EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE

Le sbarre fuori dal carcere

Mercoledì 25, ore 11.30

Relatori:

Ernesto Olivero,
Presidente Sermig

Francesco Maisto,
Sostituto Procuratore Generale
di Milano

Sergio Cusani,
imputato di Mani Pulite

Virgino Colmegna,
Responsabile Caritas Ambrosiana

Olivero: Se un uomo o una donna hanno una certa disponibilità e non hanno un interesse privato, la loro vita scorre come il fiume che inevitabilmente deve andare verso il mare; in caso contrario diventano come una piuma in cui il vento è il protagonista e sbatte e fa volare dove vuole. La mia vita è quella di una persona normalissima che a sette anni decise che era giusto occuparsi dei problemi degli altri; e a quell’età uno ragiona da bambino. Il segreto è tentare di ragionare tutta la vita da bambino: non avere interessi privati.

Quando ho fondato il Sermig (Servizio Missionario Giovani), 35 anni fa, volevo occuparmi esclusivamente dei problemi degli altri nel Terzo Mondo. Poteva già essere un impegno importante e serio. Ma la vita aveva degli altri appuntamenti per me. Ricordo il giorno in cui un sacerdote della Curia di Torino, don Carbonero, mi disse: "Ernesto, puoi andare in carcere? C’è una donna che ha bisogno di te, noi abbiamo pensato che solo un tipo come te, con le caratteristiche che hai tu, può darle una mano". Io ero già impegnato 24 ore su 24, ma non volevo perdere un appuntamento possibile con Dio. Non tutti gli appuntamenti sono con Dio e Dio vuole essere messo alla prova. Il giorno seguente il cappellano delle carceri di Torino mi disse che i carcerati di Torino volevano conoscermi dopo aver letto un mio libro, erano stupiti di come avevo trattato alla pari zingari, carcerati, prostitute, Presidenti del Consiglio. Questo era il segno che mi serviva per decidere: da allora il carcere è diventato casa mia e casa mia è diventata la casa di tanti carcerati.

Ci sono entrato con l’innocenza di un bimbo, pensavo di andare in una struttura dove la Costituzione fosse applicata così che il carcerato non dovesse essere punito, ma rieducato; quel che accadeva era esattamente il contrario. Il Natale di quest’anno Torino è stata teatro di uno scandalo nazionale: una povera ragazza di 26 anni, con anoressia e tanti altri problemi, era stata allontanata da tutti perché pericolosa; hanno chiesto a noi se potevamo prenderla e noi chiedendo discrezione, che naturalmente non venne rispettata, accettammo. Quando abbiamo capito il problema di questa donna, per darle una mano, abbiamo dovuto metterle intorno 19 donne e con fatica l’hanno aiutata anche a riprendere un peso accettabile. Questo recupero in carcere non sarebbe stato possibile.

Il carcere è inutile così come è fatto, non è inutile in assoluto. Dovrebbe essere umano: un numero di detenuti ridotto, educatori come guardie, in grado di capire il dramma di un marocchino o di un ragazzo che entra per la droga. Questo oggi non c’è e per questo è impossibile aiutare le persone. La cosa strana è che un ospedale che invece di guarire, ammazza la gente verrebbe chiuso immediatamente, ma un carcere che invece di rieducare i detenuti li spinge anche a maggior crimini viene lasciato in piedi. Noi dovremmo semplicemente trovare il sistema perché il carcere rispetti la Costituzione: tutte le persone che sono state seguite con amore, con severità, con filosofia hanno avuto una chance di cambiare. Noi sogniamo il carcere in cui il signor Ernesto Olivero possa conoscere il carcerato matricola dal primo giorno e dal secondo possa consentirgli di proseguire gli studi o imparare un mestiere. Questa è rieducazione e non è utopia perché in questi anni abbiamo portato anche la fiamma ossidrica in carcere e non è servita per far scappare, ma per far lavorare. Abbiamo fatto diventare casa nostra un luogo dove tanti carcerati, a decine e decine, sono venuti a trascorrere la loro semilibertà o sono venuti a rigiocarsi la vita.

