giovedì 30 agosto, ore 11.00
FRANCESCO FAA DI BRUNO:UN PROFETA PER IL POST-MODERNO
Incontro con
Sua Em. Card. Pietro Palazzini
già Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi
Vittorio Messori
Giornalista e Scrittore
Mario Cecchetto
Dirigente bancario
Modera:
Ubaldo Casotto
U. Casotto:
Dicevamo nel comunicato iniziale di questo Meeting che le prove dell’autenticità cristiana, dell’autenticità della proposta cristiana, vanno ricercate nella storia essendo il cristianesimo un fatto. Vanno ricercate quindi nella testimonianza che ne rendono coloro che l’hanno incontrata e che l’hanno trovata vera. La persona che incontriamo oggi, Faà di Bruno, attraverso il racconto che ce ne faranno i tre oratori, è uno di questi. E’ un uomo vero. Un uomo che ha vissuto nell’Ottocento torinese, nel liberale e laico Ottocento torinese. E’ che ha saputo aderire a Dio come al destino della propria vita, come all’ideale che costruiva il suo cuore e di cui era costituito il suo destino. E ha saputo trasformare quest’adesione, questa sua fede in amore verso le persone che incontrava, in condivisione e in risposta verso i bisogni che queste persone manifestavano. Ce ne parlano oggi il Cardinale Palazzini, che è stato per lunghi anni Prefetto della Congregazione dei Santi, forse il primo studioso di Faà di Bruno, ed autore del più esauriente studio su questo santo; Vittorio Messori, giornalista, scrittore, che ha recentemente pubblicato un libro su Faà di Bruno; Mario Cecchetto, dirigente di banca, che ha coltivato e coltiva tuttora una vera passione per questo personaggio, assimilando l’insegnamento attraverso l'impegno nella Caritas Italiana. Cedo la parola ai tre relatori.
Sua Em. Card. P. Palazzini:
E’ uscito all’inizio di quest’estate il nuovo libro di Vittorio Messori. E’ il quinto, e ci auguriamo che abbia il successo degli altri da lui scritti, e che qualche confessore ne ordini anche questa volta la lettura per penitenza ai suoi peccatori. Il libro è pubblicato dalle Edizioni Paoline ed ha un titolo piuttosto provocatorio: "Un italiano serio", per sottotitolo: "E Beato Francesco Faà di Bruno". Perché questo libro? Perché questo titolo? Chi è Francesco Faà di Bruno che la Chiesa ha elevato all’onore degli altari il 25 settembre 1988? E’ un personaggio vissuto a Torino tra il 1825 e il 1888. Occasione per scrivere questo libro è stata offerta a Vittorio Messori da spunti personali. Si trovava a vivere la sua giovinezza nello stesso quartiere di Torino dove il Faà di Bruno aveva concentrato le sue opere: una specie di cittadella della donna. Un esperimento di avanguardia per affrontare e dare soluzioni alla problematica femminile che già veniva agitandosi nel tessuto sociale del tempo. Nel vecchio borgo San Donato di Torino, sorgeva anche la chiesa dedicata da Faà di Bruno a Nostra Signora del Suffragio in memoria dei caduti di tutte le guerre, e sorgeva l'altissimo agile campanile progettato dallo stesso beato. Per vario tempo il nostro autore, pur passando più volte al giorno accanto al campanile della chiesa per andare a scuola o al lavoro, non si curò di cosa vi fosse dietro. "Quando lo scopersi", narra egli stesso "ne rimasi affascinato al punto di cominciare a studiarlo. In effetti, approfondendo, mi resi conto che in lui c'era come una sintesi della santità cristiana". Il Faà di Bruno visse nel secolo scorso un suo cristianesimo radicale, senza sconti; come ufficiale di Stato Maggiore prima, poi professore universitario, scienziato di fama europea, architetto, musico, giornalista, benefattore, organizzatore sociale nonché fondatore da laico e da scapolo, di una congregazione religiosa femminile ancora oggi attiva e fiorente. Sotto un profilo biografico la non lunga vita di Francesco Faà di Bruno, morto ad appena 63 anni, può essere divisa in quattro fasi ben distinte. Fino a 21 anni, ricevette una formazione come quella dei nobili che intraprendevano la carriera militare nella prima metà dell’Ottocento. Dai 21 ai 24 anni, la vita della carriera militare e fu introdotto a corte. Dai 25 ai 51 anni, da laico, fu professore universitario, cristiano militante, fondatore di opere e della congregazione religiosa cui prima accennavo Dai 52 ai 63 anni, fu sacerdote e sempre più padre delle sue molteplici opere. Soprattutto nella piena maturità, dai 25 ai 51 anni, egli è un meraviglioso esempio di laico cristiano, di studio ed azione sociale degni in tutto di essere vissuti nel nostro tempo postconciliare. Negli ultimi 12 anni, lo sarà da prete. Se si