Giovedì 24 agosto, ore 15
LO SPORT, UNA STRADA VERSO LA REALTA’
Tavola Rotonda
Partecipano:
Valerio Bianchini, Enrico Campana, Aldo Notario.
Modera:
Massimo Camisasca.
M. Camisasca:
(…) Ci sono tante strade che legano l'uomo alla realtà e tante che invece lo allontanano. Tutte queste strade (…) sono percorse dallo sport. Legano l'uomo alla realtà, innanzitutto, le strade della conoscenza di sé, di ciò che circonda l'uomo e lo rende capace di esprimersi nella sua intelligenza ed impegno: e anche lo sport è impegno, superamento di prove, capacità di lotta, di fronte a se stessi, ai propri limiti, a dei traguardi. Lo sport è un'ipotesi di interpretazione della realtà, una conoscenza che si fa avventura verso l'ignoto anche rischio, anche fascino della bellezza. Se andiamo a vedere le variegate dimensioni della conoscenza intellettuale ed affettiva che l'uomo ha della realtà, lì troveremo anche le dimensioni dello sport (…). L'uomo va verso la realtà come individuo e come comunità: anche qui troviamo lo sport, che certamente si nutre di individualità, e può morire di individualismo, e troviamo lo sport come squadra, équipe, capacità di intesa, di conoscere l'altro che gareggia con me e contro cui gareggio. L'uomo si muove verso la realtà, infine, sulle strade della esaltazione e della delusione, anche qui troviamo lo sport. L'uomo si muove verso la realtà sulle strade della educazione del divertimento e dello spettacolo, dell'attimo e dei tempi lunghi e anche qui troviamo lo sport. L'elenco potrebbe essere lungo, non vi voglio tediare, ho voluto solo dirvi, per accenni, che questo tema non è peregrino, non è scelto a caso, che se l'uomo vive in connessione diretta con gli altri uomini, con ciò che lo circonda, lo sport può diventare una formidabile strada verso la realtà, o, al contrario, un drammatico schermo che può precludergliela (…). Vi invito a salutare, prima ancora che ascoltare, Valerio Bianchini, già allenatore della Nazionale di Basket, allenatore oggi della squadra Il Messaggero di Roma, personaggio di rilievo nella pallacanestro italiana per avere vinto tre scudetti con tre squadre diverse: Cantù, Roma e Pesaro. Ha sfiorato l'anno scorso il bis a Pesaro, e adesso è approdato a Roma, con tutta l'intenzione di arrivare al suo quarto successo… Abbiamo poi Aldo Notario, presidente del Centro Sportivo Italiano, un ente di promozione sportiva che ha portato allo sport decine e decine di migliaia di giovani in questi decenni, Vice presidente anche del comitato paritetico con gli enti del CONI, ha partecipato nello scorso novembre, in rappresentanza dell’UNESCO, alla Conferenza internazionale di Mosca sullo sport, la droga e la violenza. Un grande educatore, un grande trait d'union fra i giovani ed il mondo dello sport. E poi abbiamo Enrico Campana, redattore della "Gazzetta dello Sport", capo servizio del basket, una delle firme più prestigiose del nostro giornalismo sportivo. Ha partecipato come giornalista delle ultime Olimpiadi, come cronista la sua penna, dicono qui i miei appunti, cerca di non limitarsi al fatto sportivo in sé, arrivando a tutta la realtà umana e sociale che lo anima e lo sostiene. Vorrei chiedere ai nostri relatori una riflessione su questo tema (…).