La nostra esperienza è positiva, ma molto severa; l’importante è che emerga la speranza, come quando in una certa situazione un fatto, da negativo, diventa positivo. Lo Stato dovrebbe diventare allievo di tante situazioni positive affinché faccia entrare nella sua struttura e nelle leggi quello che è stato possibile in tanti piccoli gruppi.

Maisto: La mia esperienza è piuttosto inedita: quando cominciai a fare il pretore svolsi per anni il compito di magistrato di sorveglianza per cercare di costruire qualcosa di positivo nei percorsi dei detenuti; sono stato indagato per associazione a delinquere di stampo mafioso, perché, secondo un collaboratore di giustizia, mi sarei fatto pagare per concedere permessi di uscita a malavitosi che dovevano vendicarsi di torti subiti da altre cosche. Particolare di non poco rilievo: fui iscritto nel registro degli indagati senza nemmeno verificare se i morti c’erano stati.

Iniziando l’attività di magistrato dentro le carceri, nel 1980, ho potuto vedere l’isolamento nei sotterranei di san Vittore: non esistevano i servizi igienici e il trattamento degli isolati era subumano. Ho potuto vedere durante il periodo del terrorismo, di fronte al quale c’era una necessità di difesa forte, mani di bambini attaccate ai vetri divisori nel vano tentativo di toccare i genitori. Ho potuto vedere giovani bruciati nelle celle per l’incapacità o per l’impossibilità dei vigili del fuoco di entrare e per l’inefficienza del sistema anti-incendio. La mia azione e reazione di fronte a questi fatti, nelle forme che la stessa legge mi richiedeva, non era un abuso. La legge chiedeva, lo Stato mi pagava, la mia motivazione mi portava ad applicare la legge: nient’altro che il mio dovere. Questa attività è stata qualificata in tre maniere diverse, comunque, sempre contro di me: incompatibilità ambientale perché vigilavo troppo sull’attività del direttore; nel senso sanzionatorio disciplinare del CSM, come una personale visione del ruolo di magistrato di sorveglianza che privilegia la presenza all’interno del carcere, piuttosto che la redazione di provvedimenti giudiziari; collateralità mafiosa.

Per fortuna tutto è finito nel nulla e sono felice di aver agito in un certo modo dopo aver avuto davanti agli occhi circostanze che mi hanno provocato come quella che non riesco a dimenticare: un cagnaro, mestiere scomparso, che uscito da san Vittore dopo anni di detenzione gridava perché voleva rientrare.

I miei stessi compagni di partito mi hanno accusato di essere un intimista: eppure, sono solo preoccupato del fatto che si manifesti sempre di più una sorta di razionalità moderna nei termini del bracciale elettronico, dell’incidenza telematica. In un modo quasi unanimistico, non ho sentito voci eccessivamente dissenzienti, oggi non c’è riflessione sul modello di uomo, sul tipo di relazioni che si vuole ci sia nella società del Duemila, cioè con quale visione della pena ci presentiamo all’appuntamento del Giubileo. Questo è il mio problema di fondo, perché l’immagine che io ho oggi di certe cose è quella di un paradosso d’una razionalità moderna che riprende l’immagine weberiana della gabbia d’acciaio: la penalità, macchina impazzita, e la pena, violenza senza senso. Il modello americano, in cui campeggia la macchina di livello tecnologico avanzato, non è accettabile nel nostro ordinamento e nella nostra cultura.