studia bene la sua testimonianza cristiana, tenendo presente la sua estrazione sociale e il paradigma storico-esistenziale nel quale egli si è mosso, mi sembra di poter affermare in tutta verità che Francesco Faà di Bruno, il Cavaliere Professore Faà, come lo chiamavano, è stato un profeta del cristianesimo del nostro tempo. Rileggerlo, vuol dire scoprire le ragioni, oggi di bruciante attualità, della polemica cattolica contro un modo di fare storia del Risorgimento che con forza faceva bene o male l’Italia ma non gli italiani. Il Piemonte, tra il 1821 e il 1888, fu teatro di numerose vicende, con ripercussioni sull’intero territorio italiano che in quegli anni andò organizzandosi come nazione. Francesco visse intimamente quegli anni. Guardando alla famiglia dei Marchesi Faà di Bruno, in particolare a Francesco e ad Emilio, l’eroe di Lissa, si ha l’immagine della crisi di coscienza di una famiglia cattolica italiana nel periodo risorgimentale. Ciò è visibile specialmente in Francesco, meno in Emilio che pure è l’uomo che l’Italia ha onorato di più, con dedica di vie, di piazze, essendo stato il comandante che a Lissa non esitò di calarsi a picco con la corazzata che comandava, la Re d’Italia. Per Francesco quel tragico episodio fu sempre una spina nel suo cuore e fu tra le ragioni, assieme ai caduti della Prima Guerra di Indipendenza, che lo mossero a dedicare a Nostra Signora del Suffragio il tempio innalzato nel borgo San Donato a Torino. Per comprendere l'intensità del dramma basterà leggere le lettere che, da giovane ufficiale, Francesco Faà di Bruno scriveva alla sorella Maria Luisa durante la Prima Guerra di Indipendenza: vibrano di intenso amore di patria. Questo ardente amore di patria veniva però man mano a cozzare con una politica di ostilità alla Chiesa, al Papa, che metteva in serio imbarazzo la sua coscienza di cattolico. Quando la politica divenne sempre più deludente, egli, che pure aveva tentato di entrare in politica nelle elezioni del 1857, essendo sconfitto, ma non senza brogli elettorali, si spostò sempre più sul sociale dando vita ad una fioritura di opere dirette soprattutto all’assistenza e alla elevazione della donna: dalla donna della strada alla nobildonna, dalla domestica alla suora, dalla formazione delle educande alla formazione professionale delle allieve maestre. Contemporaneo di San Giovanni Bosco, egli fa parte di tutta quella schiera di santi che animarono la Torino risorgimentale: dal Cottolengo al Capasso, da San Leonardo Murialdo al venerabile Giuseppe Allamano, dalla marchesa Giulia Falletti di Barolo a Giovanna Francesca Michelotti, da Marco Antonio Durando all'Anglesio e a tanti altri. La eminente personalità di San Giovanni Bosco, l'espansione della sua opera nel mondo, ha messo un po' nell'ombra buona parte di questo gruppo di eletti. Per questo riscoprirli, metterli in luce, è un dovere. Le sfaccettature che la personalità di Francesco Faà di Bruno offre, sono poi tante che ben meritano di essere additate. Il suo esempio è luce allo scienziato che si pone il problema di fede e scienza, al militare che si pone al servizio del proprio paese, al professore cattedratico, all’editore, al pubblicista, al sociologo. Prima dei d’Azeglio, il Faà di Bruno sa che, quando sarà fatta l’Italia, bisognerà poi fare gli italiani. E non è la guerra che forma, non è la politica guasta che eleva, ma l’educazione etica, il sapere scientifico, la capacità tecnica di lavoro, conforme ai tempi moderni. "La Verità vi farà liberi", ripete Francesco, e aggiunge "la scienza vi farà ordinati". Per una vita così interessante, Vittorio Messori ha messo a servizio la sua penna, ne valeva la pena. C'è stata in passato una fioritura di biografie di vite di Santi, non lette e poco lette. Perché? Qualcuno ha detto e ha scritto: "perché sono noiose". E’ forse noiosa la santità? Non è questa ad essere noiosa, semmai sono noiose le biografie dei Santi che riproducono sempre uno stesso schema che vorrebbe l’eroe nato Santo fin dalle fasce. Occorre rompere questa narrativa, e collocare i Santi nella loro laboriosa fatica ascensionale quotidiana. Nelle difficoltà ambientali che hanno dovuto affrontare, nella loro fragilità umana che viene corretta e sorretta dalla Grazia di Dio. E’ quanto ha fatto Vittorio Messori con il Beato Francesco Faà di Bruno. L’augurio nostro è che egli trovi tanti imitatori affinché la letteratura agiografica possa trovare il suo giusto spazio nella produzione libraria che di giorno in giorno ci viene ammansita.