V. Bianchini:
Prima, aspettando di fare questa chiacchierata con voi, mi è sembrato di essere in un Palazzo dello Sport: sono venuti un sacco di ragazzi a chiedere l'autografo o a fare due chiacchiere, mi ero anche preoccupato perché c'era una netta maggioranza di milanesi, con i quali, negli ultimi anni, non ho avuto grandi amorosi sensi, c'era un gruppetto di romani, e poi alcuni ex-fedelissimi di Pesaro. Ci sono i milanesi, i romani, i pesaresi, ma questa sera siamo tutti dalla stessa parte, dalla parte dello sport fatto nel modo giusto. Ci volevano proprio gli amici del Meeting per strapparmi alla mia squadra che purtroppo non è qui a fare il torneo perché siamo partiti un po’ tardi rispetto alle altre squadre (…) stiamo lavorando a Bormio per mettere insieme, da tante individualità diverse, un'unica squadra. Questa è stata un'estate molto faticosa per me, però molto eccitante, coinvolto in questa avventura della nuova squadra che prende forma, le facce emergono dall'immaginazione, si fanno persone vere (…). Una avventura bellissima, che mi ha ricompensato invece di un finale di stagione molto amaro, non soltanto per come è andata a finire la faccenda della mia squadra di Pesaro, la Scavolini, eliminata durante le semifinali, con una decisione a tavolino, ma soprattutto per quanto è avvenuto dopo. E anzi è stato curioso come il bruttissimo avvenimento della finale scudetto di quest'anno, dato in televisione davanti a tutt'Italia con un'audience mai raggiunta prima, fosse successo dopo una partita che era stata stupenda, per tensione, per carica agonistica (…). È finito in modo terribile, in un pugilato generale, con la gente scesa dagli spalti, che se l'è presa con i giocatori (…). Io ero molto preoccupato per me e avevo accettato di buon grado l'invito di un gruppo di ragazzi del Movimento di Forlì per una chiacchierata (…). Le loro domande erano arrivate come un'onda travolgente, erano tremende: perché la droga nello sport, perché Ben Johnson, perché la violenza nello sport. Io avevo reagito emotivamente, istintivamente, come a proteggere me, il mio ambiente, la pallacanestro: ho gonfiato i muscoli pettorali come Schwarzenegger e ho detto: fermi tutti, nella pallacanestro non ci sono problemi di droga, non ci sono stati negli anni terribili in cui la droga sembrava un modo per liberarsi, perché per fortuna lo sport non era liberato, anzi, era molto protetto, sotto una campana di vetro che teneva i giocatori lontani dalle ideologie, nel bene e nel male (…); non c'era stato allora, quel problema di droga, e non c'era adesso il problema della droga dei campioni, quell'altra terribile alienazione per cui sembra che la cosa più importante nell'esperienza di un atleta sia vincere con qualsiasi mezzo (…). Nel basket non è possibile, insistevo, non basta la forza, la pura espressione muscolare, contano di più la destrezza, la lucidità mentale, l'abilità manuale, tutte cose che, per fortuna, gli anabolizzanti non possono dare (…). E quanto alla violenza, anche lì, con molto orgoglio, ho detto: No ragazzi, noi del basket non c'entriamo niente con la violenza che adesso funesta il calcio... E me ne sono andato tutto orgoglioso delle mie risposte, lasciando che questi ragazzi andassero a casa, accendessero dopo un paio d'ore il televisore, e vedessero invece come venivo clamorosamente smentito. Quello è stato uno dei peggiori momenti della mia carriera di sportivo, perché io mi sono sempre illuso che vivere lo sport non fosse semplicemente guadagnare, oppure emergere... Ho sempre pensato che il mio modo di allenare, e il modo di giocare dei miei ragazzi, potesse essere un piccolo servizio alla gente, un modo