Ci sono alcune parole magiche, che oggi in modo unanime si stanno facendo strada, una specie di sistema nervoso di carattere retributivo che rischia d’irradiarsi su tutta l’esecuzione penale e lascia la coscienza, se di coscienza si può parlare, libera ed anzi appagata. Si costruisce in concreto l’esecuzione contro il condannato non per avviare e sviluppare con lui un percorso di riabilitazione, utile per lui e per la società, ma con un desiderio di infliggere una pena che sia anche in certa misura sofferenza e poi si usano parole magiche come immodificabilità della pena, in contrasto con la flessibilità della pena, o certezza delle pene. Sono parole che sembrano nascondere il giustizialismo diffuso, ma è tempo che vengano smascherate. Per esempio, nella contrapposizione fra la tesi della flessibilità e quella della immodificabilità della pena, si assiste all’uso di parole che hanno, secondo i sostenitori delle due tesi, significati affatto diversi. Il concetto di uguaglianza di chi sostiene la inflessibilità della pena nasce dal cogliere il reato e il suo autore fuori dalla loro storia: la pena deve cogliere il più oggettivamente possibile gli estremi dell’accaduto ed essere adeguata allo stesso, non conta il prima e il dopo di tale colpa. Si tratta di un’uguaglianza puramente formale, non ha nulla a che vedere con l’uguaglianza reale. L’esecuzione della pena deve essere secondo il precetto costituzionale dell’articolo 27, lo strumento della risocializzazione di tali persone dopo il reato e la condanna. Se la pena è, e deve essere, questo, la stessa deve servire ai condannati per esprimersi come persone libere e per riassorbire le diversità dei punti di partenza rispetto agli altri: questo è uguaglianza.

Un’altra parola piuttosto ipocrita è "certezza", certezza della pena. La pena deve essere certa per i sostenitori della sua immodificabilità: infatti se si consentisse la flessibilità della pena, essa cesserebbe di essere certa. L’esigenza della certezza della pena viene da una pedagogia della chiarezza e della definitività che si pensa debba attenere alle decisioni del giudice: caratteristiche indispensabili della sua autorità. Ovviamente, sostenendo la flessibilità, non si contesta la sentenza definitiva, ma semplicemente si afferma l’utilità di un’esecuzione dinamica della pena. Dalla parte opposta, invece, si vuole l’immobilismo esecutivo, in un’ottica di questo tipo: chi sbaglia paga; e solo dopo aver pagato potrà essere ripreso in carico dalla società. Se il complesso dei problemi di una persona, la sua storia, che sono fuori da ciò che affronta il giudice, si proporranno tali e quali al termine della pena e si risolveranno in nuove colpe, per queste non ci sarà che da isolare nuove pene.

C’è un’ottica sociale sottostante la contrapposizione tra società e colpevoli – la legge è uguale per tutti – ma l’esistenza e la collocazione sociale saranno diversi, con la conseguenza che la legge sarà uguale per alcuni e meno uguale per altri. Dietro questa incessante, e unanime, richiesta di certezza della pena, che poi è certezza del carcere, perché si dice "pena" e si pensa "carcere" – ma il carcere non è costituzionalizzato, la nostra Costituzione non prevede il carcere, non ne parla proprio – c’è come la sostituzione di un assoluto a un relativo, c’è un retribuzionismo di ritorno, il primato della legge del Vecchio Testamento. In sostanza c’è lo scetticismo, il pessimismo, il distacco, la mancanza di interesse e di passione, di chi non crede che l’uomo, anche se delinquente, possa cambiare. È una concezione pessimistica dell’uomo. Non ha nulla a che fare con quella convinzione, per molti versi condivisibili, della crisi del modello correzionale, che a sua volta potrebbe anche essere soltanto la crisi del trattamento o la crisi delle tecniche del trattamento, o anche del ruolo degli operatori del trattamento.

Ed allora ritorna il problema di fondo: a quali valori è funzionale questo tipo di penalità, questo tipo di potestà punitiva? È necessario pensare di aprire sempre di più la divaricazione forte tra soggettivizzazione e oggettivizzazione degli individui, di modo che appaia evidente come l’oggettivizzazione degli individui significa il dominio disumanizzante e quindi la morte della persona. In questo contesto ho lavorato volentieri al progetto di un lavoro di pubblica utilità che fa appello alla responsabilità, alle relazioni umane, al controllo nel "fenomeno comunitario".