M. Cecchetto:
Si potrebbe cominciare con una serie di piccoli episodi. Arrivano a Torino nella seconda metà dell'Ottocento, dei pellegrini inglesi, protestanti. Vogliono vedere i Santi di Torino. Ne hanno sentito parlare perfino in Inghilterra. E si recano da Don Bosco. Don Bosco, un po’ scherzoso, dice: "Perché venite a vedere i Santi da me? Avete sbagliato, dovete andare alla Piccola Casa della Divina Provvidenza", fondata dal Cottolengo. Era già morto il Cottolengo, c'era il successore, il canonico Anglesio. E questi vanno da Anglesio. Anglesio cade dalle nuvole: "Qui i Santi non ci sono. Guardate che Don Bosco ha sbagliato, dovevate andare a borgo San Donato dove c'è un nobile laico che ha fondato una città per la donna povera. E’ un professore universitario, è stato ufficiale d’ordinanza del Re Vittorio Emanuele. Lì vedrete veramente un Santo in carne ed ossa. E potrete ammirare le sue opere". Questi inglesi cominciavano a pensare che li stavano pigliando in giro, vanno a borgo San Donato. Faà di Bruno li riceve. Cade dalle nuvole, dice: "Santo qui?"; non era abituato a scherzare, Faà di Bruno, solitamente un tipo molto serio, un italiano serio, dice Vittorio Messori. Però mangia la foglia e dice: "No, no, guardate, dovete tornare da Don Bosco". Questa è passata alla storia come "1a processione dei Santi". E però l’episodio rivela la fama, la notorietà di queste persone, di cui si parlava all’estero. Faà di Bruno era un personaggio capace, mentre era in cattedra a spiegare una formula di alta analisi matematica, di cadere in ginocchio senza timore alcuno perché aveva sentito il suono del campanello che annunciava il passaggio del Viatico portato a un morente. E’ chiaro come un episodio di questo genere nell’Università di Torino del secolo scorso, infarcita di anticlericali, di non credenti, di miscredenti, o di gente di poca fede facesse immediatamente il giro della città. Quest'uomo era noto a livello internazionale. Eppure, se noi guardiamo l’enciclopedia italiana che è di questo secolo, non c'è neppure il nome di Francesco Faà di Bruno, c'è il nome del fratello Emilio. C’è come una prevenzione nei confronti di questo personaggio. Quel che è peggio però, è che il suo nome io non l'ho trovato neppure nel Dizionario del Cattolicesimo Sociale, uscito qualche anno fa e pubblicato da un editore cattolico come Marietti, in cinque volumi. Allora non c'è solo una emarginazione da parte laica anticlericale e massonica, che è comprensibile. C'è stata una emarginazione anche da parte cattolica. Chi ha tirato le fila di quel dizionario, di quei cinque volumi, erano vari professori dell’Università di Torino, guarda caso la città di Faà di Bruno. E come si può spiegare questo? A questo punto poi, l’Enciclopedia Cattolica dedica un trafiletto esatto, ben fatto. La Biblioteca Sanctorum, una colonna, pure questa ben fatta, ed esatta. Biografie ce n’erano state, non hanno però avuto corso, non hanno saputo correre, in mezzo alla gente, in mezzo al popolo. Adesso arriva questo libro che si colloca esattamente nel momento opportuno per cominciare a fare un discorso di rivisitazione e di riscrittura della nostra storia risorgimentale. A partire dalla. santità. E mi pare che Vittorio Messori su questo insista moltissimo. Cioè noi, più che guardare a quella storia che c’è stata finora propinata, una storia che è governata dallo stillicidio delle guerre regie, dobbiamo guardare a ciò che i Santi hanno fatto. Non più quella storia che dalle elementari all’Università ci è stata data come la storia della lotta contro la Chiesa, contro il potere temporale, e simili altre cose. Ma una storia che diventa storia dal basso, la storia del popolo, la storia della Santità, della Carità ispirata dall'amore dello Spirito Santo che è Padre dei poveri. E questa è una storia tutta nuova da scrivere. Nell’indice dello stato delle cause di beatificazione ci sono i nomi di alcune migliaia di persone per le quali è stata avviata la causa di beatificazione. In questi giorni mi sono fatto uno spoglio sistematico dei personaggi che sono vissuti in Italia dalla fine del 1700 al 1950, ce n’è una miniera. Si tratta di un corpus di biografie praticamente già scritte e che dovremmo incominciare a raccogliere e studiare e vedere a livello locale, regionale e poi nazionale, di oltre 450 testi che vanno dalla Sicilia alla Calabria, alla Basilicata, alla Campania, al Lazio, alla Puglia, alle Marche, alla Toscana, al Veneto, all’Emilia, al Piemonte. Come possiamo ignorare questa miniera? Questa ricchezza straordinaria? Allora, ecco un'idea che si può proporre. A partire da qui, dall’incontro per la presentazione del libro di Messori, perché come questo libro ne siano fatti altri, perché cominciamo a rivedere in maniera sistematica, a mappare la storia d'Italia dalla vita dei Santi, dalle opere dei Santi. L’esperienza di incontrare Cristo non è soltanto quella privilegiata della liturgia, dell’Eucarestia e della riflessione sulla parola di Dio, ma è anche quella della partecipazione alla vita dei Santi. Vi posso parlare di esperienza personale, e credo che Vittorio stesso possa confermare, chi sta per mesi o per anni a indagare la vita di un Santo, che fa? Cerca di ricostruire un mosaico di cui si sono perse delle tessere. Ed è la gioia quotidiana di scoprire un pezzetto, angoli bellissimi, e ricostruisci un'immagine, ma poi quest'immagine ti sconvolge dentro, ti cambia, e non puoi essere più quello di prima. E allora ecco come è incontro con il Signore risorto la partecipazione della vita dei Santi attraverso la lettura o addirittura la riscrittura, la ricomprensione della loro vita, così come egregiamente ha fatto Vittorio Messori. La nostra storia finora è stata una storia manichea, tutto il bene da una parte, tutto il male dall'altra, ma soprattutto è stata una storia filistea. La verità conculcata dalla menzogna. Noi, senza fare una storia codina, dobbiamo riuscire a trovare un equilibrio per una nuova sintesi dove ristabilire la verità dei fatti come sono accaduti. Vi lancio alcuni messaggi, e mi ispiro in questo alla lettera di Don Lorenzo Milani scritta ai Cappellani Militari della Toscana. Dice: "Negli ultimi cent'anni della nostra storia, non c'è una guerra che sia stata giusta. Sono guerre di aggressione, guerre inique". Mi sono preso lo sfizio di controllare le cose a partire dalla Rivoluzione Francese, dallo scombussolamento che questa ha portato negli Stati italiani con la creazione della Repubblica Cisalpina, l’annientamento della Repubblica di Venezia, la creazione della Repubblica Romana, di quella Partenopea. Da allora in avanti noi troviamo, in centocinquant’anni di storia, più di quindici guerre, tutte di aggressione diretta o provocata. E la guerra, amici, vuol dire distruzione. Oggi noi siamo sotto l'incubo di una guerra che, preghiamo Dio, non scoppi. Lo Stato piemontese dedicava, questo dato non lo sapevo, grazie a Messori ora lo conosco, il 61% del proprio bilancio all'esercito, all'armamento; è un'autentica follia, una politica di potenza, una politica da guerrafondai, di profittatori. Lo chiederei a voi: ma quanti conoscevano Faà di Bruno prima dell'incontro odierno? Quanti conoscono Antonio Provolo, Carlo Stebbe, Gaspare Bertoni, Giacomo Cusmano, Giuseppe Moscati, Bartolo Longo? Ma questa è la nostra storia. Queste sono le nostre radici. Questi sono gli imitatori di Cristo. E se noi non andiamo a riscoprire
questi dati, questa storia, se non ci aggrappiamo alle nostre radici, come potrà il nostro futuro avere il cuore antico del messaggio di Cristo? E allora dobbiamo veramente rifondare tutta la nostra storia a partire da questo punto di vista.