di dire: Guardate ragazzi, esiste un modo di vincere che è migliorare se stessi, accettare il rimprovero di un compagno, anche essere sconfitti in un incontro, mai essere sconfitti dall'idea di sconfitta (…). Sono sempre stato convinto che queste cose servissero così come servono, nello sport, lo spirito di sacrificio, la collaborazione, la lealtà, l'amicizia. E invece mi trovavo improvvisamente di fronte al fatto che l'epigono di tutto questo, la finale scudetto, che doveva essere la grande festa del nostro sport, si trasformava in uno spettacolo assolutamente inaccettabile (…). Di fronte a questo, ho pensato che quei ragazzi mi avrebbero creduto non sincero (…). Avevo quindi bisogno di tornare qui e ringrazio il Meeting per avermi dato la possibilità di riflettere ancora su questa realtà: lo sport verso la realtà o lo sport che se ne allontana. Nello sport io ho vissuto tutta intera la realtà. Ero un ragazzino che passava tutto il tempo a leggere, timido, non volevo giocare coi compagni, anche a scuola stavo per i fatti miei, finché mio padre e mia madre si preoccuparono e, quasi con la forza, mi portarono in parrocchia. A Milano gli oratori sono stati sempre importanti, erano il luogo dove veramente si poteva crescere in alternativa alla scuola... Io ci sono andato recalcitrante, sono stato messo in mano all'assistente e lui mi ha detto: guarda, poche storie, i libri sono una bella cosa, ma è una vita vissuta da altri che tu leggi, vivi la tua vita in prima persona. Guarda, qui c'è un campo da calcio e là uno da pallacanestro, scegli tu. Naturalmente ho scelto subito la pallacanestro (…). Lì ho scoperto la vita, il mondo, la realtà, i compagni, ho scoperto anche una cosa che mi ha riempito di gioia: di avere un piccolo, piccolissimo talento per la pallacanestro che non avrei mai saputo di avere se non fossi andato su un campo di basket (…). Poi, questo piccolissimo talento l'ho messo insieme a quello degli altri, in una squadra vera e propria, nel CSI. Io sono molto riconoscente al CSI, perché adesso che ho allenato la Nazionale, con giocatori che mi hanno fatto vincere coppe europee, le emozioni provate da ragazzo nella squadra parrocchiale non le ho più provate (…). Lì scoprii una cosa importantissima, che il talento da solo non bastava, ci voleva disciplina, metodo, serietà (…). Rispetto alla scuola così lontana dal reale, lo sport era per me la realtà. Poi sono diventato allenatore, senza scegliere di farlo: credo che la spiegazione più semplice sia che qualcun altro l'ha voluto per me, per qualche misteriosa ragione (…). E ho scoperto chi sono i veri vincitori, non quelli che alla fine dell'anno, per un canestro in più, sono i campioni d'Italia (...). Nell'anno in cui abbiamo vinto lo scudetto a Pesaro, tutti hanno parlato del grande miracolo della Scavolini: ma c'è una cosa di cui nessuno ha parlato. C'è stato un giocatore, Ario Costa, reduce da un gravissimo incidente a Barcellona (…). Lui è stato quello che ha fatto pendere l'ago della bilancia a favore della mia squadra, rispetto a una squadra di grandi campioni come la Philips di Milano. Lui, che silenziosamente lavorava ogni giorno, col dolore fisico, con la fatica, anche con la speranza di tornare a giocare, lui è un vincente, lui mi ha fatto vincere (…). Siamo uomini veri, non finti, non abbiamo niente a che spartire con Ben Johnson o con Maradona o con la violenza di un tifoso ebete che non tollera la bravura degli altri. Però abbiamo il torto di non dirlo, di tacere, di parlare solo di pallacanestro. Abbiamo il torto di dimenticare il nostro piccolo servizio per la gente, di dimenticare che la vittoria non è tutto per se stessa (…).
