esercito e conquistarono la vittoria in una spietata guerra civile, che si propagò in Ungheria e in Germania, addirittura in Italia e nel restante continente europeo, anche se solo per accenni; ed i socialisti, entusiasti, divennero gli autori di un "omicidio di classe" che indusse il più noto dei marxisti ortodossi, Karl Kautsky, ad accusarli di un "socialismo tartaro". Così la grande ragione storica dell'avversione alla guerra e della pretesa di giustizia, si era trasformata, già poco più tardi, almeno parzialmente, in un torto storico, e si poteva capire come il Ministro della guerra inglese, Wiston Churchill, il quale era il più deciso fautore delle "armate bianche" nella guerra civile russa, credeva di doversi confrontare con un raccapricciante fenomeno di "asiatica" mancanza di cultura.
Ma molti milioni di uomini in tutto il mondo erano di altra opinione; lo sguardo di molti cinesi e di molti indiani si volgeva pieno di speranza verso "Mosca"; la parte maggiore del partito socialista francese passò al comunismo ed il partito comunista tedesco, ancora nel 1923, poteva sperare di giungere al potere attraverso una rivolta armata secondo il modello dei bolscevichi. Il partito mondiale dell'internazionale comunista era un fenomeno senza precedenti, di gran lunga il più originale ed importante venuto alla luce fino ad allora nel XX secolo; mai fino a quel momento un partito internazionale aveva tenuto in pugno un grande Stato, mai fino ad allora uno Stato monopartitico aveva portato così tanti essere umani all'entusiasmo pronto al sacrificio, o li aveva gettati, al contrario, in un panico estremo. La guerra civile mondiale ideologica che tale partito proclamava, doveva diventare la realtà fondamentale di una nuova epoca.
Ma quale nemico era destinato a raggiungere questa vasta apertura delle ostilità? Vi era la possibilità che essa venisse, per così dire, disarmata o resa inoffensiva dalle democrazie parlamentari dell'"occidente", che avevano certo la propria concezione della pace e che si muovevano sempre più chiaramente nella direzione dello "stato sociale" imboccata per prima dalla Germania di Bismarck, come ad esempio era accaduto in Francia, dove il partito comunista, in un primo tempo molto forte, divenne nell'arco di un decennio una setta insignificante. Tuttavia vi era anche la possibilità che potesse svilupparsi un partito della resistenza militante, il quale accettasse la sfida senza mezze misure facendo solo, così, della guerra civile una realtà, alla quale appartengono sempre due raggruppamenti. Un simile partito tuttavia non poteva essere il partito della resistenza della "borghesia"; la classe borghese non era in grado di esserlo a causa della sua debolezza numerica e a causa della sua concentrazione sul fattore economico. Vi doveva essere una sensazione di altre ingiustizie che era viva in grandi masse, ed una sensazione altrettanto ampiamente diffusa, per esempio che il postulato della pace e della giustizia, nella sua forma bolscevica e russa, significasse una minaccia mortale rispetto alle proprie tradizioni e concezioni. Una tale sensazione popolare dell'ingiustizia in Italia si configurava come l'indignazione riguardo alla "vittoria mutilata", mentre in Germania era l'odio contro il "dictat" della pace di Versailles. E quanta avversione e collera suscitassero le esclamazioni "viva Lenin" o "avanti Mosca", divenne chiaro per nessun altro dato di fatto come per questo: che il più noto socialista rivoluzionario dell'anteguerra, Benito Mussolini, si pose alla testa del contro-partito di guerra civile, il quale, dopo battaglie cruenti con migliaia di vittime, prese il potere in modo in parte violento e in parte legale, fondando il secondo Stato monopartitico in Europa. Così il nazionalismo si impose contro l'internazionalismo, e in un tutt'uno, il principio della collaborazione di classe prese il sopravvento sul principio della lotta di classe sul modello della guerra civile.