V. Messori:
Ringrazio voi e ringrazio Sua Eminenza il Cardinale Palazzini, e l’amico e collega, dottor Cecchetto. Devo però onestamente dire che, se mi sono potuto permettere il lusso di riflettere su questa vita ingiustamente misconosciuta, me lo sono potuto concedere perché sua Eminenza Palazziní e Mario Cecchetto avevano sgobbato, sgobbato duro, negli archivi per fissare le coordinate di questa vita straordinaria, ma quasi sepolta. Palazzini e Cecchetto, che, assieme a pochi, pochissimi altri studiosi italiani, sono stati coloro i quali hanno fatto riemergere dalle catacombe le coordinate di questa vita davvero straordinaria. Ebbene, riflettendo, grazie a tali studi su questa vita e in periodo di caduta delle ideologie, in periodo davvero postmoderno come dice appunto il titolo di quest'incontro, mentre ad ogni pietra che si solleva ne saltano fuori in fondo insetti purulenti, avevo conferma di ciò di cui forse i cristiani e i cattolici in particolare non sono del tutto consapevoli. Che nei loro armadi, nei nostri armadi di noi cristiani, non ci sono scheletri dei quali vergognarsi. Noi non abbiamo bisogno di rivisitare, per pentircene, il nostro passato. Ma questo passato dobbiamo, forse è un dovere davvero, rivisitarlo, per trovare conferma al nostro impegno e per avere conferma che non c’è da rinnegare quelli che sono stati i nostri padri nella fede. Noi stiamo vivendo un passaggio del quale forse molti uomini di chiesa stessi non sono consapevoli, dal moderno al postmoderno. In fondo, se ci pensate, il dramma di questi anni in certi ambienti clericali è stato proprio l’avere scoperto con entusiasmo tardivo, anacronistico, di neofiti, la modernità mentre questa moriva. Forse il dramma di tanti cattolici chiusi fino allora rigorosamente nelle loro sacrestie, quando appunto qualcuno ha spalancato loro la porta, è stato quello di innamorarsi di un cadavere e di abbracciare quella modernità che il mondo, il mondo giovanneo, aveva creato, e che in realtà stava abbandonando. D’altro canto per chi pratichi un pochino la storia della Chiesa, si rende conto che c'è una sorta di ritardo per cui un certo mondo clericale è sempre in ritardo di un paio di rivoluzioni. Io mi ricordo all'inizio degli anni ‘70, quando il marxismo sembrava trionfante, di avere incontrato allora per la prima volta un uomo che mi onora della sua amicizia e al quale va tutta la mia stima, tutta la mia riconoscenza per avermi insegnato a ragionare soprattutto sul caso Gesù, e quest’uomo è Jean Guitton. Ebbene mi ricordo il paradosso, quello che allora sembrava il paradosso, di Jean Guitton il quale, in quegli anni in cui il marxismo sembrava trionfante, profetizzava: "Quando il marxismo sarà morto e i marxisti stessi si vergogneranno di essere stati tali, gli ultimi a difenderlo saranno i frati del terzo mondo". D’altro canto non occorre andare nel terzo mondo, perché forse anche tra di noi c'è qualcuno che, essendo appunto sempre clericalmente in ritardo di un paio di generazioni, ha scoperto adesso quest’ideologia che ormai puzza così di cadavere, e dalla quale appunto i marxisti veri stanno prendendo rigorosamente le distanze. Ebbene, io direi, perché Faà di Bruno? Perché tutti gli altri, alcuni nomi dei quali Cecchetto giustamente ci faceva, sono così importanti, perché vale la pena di frugare negli archivi e di tirarli in luce, di aprire questi nostri armadi nei quali, ripeto, non ci sono scheletri da nascondere, ma delle sorprese straordinarie da compiere? Perché vedete, questi cattolici intransigenti, questi cattolici integrali dell'Ottocento, dell'epoca del positivismo trionfante, dell'epoca del nazionalismo virulento, sembrarono e forse furono sconfitti dalla modernità. Però si rivelano ora davvero profeti del postmoderno. La caduta di quella modernità che sembrava avere rimosso e relegato per sempre in un anacronismo oramai impresentabile queste figure, fa sì che questi uomini siano davvero da riscoprire come esempio particolarmente attuale; ebbero torto forse per il loro oggi, ma ebbero ragione, e lo vediamo sempre più chiaramente, per il loro domani, che è poi il nostro presente. Ebbene, che cosa contrassegna questi Santi soprattutto come profeti del postmoderno? Essenzialmente, io credo, l'avere intuito che la giustizia senza la carità, non solo non basta, ma può rovesciarsi in un idolo dannoso. L’ideale per i Faà di Bruno non erano, come poi abbiamo visto, il risultato concreto, i poveri in fila di fronte a uno sportello statale. L’ideale di questa gente non era il pacco di opuscoli di propaganda e neppure l’additare un sol dell'avvenire che non è mai sorto. Era gente che non faceva promesse, agiva concretamente. Questi uomini diedero un aiuto concreto, fino al prezzo della loro vita stessa, a quei bisogni concreti della gente concreta che si trovarono dinanzi. Per i Faà di Bruno, come per tutti questi Santi sociali, il problema del bisogno non era un problema statistico, non era un problema sociologico, non era un problema ideologico o di schema di soluzione da elaborare a tavolino. Per i Faà di Bruno, il bisognoso era un uomo vivo, concreto, in