A. Notario:
(…) Mi sembrano significative due dichiarazioni all'ordine del giorno in questi momenti. Una è di Lamberti, il recentissimo primatista mondiale dei 200 metri stile libero di nuoto. Il bresciano Lamberti dice: "Speriamo che qualcuno si accorga di me". La seconda è di Matarrese che, all'inizio del Campionato di Calcio e della Coppa Italia, dice al TG1 che il calcio è fortemente compromesso e condizionato dagli interessi economici. Si tratta di due dichiarazioni che si integrano: la prima è di un atleta che cerca sponsorizzazioni per uno sport che, evidentemente, è poco sostenuto dagli sponsor. L'altra è del presidente di una grande Federazione che deve fare i conti con la violenza, non solo negli stadi, ma con quella che percorre sotterranea ogni società dove il conflitto, specialmente nel calcio, c'è ogni giorno tra presidente di società, allenatore e giocatori (…). Il problema non è tanto la violenza, che è secondo me il risultato di una condizione in cui lo sport vive oggi, di sudditanza a quella che può essere chiamata industria dello sport. Perché lo sport è diventato un'industria, le Olimpiadi sono diventate delle multinazionali (…). Don Massimo ed io arriviamo da Compostella. Giovanni Paolo II mette in allarme dicendo che la libertà dell'uomo va difesa, non soltanto dalle catene politiche e ideologiche che ci sono all'Est, ma anche da quelle economiche che ci sono all'Ovest (…). L'esperienza del rapporto tra ragazzo ed educatore, di cui prima parlava Bianchini, si incentra sui valori fondamentali della vita umana e dell'esperienza sportiva come è stata e come va difesa, che sono anzitutto la gratuità, poi la libertà. E condizione perché l’educazione possa avvenire è che lo spazio dove si esercita sia uno spazio libero: il problema è di creare spazi di libertà, non soltanto nelle strutture cosiddette cattoliche, ma anche nelle strutture comunali (…). Il terzo elemento è quello della festa. Durante l'Anno Santo, nel 1983, fu presentata l'idea a Giovanni Paolo II di celebrare un giubileo degli sportivi allo stadio olimpico. Questo Papa che gira il mondo, che incontra le folle dentro gli stadi, non era mai stato allo stadio olimpico. Lo stadio era stato inaugurato nel 1957 con una infausta partita Italia-Ungheria, persa dall'Italia per 3 a 1, in cui si tentò di portare Pio XII a tagliare il fatidico nastro dell'inaugurazione. L'idea non andò in porto perché non c'erano le condizioni politiche per portare quello che era, tra l'altro, il Papa degli sportivi Giovanni Paolo II è venuto nel 1983, il 17 aprile, a fare la Pasqua degli sportivi allo Stadio olimpico. Il giorno dopo un giornale di grande tiratura, "Il Corriere della Sera", scrisse: "Finalmente allo stadio un giorno di festa!". La violenza era già entrata negli stadi, stava già annebbiando la vista di questo sport e avvelenando i rapporti. Allora la domanda è che, oltre alla gratuità e al gusto di stare insieme, lo sport ritrovi il gusto di fare festa. Bisogna chiedersi se oggi lo sport, condizionato dai vari poteri, sia ancora in grado di comunicare e trasmettere questi valori fondamentali per la vita di un uomo. Giro questa domanda a tutti gli operatori sportivi, perché solo così si salva il futuro dello sport, combattendo la violenza, non con le forze dell'ordine, non con i controlli, ma rinnovando il nostro impegno per uno sport libero da questi condizionamenti. Allora lo sport sarà ancora, come deve essere, un grande incontro di festa. Grazie.