Una forma estrema, però, la risposta fascista poteva assumerla solo là dove la tradizione militare e la sensazione di una sconfitta ingiusta fossero così forti, che al postulato della pace potesse venir contrapposto il postulato della guerra per la guerra, della guerra come una forma necessaria e salutare della lotta per l'esistenza e cioè per lo spazio vitale. Questo concetto, tuttavia, doveva racchiudere in sé un contenuto sociale di tipo moderno: doveva a sua volta domare la "libera economia degli imprenditori" e porre al centro "il popolo" anziché la nobiltà o l'imprenditoria, e postulare, dunque, un socialismo nazionale. Questo caso si dava in modo marcato solo in Germania e il "partito nazionalista tedesco dei lavoratori" di Adolf Hitler portava, a tale riguardo, ben a ragione il suo nome. Esso tuttavia avrebbe dovuto operare un'integrazione ed aggiungere "partito di guerra", come instancabilmente i suoi avversari ripetevano. Avrebbe dovuto caratterizzare più esattamente il suo socialismo, cioè come un socialismo non di economia di piano, che non escludeva l'iniziativa degli imprenditori. Dal punto di vista attuale, non è affatto chiaro se in virtù di questa concezione, esso fosse nel torto storico in egual misura che per il suo essere un tutt'uno con la glorificazione della guerra. Ma la caratteristica principale era comunque il postulato del contro-annientamento, che riprendeva il "chi per chi" di Lenin e che aveva un carattere extra-morale, nella misura in cui si trattava dell'assoggettamento politico e se necessario fisico del nemico, che proprio da questo nemico, il partito comunista, già molto tempo prima era stato praticato.
Ma per Hitler era necessaria una figura odiata più chiara, che potesse essere rintracciata così lontano nella storia, quanto lo erano "la proprietà privata" e gli "sfruttatori" per i marxisti; e questa immagine odiata egli notoriamente la trovò nell'"ebreo". Attraverso l'antigiudaismo omicida, divenne torto morale e storico quella parte di ragione storica contenuta nell'antibolscevismo militante. Vi era perciò un'intima necessità che i nemici storici mondiali, "socialismo" e "capitalismo", si trovassero uniti contro il fenomeno più originale dell'epoca, il fascismo, e tanto più contro il fascismo radicale. Ma nemmeno attraverso i suoi campi di concentramento il nazionalsocialismo divenne il "male assoluto" o il "diavolo", quello che un modo di vedere tanto di parte quanto mitologizzante tenta di farlo diventare. Poiché una mistura di ragione storica non andò perduta, nemmeno nella guerra da aggressione contro l'Unione Sovietica, in quanto sino alla fine si volsero ad esso molte speranze, dei nemici di Stalin come Vlasov o delle vittime del "Gulag" come i ceceni. Così l'apparente guerra fra Stati, tra la Germania e l'Unione Sovietica, era allo stesso tempo la più grande guerra civile ideologica e internazionale che mai si fosse avuta, e solo partendo da questo carattere si possono intendere, anche se non comprendere, quei misfatti senza precedenti, che oggi, per lo più, vengono costretti in un isolamento molto di parte: l'annientamento sociale e contemporaneamente nazionale, del quale Katyn è un simbolo, e l'annientamento biologico, addirittura metabiologico, che è caratterizzato dal nome Auschwitz.
Nel periodo tra il 1945 ed il 1991 non seguì nessuna guerra tra Stati in grande stile del tipo della guerra civile, quale la seconda guerra mondiale. E il motivo di ciò non è certamente nient'altro che l'esser divenuti strapotenti dei mezzi tecnici della guerra, il terrore dunque di una guerra atomica che minaccia l'intera umanità. Ma il conflitto tra due potenze ideologiche determinò lo scenario in modo ancor più evidente che nell'epoca trascorsa; della guerra fredda e del conflitto est-ovest si parlava più spesso, ed esso ebbe su tutti i rapporti un'influenza più forte di quanto avesse avuto la lotta tra comunismo e fascismo, tra Unione Sovietica e Germania prima del 1941. Questo scontro non era più primariamente limitato all'Europa, bensì era mondiale, ed il passaggio della Cina nel "campo comunista" nel 1949 fu per l'intero "mondo occidentale" uno chock profondo, al quale seguì molto presto l'altro chock, l'aggressione nei confronti della Corea del Sud da parte dell'altra metà del paese diviso, la Corea del Nord.