carne ed ossa, un uomo con un nome e un cognome al quale dare una mano subito, non rinviandolo a un domani che avrebbe cantato e che in realtà non solo non ha cantato, ma che ha lanciato le urla terribili dei gulag e dei lager. Questa gente ai bisognosi non portava promesse, portava fatti concreti con quella carità che, ahimè, in ambiente ancora una volta clericale, in questi anni è stata demonizzata, tutti lo sappiamo. Il discorso paleo-marxista ha finito col diventare una sorta di vulgata anche in ambienti sedicenti credenti. Addirittura si era giunto a demonizzare queste figure, quasi a vergognarsene, e non è casuale ciò che Cecchetto e anche Sua Eminenza Palazzini denunciavano, non è casuale l'assenza di questi nomi, l’assenza di un gigante della carità come davvero fu il beato Francesco Faà di Bruno anche in pubblicazioni cattoliche fatte negli anni della vulgata e della follia. Non è casuale perché in fondo quasi ci si vergognava di queste persone, ci si vergognava del nome bellissimo, straordinario di carità. Si diceva, magari salvandone le buone intenzioni, che questi uomini in fondo, tutto sommato erano stati oggettivamente dannosi, perché, non vivendo ancora un cristianesimo adulto e postconciliare, cercavano di lenire gli effetti senza risalire alle cause. Per cui non più carità, nome da demonizzare, da dimenticare, non più aiuto concreto, ma battersi a monte, come si diceva secondo appunto la vulgata. Quindi non dare - ad esempio - una mano alla povera serva quattordicenne incinta e cacciata di casa dal padrone che l'aveva resa incinta, così come capitava quotidianamente. Faà di Bruno, tra l'altro con quel suo stile signorile e aristocratico di carità, è tra quelle persone di più antica nobiltà del Piemonte, si dice addirittura che la sua nobiltà fosse più antica addirittura di quella dei Savoia, e ciò che contrassegna la carità di quest'uomo, e direi uno dei suoi carismi, è il tono davvero signorile, aristocratico, sommesso, ma nello stesso tempo estremamente efficace, col quale agiva concretamente a favore dei bisognosi. Ebbene Faà di Bruno, di fronte al dramma della servetta cacciata di casa dal borghese liberale, lui, così sommesso, ha parole terribili contro questi borghesi liberali e massoni che chiama i nuovi barbari. Ebbene Faà di Bruno non rimandava a casa o, se volete, agli argini del Po dove molto spesso appunto queste povere donne si buttavano, non rimandava con opuscoli di propaganda, che rinviavano ad un futuro felice, dove non ci sarebbero più stati né padroni né servi, né sfruttatori né sfruttati, ma tutti quanti sarebbero vissuti nell'eden. Faà di Bruno si rimboccava le maniche, in questa sua attenzione concreta al bisogno concreto, espresso da un uomo concreto, con un nome ed un cognome. L’ideologo è colui, come sapete, che ama l’umanità, ma odia l’uomo singolo, l’uomo concreto, e nessuno è più spietato contro la persona singola, quella che incontra concretamente, di colui che fa panegirici sull'amore per l'umanità. Ebbene, questa gente in quel volto e in quel nome concreto, vedeva il volto ed il nome del Cristo; mostrò, tra l'altro, come la fede fosse creatrice di opere immediate per i bisogni immediati. Questa gente, a cominciare da Faà di Bruno, non tenne davvero nulla per sé, davvero buttò, praticò quella che è stata chiamata l’economia del dono, a cominciare non solo dalle proprie sostanze familiari, che erano notevoli, essendo lui figlio di una delle famiglie più ricche del latifondo piemontese, ma a livello di vita, e a livello anche, se volete, di dignità. Certamente i suoi parenti non furono molto fieri che il rampollo dei Marchesi Faà di Bruno buttasse tutto al servizio del bisogno concreto, ma questo risulta straordinariamente stimolatore di fantasia; anche per questo in fondo la storia della santità, come ci ricordava il Cardinal Palazzini, è così poco noiosa, proprio perché la fede, agendo su questi uomini, i quali l'accoglievano fino in fondo non riservandosi nulla per loro, li trasformava in fantasisti, in uomini di straordinarie invenzioni. Una delle frasi che il beato più spesso pronunciava e scriveva: io passo tutto il giorno a pensare come da un quattrino se ne possano tirar fuori due. Il problema di quest’uomo era il problema di Don Bosco, nelle mani di don Bosco, di Faà di Bruno, del Cottolengo e del canonico Anglesio che gli successe, passarono decine di miliardi dell’epoca. Don Bosco morì, come sapete, con le scarpe rotte, e con un'unica tonaca per l'estate e per l’inverno, tutta rattoppata, però voi sapete che soltanto Dio sa quanti miliardi siano passati per le mani di Don Bosco. Così anche attraverso le mani di Faà di Bruno non passarono soltanto i soldi del suo patrimonio personale, che buttò in questo suo progetto incredibile e scandaloso per l'epoca, per certo mondo clericale dell'epoca: lo scandalo della città delle donne. Questo laico era non soltanto scapolo, ma anche, come dicono tutte le testimonianze, bell'uomo, dall’aspetto marziale, e il suo, grazie a Dio, fu un cristianesimo con gli ormoni, con gli attributi anche virili giusti. Il mio amico Umberto Eco, ha avuto