Cusani: Ognuno di noi ha un suo valore sociale perché ha costruito delle relazioni con altri esseri umani: se a un uomo si toglie il suo valore, un uomo perde di senso, perde il senso di sé, diventa dannoso a se stesso e inutile agli altri. Quando il carcerato esce dal carcere è spesso incanaglito e non ci si può meravigliare se poi compia efferati delitti.

Sono stato a trovare la vedova e i figli del gioielliere Bartocci: entrato nella gioielleria sono rimasto bloccato fra quelle due maledette porte che hanno fatto perdere la testa a chi aveva compiuto la rapina. È stato un momento molto forte l’incontro, e con loro si è aperto un confronto. Gli ho spiegato che c’è un posto magico, proprio nella loro via, viale Padova, un parco che si chiama "Trotter" che un tempo era la casa del sole, la casa per i bambini, con un trenino che si chiamava "il trenino del sole": un asilo sperimentale, un asilo d’avanguardia, in una zona di Milano dove sono successi i delitti di gennaio e di luglio. Il quartiere è sempre stato importante perché collegava la metropoli Milano con la città operaia di Sesto San Giovanni. Sesto San Giovanni è ormai disseminata di relitti, fabbriche chiuse e arrugginite, e viale Padova è diventato un quartiere di transito, ha perso identità. Quando un territorio perde identità, quando si riduce a diventare un aggregato di estranei, può succedere di tutto. Ma in questo quartiere c’è un cuore, c’è un parco magico: trenta edifici e padiglioni in gran parte chiusi, abbandonati alle erbacce, da recuperare per ricostruire il territorio. Noi possiamo dare senso alla nostra vita evitando di avvitarci nel dramma esistenziale della nostra "impermanenza", quello che chi ha fede chiama vita oltre la morte. La nostra vita sulla terra è un cammino faticoso, dove ci inventiamo tante cose da fare, si vive in fretta e si muore anche di fretta: se ci si avvita in questo pozzo di san Patrizio, che è il proprio senso esistenziale, non se ne esce fuori.

In carcere abbiamo costruito, con altri detenuti, un gruppo di lavoro. Abbiamo trovato il senso collettivo di lavorare e di progettare. Si può partire da questa esperienza. Un quartiere può ritrovare la sua anima se tutte le componenti del sociale che si mettono insieme e questo posto meraviglioso di 128.000 metri quadrati in una situazione disastrosa ritornano a vivere. Abbiamo proposto alla famiglia del gioielliere Bartocci di fare un centro di artigianato orafo, intitolandolo proprio a Ezio Bertocci, perché se i famigliari delle vittime non elaborano il loro dolore rimarranno vittime loro stesse dell’odio e l’odio produce altre vittime. Loro hanno condiviso questo progetto, parteciperanno a questa commissione per il recupero di quest’area meravigliosa, un centro interetnico, dove culture e credi diversi si incontrino e si confrontino.

La politica ha abbandonato il territorio. Qualche anno fa c’era perlomeno qualche traccia di dibattito; adesso i luoghi del dibattito e del confronto non ci sono, si rischia di diventare scatole che assorbono opinioni altrui. Bisogna riaprire un dibattito per cambiare il territorio, per affrontare soprattutto in modo equilibrato e giusto il problema della immigrazione; occorre tener conto che gli extracomunitari hanno sostituito in molte zone italiane i lavoratori italiani, e occorre essere per questo debitori nei loro confronti. Il braccialetto elettronico è pericoloso non solo dal punto di vista morale, ma perché, una volta accettato verrà utilizzato in diverse occasioni: saranno imbraccialettati i rom, i vagabondi – molti dei quali sono giovanissimi – e tutte quelle persone che non sono accettate dalla società, compresi gli extra comunitari.