Partiti di guerra civile vittoriosi in Angola, Mozambico ed Etiopia si definivano "marxisti-leninisti" e furono appoggiati rispettivamente dall'Unione Sovietica e dalla Cina. Attraverso i paesi divisi come Corea e Germania e come anche per lungo tempo il Vietnam, si tracciarono frontiere mondiali consolidate e pressoché impenetrabili. Vasti settori della gioventù universitaria nell'Europa occidentale e addirittura negli Stati Uniti furono affascinati dalle semplici linee della concentrazione marxista del mondo. Tuttavia divenne ben presto evidente che un processo di differenziazione si andava compiendo nel partito della guerra civile, un tempo incarnato solo dall'Unione Sovietica.
Dall'inizio degli anni '60 le due potenze egemoni comuniste si trovavano in pesante conflitto ed i cinesi non esitavano a parlare di una "sinizzazione" del marxismo; in Africa alcuni "partiti dei lavoratori" lasciavano riconoscere in modo del tutto manifesto il loro carattere tribale, i comunisti vietnamiti accusavano, colmi di indignazione, il carattere omicida e primitivo dei "Khmer rossi" in Cambogia, e la Repubblica Popolare Cinese faceva marciare le sue truppe in una spedizione punitiva contro il Vietnam riunificato. Ma anche la parte opposta assumeva un volto mutato: l'anticomunismo militante di McCarthy non andò oltre alcuni accenni, la Francia di De Gaulle si sottraeva alla rivendicazione del ruolo di guida da parte degli Stati Uniti, e negli anni '70 nessuna parola fu scritta a caratteri più grandi che "distensione". Dell'unico caso, invece, nel quale un anticomunismo militante divenne l'autore di un omicidio di massa gigantesco contro il vero nemico principale, e cioè del massacro di centinaia di migliaia di comunisti in Indonesia nel 1965, in Occidente quasi non si prese atto.
Retrospettivamente appare palese che non solo si stava compiendo una differenziazione sul versante degli Stati marxisti ma che l'ideologia un tempo così entusiastica e fiduciosa, perdeva forza da se stessa, e per bocca di Gorbaciov rinunciò alla pretesa di "verità assoluta". Mentre in Occidente, in stridente contrasto con Hitler, si applicava una "doppia strategia", sebbene senza una chiara coscienza ed una espressa finalità. La Repubblica Federale Tedesca, ad esempio, praticò nei confronti della Repubblica Democratica Tedesca una politica dell'abbraccio, attraverso crediti di miliardi, e tuttavia non rinunciò all'antica pretesa di rappresentare tutti i tedeschi e perciò anche i cittadini della Repubblica Democratica Tedesca. Prima fu aperta in Polonia una breccia nella fortezza dello stato totalitario, poi crollò il muro di Berlino ed infine l'Unione Sovietica di dissolse nelle sue parti costitutive, certo assai differenti. La "grande guerra civile" del XX secolo era giunta alla sua fine.