un po’ un itinerario contrario al mio. Io sono entrato all’università di Torino come lui, lontanissimo da preoccupazioni religiose, anzi con un fiero disprezzo per tutto quanto fosse tematica religiosa, e ne sono uscito, sorprendentemente per me stesso, proiettato verso una dimensione che non volevo prendere in considerazione; Umberto Eco, invece entrò, seppure dieci anni prima, all'università di Torino come buon cattolico praticante, molto convinto, e ne uscì diventando poi l’Umberto Eco che tutti conosciamo. Ebbene una volta, parlando, chiedevo ad Eco quali erano i motivi che l’avevano indotto al distacco dal cattolicesimo, per quale motivo era passato da un'accettazione così radicale, così totale, di questo cattolicesimo della sua infanzia, alle posizioni che conosciamo, ebbene mi disse appunto: "ma vedi, ciò che mi ha sempre tutto sommato, come dire, poco convinto, mi ha reso allergico a un certo cattolicesimo, è il fatto che in quegli ambienti si manifesta così spesso una spaventosa carenza di ormoni". Questa mancanza di vita, questo cristianesimo sdolcinato, qualcosa. per donne, vecchi, bambini, così via, non è il cattolicesimo, grazie a Dio, di Faà di Bruno. (Faà di Bruno è colui che a Novara, alla battaglia di Novara, pur essendo ufficiale di Stato Maggiore, e quindi potendo benissimo imboscarsi nelle retrovie, combatte talmente in prima linea che si racconta che alla fine dell'infausta giornata cavalcasse il secondo cavallo perché il primo gli era caduto sotto la fucileria austriaca. E, straordinario ancor di più, si racconta quindi che fosse in groppa al terzo cavallo (evidentemente in altre due cariche precedenti i suoi cavalli erano caduti sotto la fucileria). D’altro canto Faà di Bruno non fu mai un militare pentito, questo sia chiaro, anche questo forse è un tema che dovremmo prendere in considerazione, avendo dimenticato molto spesso che il cristiano è, per vocazione, un pacifico radicale, ma c’è molta differenza tra l’essere pacifico e l’essere pacifista secondo una certa accezione che oggi gira anche nel mondo cattolico. La sua fu la pacificità di un militare non pentito, di un ufficiale valoroso; il suo essere radicalmente pacifico fu dedicare interamente la propria vita, il proprio patrimonio, il proprio tempo, tutto quanto per opere di pace autentica come è appunto la promozione dei più disgraziati. Faà di Bruno sapeva bene che c’è una endiadi, c’è un’unione che non può essere rotta, "iustitia et pax", e sapeva bene che la pace è figlia della giustizia. E sapeva anche che ci sono guerre giuste e guerre ingiuste e quindi il suo essere pacifico radicalmente non era un pacifismo molle, eunucoide, privo di ormoni; quest'uomo era un uomo vigoroso, era un uomo che può aiutarci a riscoprire un cristianesimo tosto, come direbbero i romani. Ebbene, quest'uomo bello, come lo dicono tutte le testimonianze, vigoroso, virile, affrontò tutto, anche il sussurrare e lo scuotere del capo di certo fariseísmo cattolico oltre che lo scandalo del filisteismo borghese massonico, di fronte al fatto di vivere in mezzo a diecimila donne, lui, solo maschio all’interno di questa città delle donne, e ci visse fino al punto di fondare, lui laico, una congregazione religiosa femminile. Questo fatto ci mostra come in realtà la pruderie, la bigotteria, il moralismo, siano un portato laicista assai più che cattolico; infatti, a parte forse qualche scuotere di capo e mugugno del mondo cattolico, nessuno nella gerarchia, e neppure il Vescovo - il famoso Monsignor Castaldi con il quale il Faà di Bruno, come tutti gli uomini di Dio di quell'epoca, ebbe dissapori - intervenne per fare cessare questo scandalo. Mentre l'intervento più farisaico, l’intervento davvero di pruderie complessata, non venne dalla gerarchia cattolica, ma venne piuttosto dalla borghesia liberale, da quelle logge che gli impedirono tra l’altro, come è stato annunciato, non solo la carriera militare, ma anche quell’accademica. In fondo, se ci pensate, qual è uno dei drammi del cattolicesimo d’oggi, della Chiesa d’oggi? Il fatto di avere rescisso le proprie radici, è il fatto che non sappiamo più chi fossero i nostri padri o, se lo sappiamo, sarebbe meglio che non lo sapessimo perché tendiamo a vergognarcene. Di queste nostre radici abbiamo un essenziale bisogno e non abbiamo nulla, ripeto, nulla da rinnegare. Riscoprire quindi questi signori significa appunto avere gradevolissime sorprese, e significa ritrovare linfa che permetta all’albero cristiano di continuare anche oggi a fiorire. Sono circolate strane cose in questi anni, addirittura quasi come il Concilio Vaticano II non fosse il 210° Concilio Ecumenico della storia della Chiesa Cattolica. Non siamo nati col Concilio Vaticano II, le nostre radici non affondano soltanto in quella prima metà degli anni 60. Il Vaticano II ha detto cose straordinarie che, anche se manipolate e se trascinate, tirate per la giacca dalla loro parte da una certa teologia sospetta, sono straordinari documenti nella piena continuità dell’ortodossia. In ogni caso noi non siamo nati con quei documenti, pur benemeriti e pur preziosi e pur per noi