E. Campana:
Grazie. Scusatemi, devo respirare forte forte per buttare fuori il rospo dell'emozione, ho la fronte imperlata di sudore e non è colpa dell'effetto serra (…).Vedo in voi la morsa del pubblico, spietata, generosa e ingenerosa. Io sono un semplice tramite tra il campione, l'avvenimento e la realtà, con il mio modesto contributo che è quello di un giornalista. Ho emozioni più rarefatte di quelle di Bianchini, perché vedo la partita attraverso plexiglas e affronto con Bianchini e i suoi crociati argomenti spesso di grande serietà, usando parole convenzionali, delle quali molte volte mi sono vergognato, in questi quattro e più lustri di permanenza alla "Gazzetta dello Sport" (…). La vita è piena di avventure, di emozioni. L'avventura è debuttare in mezzo al pubblico qui. Vi chiedo scusa, sono abituato a dialogare con i computer e con i campioni con formule convenzionali, sono un giornalista della stampa scritta e, per rispetto a voi che volete la verità e a me che cerco di darla, ho preparato una piccola relazione su un fenomeno del giorno, il caso Maradona e le responsabilità di noi giornalisti. Il caso Maradona è fonte di riflessione di ogni genere, dal comportamento del campione nei confronti di se stesso a ciò che rappresenta per la crescita di chi guarda a lui come ad un esempio, un ricettacolo di valori morali e più materiali, come il successo ed il denaro. Ma il caso Maradona è fonte di riflessione anche per noi giornalisti sportivi che dobbiamo presentarlo ai nostri lettori (…). Ho letto da qualche parte una vecchia critica di Pasolini, anche lui un protagonista di questo Meeting, sulla televisione: "La televisione ha concluso l'era della pietà e iniziato l'era del piacere". Il discorso vale anche per i giornali: si toglie un velo alla cronaca di una gara di una prestazione agonistica, si entra nel terreno inquietante, nel fenomeno spesso inquinato della cronaca nera (…). Non è colpa dei giornali sportivi, e nemmeno solo dello sport, se Maradona è quel campione inquietante che tutti conosciamo. Ma noi giornalisti di sport possiamo creare un tribunale sportivo documentato, in grado di emettere una sentenza non morbosa e di ricondurre il fenomeno nella sua giusta luce, magari spegnerlo, ridicolizzandolo. Ma il tramite fra il campione e la realtà, Sherlock Holmes appunto, in questo caso è il giornale sportivo. Due giorni fa un quotidiano di informazione, di fronte all'inquietante comunicato stampa con cui il campione del Napoli comunicava dall'Argentina di non poter tornare in Italia per oscure minacce della camorra, ha pubblicato una dichiarazione, lapidaria quanto coraggiosa, del Presidente della Federazione Italiana Calcio: se Maradona non rispetterà gli impegni, se non dimostrerà di essere un calciatore serio, rischia di non giocare nemmeno al Mondiale di calcio. Così lo avvertiva Matarrese, facendogli capire le sue responsabilità di professionista e di uomo pubblico. La notizia giustamente veniva pubblicata di spalla nella prima pagina delle cronache sportive di un quotidiano di successo, in corpo robusto nero e con molti virgolettati. La stessa notizia su di un quotidiano sportivo, ahimè, veniva riportata oltre la sessantesima riga di un pezzo pubblicato in apertura nella pagina dedicata a questo enorme caso. L'articolista, destimolando anche il titolista che non coglieva quindi più l'importanza ed il significato della minaccia di Matarrese, si perdeva in un preambolo descrittivo che finiva per togliere succo al pezzo stesso, anche se l'autore del servizio cercava di offrire, con una chiave descrittiva minuziosa ed in realtà ampollosa, nauseante, al lettore, la certezza della propria presenza dietro le quinte del fatto. Ma il fatto automaticamente veniva svuotato di contenuti quando finivo per leggere che un leggero ponentino solleva gli angoli della cartellina di cartoncino colorato che il presidente del Napoli porta sotto il braccio, descrivendo, ahimè, l'ingresso di Ferlaino al colloquio con Matarrese. Quello di vedere la pagliuzza e non la trave nel proprio occhio è un vizio che risale ai Vangeli, ma che noi ci portiamo appresso come un peccato originale. Un certo giornalismo di successo sulle alte tirature legittima scelte editoriali rivolte alle polemiche, agli scandali morbosi, alla leggerezza di temi, a una mancanza della ricerca della verità e della notizia. Personalmente avrei voluto leggere, di fronte alle paure di Maradona, una serie di editoriali in cui si concedeva al campione il diritto di temere per la propria incolumità e per quella della propria famiglia o delle varie famiglie che ha in giro per il mondo, ma senza trascurare anche lo strano modo di vivere di Maradona, il suo uso selvaggio della propria immagine. Infine, essendo stati. messi sotto accusa Napoli e la camorra, i miei giornali avrebbero dovuto chiedere conto a Maradona e ai suoi managers di queste affermazioni oltraggiose, almeno fino alla richiesta della più elementare prova. Ma i giornali sportivi sono un fenomeno editoriale recentissimo di grande successo, troppo importante per chieder loro una brusca inversione di tendenza Non vorrei sembrare uno che sputa nel piatto dove mangia, sono un uomo di " Gazzetta", felice di essere gazzettiere per come tento, nel mio piccolo orticello della pallacanestro e degli sport vari, spesso meno contaminati, di fare da tramite fra la notizia e la realtà, cercando non la fenomenologia ma l'uomo, con le sue virtù e le sue debolezze (…). L'Europa è alle porte, avrei voluto vedere sui nostri giornali nascere per tempo anche un’Europa sportiva (…), ma forse è chiedere troppo, quando non è ancora fatta l’Italia dello sport. Avrei un ultimo messaggio, vorrei che tutti voi foste dalla parte del giornalismo letto nel modo giusto, che riconosce l'onestà intellettuale di chi, come me ed i miei colleghi, cerca di dare il suo contributo, ma per stimolare un vostro contributo allo sport come critici onesti e sereni, non come tifosi.