Ma il nocciolo di ciò che un tempo i bolscevichi avevano tentato di imporre ad un mondo terrorizzato, era nel frattempo divenuto una cosa ovvia, anche perché corrispondeva alla comprensione di sé ed alle tradizioni degli Stati Uniti: un pacifismo fondamentale da un lato e il postulato dell'emancipazione spirituale e materiale dall'altro, o l'equiparazione di tutti gli esseri umani. Non si profilava nessuna resistenza di principio contro l'universalismo dei "diritti umani" e nondimeno non era superato il particolarismo, la diversità che caratterizza tutte le realtà. Una delle sue manifestazioni era rappresentata da quelle "piccole guerre civili" delle quali si parlava all'inizio. Con esse si disgregò, in dati di fatto ed impulsi diversi, ciò che un tempo i bolscevichi avevano tentato di legare insieme, e che ora si lasciava suddividere in categorie di vario tipo: conflitti etnici, conflitti fra tribù, conflitti fra classi.
Di gran lunga più importanti nei riguardi del futuro appaiono quelle guerre civili e quei conflitti che hanno la loro origine nelle differenze della religione. Il profondo contrasto tra indù e mussulmani infranse, nel 1946/47, le speranze di Gandhi e creò due stati nel subcontinente indiano; il fanatismo religioso dell'ayatollah Khomeini rovesciò, con una rivoluzione addirittura classica, il regime dello scià e instaurò una teocrazia dei religiosi sciiti, che fino a poco tempo prima sarebbe stata inimmaginabile.
Oggi il fondamentalismo islamico è una delle cause principali della guerra civile nel Sudan del Sud, minaccia il regime egiziano con attacchi terroristici e porta in Algeria ad un contrasto che, tra il più tremendo dei terrorismi da una parte ed una vera e propria guerra civile dall'altra, si situa in un centro difficilmente definibile. Samuel S. Huntignton ha perciò voluto vedere la fonte principale dei conflitti di domani in una "clash of civilisation", che in un primo momento e principalmente sarebbe riconoscibile in uno scontro tra Islam fondamentalista ed Occidente cristiano-secolarizzato. Se si prosegue oltre a pensare in questa direzione, si potrebbe giungere alla previsione che l'Islam sarà il comunismo del XXI secolo, e, dunque, il nemico principale dell'Occidente. Ma di contro c'è da obiettare che questo Islam non ha, come un tempo il comunismo, una forza di irradiazione che giunge fin dentro le fila del nemico e che esso conduce nei propri paesi una lotta di difesa disperata contro la "rivoluzione mondiale dell'occidentalizzazione", come, in modo del tutto diverso, l'aveva condotta il nazionalsocialismo.
Anche le guerre civili del futuro che partono dall'Islam, saranno "piccole guerre civili".
Ma questa constatazione costituisce tuttavia uno sguardo troppo miope sul "domani". Se si collocano queste "piccole guerre civili" nell'ambito di tendenze più ampie, allora, conclusivamente, si può dire quanto segue: la "globalizzazione" di economia, traffico e comunicazione è nel frattempo diventata una realtà così sconfinata, che l'antichissima concezione della sinistra radicale del "villaggio mondiale" sembra essere diventata una realtà che si tocca con mano, alla quale ora deve seguire l'unità politica dell'umanità tendenzialmente omogenea. La grande industria multinazionale che conosce l'essere umano solo come forza lavoro e consumatore, mira in questa direzione ancor più efficacemente che non l'ideologia dell'universalismo umanitario. Certo è che questa messa in libertà di tutti gli individui per la loro propria "ricerca di felicità", significa, nel quadro dell'economia di mercato mondiale, la creazione di nuove differenze, tra chi ha un grande successo e chi ne è privo, e ciò fra gruppi non meno che fra individui.
Proprio dal postulato emancipatorio dell'autoderminazione, scaturiscono nuove lotte, giacchè vi sono numerosi gruppi, nel quadro degli stati ancora presenti o all'interno dell'economia mondiale che si ritengono svantaggiati oppure oppressi. All'unificazione economica corrisponde una moltiplicazione politica: forse alla fine del XXI secolo le Nazioni Unite saranno costituite da duemila stati e la strada verso di questo potrebbe essere spianata da innumerevoli piccole guerre civili.