indispensabili. Faà di Bruno è un uomo del Vaticano I; però, il fatto che sia uomo del Vaticano I e che per ragioni cronologiche e anagrafiche non abbia conosciuto il Vaticano II, non ci autorizza minimamente a rimuovere la testimonianza sua, di lui e di tutti gli altri che lo hanno preceduto. Abbiamo bisogno, cioè, di tale linfa perché la riscoperta di queste radici ci aiuta appunto a capire che noi, se ci diciamo cristiani, siamo parte della più antica storia del mondo, facciamo parte di questa catena straordinaria che da Abramo ci ha condotto fino ad oggi, agosto del 1990, a Rimini. Faà di Bruno è uno di questi anelli, ed è un anello importante proprio perché oggi, ripeto, ci può dare indicazioni per vivere il cristianesimo nella fine della modernità ed inizio del postmoderno. Questa gente scoprì che la giustizia non basta, anzi è un idolo che vuole sacrifici umani, è un idolo di fronte al quale bisogna sgozzare, come è materialmente avvenuto, cataste di cadaveri. La giustizia non basta se sganciata dall’amore, e se sganciata da questa carità che inizia verso se stessi. Questa gente capiva oltretutto quello che non abbiamo capito, travolti anche noi molto spesso dalla vulgata: che cos’è il rivoluzionario, che cosa è stato appunto il contestatore di questi anni? Rivoluzionario, contestatore è uno che vuole rivoluzionare tutto e contestare tutti, ma non rivoluzionando e non contestando se stesso. In fondo il riformista radicale è colui il quale punta il dito sugli altri dimenticando che non c’è possibilità di accusare gli altri se prima questo dito non l’abbiamo puntato contro di noi. E questa gente, non per umiltà, ma per consapevolezza di quale radicale serietà esigeva il Vangelo, si considerava quanto più santa, tanto più peccatrice e cominciava a contestare e a tentare di riformare se stessa. A questo proposito occorre ricordare Del Noce soprattutto in alcune parti un po’ dimenticate ma, grazie a Dio e grazie anche al vostro movimento, Del Noce e il suo pensiero non è rimasto appannato; Del Noce ci ricordava, e me lo ricordava anche nell’ultimo incontro che avemmo in Piemonte in casa sua, questo marchio del satanico che affligge le ideologie moderne che subiscono quella che Vico chiamava l’eterogenesi dei fini, per cui sempre e costantemente, le migliori intenzioni si rovesciano nel loro contrario. Al di fuori della visione di carità, al di fuori della visione cristiana, - e questo è un dato oggettivo della storia, non è una sorta di delirio apologetico - l’aiuto al bisognoso si trasforma sempre e comunque, malgrado le buone intenzioni, malgrado gli sforzi, la buon volontà, si rovescia nel suo contrario. E’ questo appunto, l’abbiamo constatato, il marxismo che oggi muore, rifiutato proprio dai popoli, che di quest'ideologia è l'esempio più clamoroso; ma, se volete, tutte, la foresta, la giungla delle ideologie post-settecentesche, sta lì a dimostrare che c’è questo marchio di infecondità, anzi di maledizione che grava appunto su una giustizia praticata senza la prospettiva del Soprannaturale, senza la prospettiva della carità. Come voi sapete, Faà di Bruno fu anche e soprattutto un grandissimo scienziato, seppur osteggiato; uno scienziato che non ottenne mai la cattedra, nonostante i meriti internazionali, proprio per il suo cattolicesimo rigoroso. Ebbene, su questo rapporto scienza e fede, oggi ancora così attuale, Faà di Bruno ha delle cose straordinarie, modernissime da dirci. Non solo, ma ha da mostrarci anche quanto sia in fondo ingiusta la prospettiva di un cattolicesimo ottocentesco nemico del progresso. Pensate che quest’uomo quando morì, scoprirono che all’interno del suo breviario non aveva soltanto le solite, grazie a Dio, immaginette devozionali, ma anche ritagli di articoli di giornali che riguardavano le nuove vie ferrate in Italia. Quest’uomo, il quale metteva assieme l’interesse devozionale per i suoi santi, era tra l'altro uno straordinario collezionista di reliquie. Oggi è molto importante riscoprire la reliquia perché è la devozione anti-gnostica per eccellenza. Il pericolo che minaccia il cristianesimo, lo sapete meglio di me, non è il materialismo, è lo spiritualismo. Mi è capitato di recente di scrivere quello che ho voluto chiamare un elogio della carne. Noi abbiamo bisogno di riscoprire la materialità dell’Incarnazione, la carne e il sangue di Cristo. Non abbiamo bisogno di spiritualismo, non abbiamo bisogno di discorsi che ci edifichino spiritualmente, abbiamo bisogno di toccare concretamente la carne, abbiamo bisogno di riscoprire appunto l’utero di Maria, è la devozione anti-gnostica per eccellenza, appunto, è la devozione mariana. Non a caso Maria è nemica di tutte le eresie proprio perché se al centro della nostra fede c’è l’utero di una donna, noi siamo al riparo, grazie a Dio, dall’evirazione spiritualistica del cristianesimo. Ebbene Faà di Bruno da buon cattolico vero, e quindi antagonistico, era uno straordinario collezionista di reliquie, devozione che può fare non solo sorridere, ma anche quasi orrore, alla nostra mentalità di schizzinosi figli della cultura liberale, della cultura che ha