Domanda:
In questo Meeting si è parlato molto del paradosso: qual è stato l'episodio più paradossale cui avete assistito nella vostra carriera?
V. Bianchini:
Il fatto stesso che io sia allenatore, è un paradosso incredibile. Così pure il fatto che il basket è uno sport di giganti e io sono nettamente sotto la media attuale di statura. Però, per me come per i miei giocatori, questo diventa proprio una sfida a cercare il predominio della ragione o della analisi rispetto alla pura fisicità. Il basket è uno sport fatto per supergiganti, però contano anche i piccoli in campo (…). Anche la preparazione di una partita, dove invento mille schemi che poi decido di non usare, è un paradosso che noi viviamo tutti i giorni ed è l'essenza stessa del fatto che dobbiamo essere umili. Tutta la nostra sapienza non conta niente, se non sappiamo leggere la realtà.
A. Notario: Il paradosso nello sport è l'essere sempre stata una esperienza di serie B sotto l'aspetto educativo (…). Il paradosso è far capire a tutti i protagonisti - allenatori, giornalisti, operatori e specialmente ai ragazzi - che stanno vivendo una esperienza educativa (…)
E. Campana:
Si potrebbe fare un gioco di parole e un po’ di filosofia, il basket è uno sport di uomini piccoli in campo grande (…). Un paradosso giornalistico riguarda il mio rapporto con un grande maestro, Palumbo, che è stato direttore della Gazzetta dello Sport" ed è riuscito a trasformare un giornale superspecializzato in un giornale nazional-popolare. Un giorno feci un articolo su Vendemini, un ragazzo riminese scomparso poche ore prima, giovanissimo. Lo aveva scoperto nelle campagne la squadra di Cantù, che decise di farne un giocatore di basket. Il brutto anatroccolo sbocciò in un magnifico cigno, vinse titoli importanti, fu protagonista di una vittoria contro la Jugoslavia (…), ma la vita gli riservava anche un matrimonio e un figlio. Ebbene, questo atleta era affetto da un male genetico impietoso, la sua vita era segnata da sempre: sicuramente i medici e le società sportive furono poco scrupolosi, sicuramente tutto il mondo del basket peccò di leggerezza. lo scrissi che il basket aveva le sue responsabilità, ma che aveva dato a questo giocatore delle gioie e una compiutezza che altrimenti non avrebbe avuto. Il mio direttore prese il pezzo e disse: non lo pubblico, perché non fa piangere. Da quel giorno ho sempre fatto pezzi come quelli (…)
Moderatore:
Ringrazio tutti i nostri amici che sono intervenuti, Valerio Bianchini, Aldo Notario, Enrico Campana, tutti voi che avete ascoltato. Vi do appuntamento alla prossima tavola rotonda sullo sport del Meeting del '90. A presto.