Ma i più attivi tra gli individui svantaggiati o in qualche modo oppressi non vorranno attendere sino a quando il proprio gruppo, dopo secoli, sarà completamente equiparato; si accingono bensì ad immigrare verso i paesi benestanti del "primo mondo", senza curarsi del fatto che la grande massa di coloro che rimangono, i meno dinamici ed energici, devono sprofondare in un abisso di disperazione. In questo scopo quei tali vengono appoggiati, in questi paesi, da quell'universalismo etico, che idealmente nega quella diversità storica, alla quale esso stesso deve la sua esistenza. Tuttavia, contro questo partito dell'astratto universalismo, che conosce l'uomo solo come essere umano e non come francese, italiano, inglese o giapponese e, come è certo, vuole sostituire i precedenti stati nazionali con una "società multietnica" — quale stadio intermedio verso l'agognata fusione — contro questo partito si formerà probabilmente un partito degli strati più minacciati dall'immigrazione. Esso constata "l'esplosione demografica" del terzo mondo non più solo con rincrescimento ma la denuncerà come causa principale dell'invincibile povertà di queste parti del mondo e addirittura accusandola come "aggressione demografica", pronto per ciò a difendere con tutti i mezzi il presunto privilegio del suo relativo benessere. Si delinea in questo modo una nuova possibilità di guerre civili o condizioni di terrorismo, anche nell'ambito del primo mondo, immune da esse sin dal 1945.
Il futuro appare così in una luce estremamente fosca ma questa prospettiva poggia su una supposizione che non è necessaria della società del benessere occidentale; in considerazione della sfida attraverso dati di fatto e problemi, dei quali ancora nel 1917 vi erano appena degli accenni, si possono formare per il momento solo quei due partiti: il partito dell'universalismo etico, che o è ideale o deve rovesciare una dottrina marxista nel postulato paradossale dell'"impoverimento delle isole del benessere"; e il partito altrettanto astratto e del tutto egoista del tener fermo ad una situazione economica vantaggiosa, che possa ritenersi giustificata o meno.
A mio giudizio, non sono ancora riconoscibili gli inizi di un partito della sintesi, che potrebbe rendere concreto l'universalismo, in quanto tolga al particolarismo la sua mancanza di pensieri. Vedo solo "una" possibilità, per evitare queste funeste alternative e perciò devo darvi il resoconto della mia esperienza personale, già menzionata, che è in rapporto con questo incontro.
Alcuni anni fa fui invitato da un collega italiano per una conferenza a Milano e dietro suo incarico venne a prendermi all'aeroporto un giovane medico la cui lieta serietà fece su di me una grande impressione. Più tardi venni a sapere che egli è membro di un gruppo che conduce una vita austera e pronta al sacrificio, benché i membri di questo gruppo esercitino professioni del tutto moderne e diano prova di sé nella vita pratica. Se ricordo bene un interlocutore aggiunse che questo giovane medico, sotto il suo abito elegante, porterebbe, come cilicio, una camicia che gli faccia sempre sentire fisicamente i bisogni di un mondo senza credo e alla deriva. Se uomini come questi si proponessero di imporre la loro moralità — che non è affatto l'etica di un'umanesimo sentimentale e retorico - inducendo alla convinzione o con la violenza, allora essi dovrebbero instaurare un regime totalitario o fondamentalistico. Dopo le esperienze della "grande guerra civile" del XX secolo, ciò dovrebbe essere impossibile. Ma se essi desiderano operare ed essere efficaci nella società del benessere e nel rispetto di gruppi di convinzioni diverse, contro il mero orientamento al benessere ma anche contro la falsità del semplice umanitarismo, allora, per citare l'Antico Testamento, essi sarebbero simili a quei giusti, per i quali il Signore non voleva distruggere Sodoma e Gomorra.
Traduzione dal tedesco di Pierluca Azzaro