L’intervento sul sociale è diventato molto urgente. In carcere, per esempio, manca la possibilità di riscattarsi, di portare fuori ciò che si produce di positivo all’interno; il carcere è un carrozzone che fa acqua da tutte le parti: ogni detenuto costa allo Stato 100 milioni l’anno e il 70% dei detenuti che escono ci ritornano. Se non si spezza questa spirale non si combina assolutamente niente e non ci si può meravigliare se un uomo, dopo cinque anni che è stato in una cella, per 22 ore al giorno, esca fuori e non abbia voglia di amare il resto dell’umanità. Solo se si produce progettualità, perché noi viviamo di progettualità, allora si riacquista il senso.

L’enorme patrimonio che c’è in tutta Italia e che cade a pezzi potrebbe essere recuperato e messo a disposizione degli anziani e dei giovani per attività culturali.

Un’altra idea che abbiamo avuto io e i miei collaboratori è quella di fondare la "Banca della solidarietà": una struttura agilissima, che costi pochissimo, che non incassi neanche una lira, ma in cui tutto il lavoro che produce vada finalizzato ad attività produttive, attività culturali, attività di solidarietà. Il sistema sociale così com’è sta producendo povertà, sette milioni e mezzo di poveri, quattro milioni e mezzo componenti dell’area del disagio sociale; la situazione che si è instaurata porterà ad un aumento della disoccupazione e quindi ad un aumento della povertà. Bisogna darsi da fare, bisogna organizzarsi, bisogna cercare forme di autorganizzazione per produrre una costruzione sul territorio, produrre sviluppo. Deve essere una banca che non guadagna; molte volte infatti accade che iniziative di solidarietà finiscano per nutrire se stesse: il mezzo fagocita il fine e poco finisce in realtà a coloro che sono i veri destinatari della solidarietà.

I detenuti di san Vittore hanno costruito un’arca, si chiama "l’arca della speranza", un manufatto di 15 metri costruito tutto con pezzetti di legno senza chiodi. Abbiamo proposto alla Città del Vaticano che questa arca, che non ha una cabina, ma una celletta, sia collocata in occasione del Giubileo in Piazza San Pietro e rappresenti la speranza di tutti gli uomini che hanno sbagliato e che hanno diritto di avere la possibilità di salvarsi.

Colmegna: Sarebbe interessante parlare dei carcerati, di coloro che rappresentano ormai un oggetto in qualche modo simbolico nel quale tutto il sistema indicativo di odio e di separazione sociale trova sfogo.

Nell’omologazione culturale che fa coincidere sicurezza sociale con allontanamento, occorre pensare alternative proprio in nome del risarcimento delle vittime, in nome della dignità della persona e della reazione culturale non violenta, pacifica, fraterna. Se nel Giubileo parlassimo di amnistia ci direbbero soltanto: "Questi sono quelli che vogliono la liberazione di tutti e non si pongono più il problema". Si tratta invece di un aspetto della sfida per la dignità di tutti gli uomini, per il recupero di una cultura di solidarietà e di fraternità. Il Cardinale Martini ha detto: "Per un vescovo quella del carcere e dei carcerati è un’esperienza fondamentale e doverosa perché risuona nell’oggi la parola di Gesù "ero in carcere e siete venuti a visitarmi". È il luogo dell’incontro, dello svelamento, non è il luogo semplicemente del pietismo. La condizione carceraria mi coinvolge profondamente nel travaglio, sia dei detenuti e dei loro parenti, sia degli addetti al servizio, delle autorità e dei legislatori, non poco dei quali si interrogano sempre più sulle contraddizioni e le sofferenze che la pena detentiva vorrebbe risolvere ma di fatto non risolve. È un problema estremamente complesso, dai risvolti drammatici".