orrore della materia, e curava che le sue suore ogni mattino esponessero con fiori, lumi, ecc. la reliquia del Santo del giorno. E dopo avere fatto questa che a noi sembra una devozione quasi intollerabile, a noi appunto signorini schizzinosi, andava all’Università dove trattava questioni di matematica sublime, di alta analisi. Ma poi con questo non voglio tediarvi, chiudo. C’è un capitolo, l’ultimo del mio libro, e siccome è l'ultimo qualcuno rischia di non arrivarci, perché si stanca prima, mentre credo che sia una delle chiavi del messaggio che Faà di Bruno oggi ci ha da darci, il capitolo sul Risorgimento. Vi voglio citare soltanto un dato per giustizia verso questi fratelli che ci hanno preceduto nella fede, e che una certa manualistica scolastica, e non solo quella, ha demonizzato. Non dobbiamo dimenticare che cosa è stato questo cosiddetto Risorgimento. Guardate che è davvero una calunnia il fatto che questa gente, questi cattolici risorgimentali, non volessero l’unità italiana. Non volevano una unità italiana fatta contro la nostra storia, contro il nostro temperamento, contro tutto ciò che poteva costituire la nostra ricchezza, e prevedevano, anche in questo postmoderni, che non poteva durare all’infinito una unità fatta a quel modo, con quella violenza, con quella arroganza, con quella lotta alla sola realtà che poteva costituire il collante di quel coacervo di popoli e culture che era l’Italia di quei tempi. Questo, se ci pensate, non fu solo il dramma, ma il crimine del Risorgimento, quello di lottare contro la sola cosa che in fondo univa gli italiani. Dalle Alpi all’Ilibeo, cosa univa gli italiani? La cucina? La cultura? La lingua? Le istituzioni? No. Nulla ci univa se non il solo legame dato da una fede che non a caso si chiama "cattolica", cioè universale. Eppure fu proprio questo il legame che le logge, che le minoranze che ci imposero quel tipo di unità, cercarono di distruggere, e da qui anche la protesta di questi nostri fratelli che hanno diritto oggi alla giustizia. Permettetemi una sola cifra tratta dalla relazione ufficiale dello stesso generale Enrico Cialdini, che comandava la repressione al cosiddetto brigantaggio. Nelle Due Sicilie, come sapete, fu demonizzato con il nome di lotta al brigantaggio quella che fu una vera guerra contro una insurrezione nazionale come era quella dei popoli liberata da Garibaldi. Ebbene, voi sapete che, è un dato inquietante, ma purtroppo innegabile, che l’unità d’Italia non fu fatta sulla lotta allo straniero, ma fu fatta sulla lotta all’Italiano. La nostra fu guerra civile. Ebbene, nei soli primi mesi della repressione di questo movimento di liberazione che era l’insurrezione delle plebi meridionali, e solo nel napoletano, escludendo la Sicilia, le cifre erano queste: 8.968 fucilati, fra i quali 64 preti e 22 frati; 10.604 feriti; 7.112 prigionieri; 918 case bruciate; sei paesi interamente arsi, 2.905 famiglie perquisite; 12 chiese saccheggiate e incendiate; 13.629 imprigionati; 1428 comuni posti in stato d’assedio. (Notate che nel Sud erano schierati 120 mila uomini, cioè più della metà dell’esercito italiano non era schierato, come vorrebbe la retorica patriottarda, alle frontiere contro l’Austria, era schierato in realtà per schiacciare la rivolta degli stessi italiani, liberati loro malgrado). Questo era il quadro della liberazione del Sud, liberazione post-garibaldina, piemontese. Questa era la cosiddetta unità. Giustamente mi sta dicendo Cecchetto che forse questi padri della patria, i cui sospetti monumenti in bronzo ingombrano le nostre piazze, più che i monumenti, meritavano Norimberga. Forse Norimberga era la città giusta appunto per queste persone. Ma questo, guardate, non lo si dice per rinvangare chissà quale passato, questo passato in realtà è il nostro presente. Perché oggi si registra il fenomeno, pure inquietante, delle leghe, che contrassegna se volete la nostra post-modernità, con la fine della modernità, appunto, e quindi con la fine della mitologia unitaria, nazionalista. Inizia il fenomeno delle leghe, fenomeno inquietante che però ha le sue ragioni. Quelle ragioni che i cattolici dell’ottocento, a cominciare da Faà di Bruno che, ripeto, per questa unità aveva dato il sangue, aveva rischiato di dare la vita, avevano ben visto. In questo senso ebbero torto per il loro domani, ma ebbero ragione per il loro dopodomani che è poi il nostro oggi. E per questo noi oggi dobbiamo riscoprirli se vogliamo capire qualche cosa del presente, del nostro passato, dobbiamo riscoprire quale fu l’Italia verso la quale si misero in un atteggiamento non di avversione come stato detto, ma in un quanto meno problematico. In questo senso queste persone davvero rappresentavano l’Italia reale, (e non nel senso di regia ovviamente), l’Italia concreta contro l’Italia legale. Nel 1861, alle prime elezioni unitarie mancava ancora all’Italia, come sapete, il Lazio, che fu rapinato con la poco gloriosa breccia di Porta Pia. Si tentò in tutti i modi di provocare l’insurrezione dei romani contro il Papa, ma non ce la fecero proprio, e si dovette mettere in azione il cannone. Erano così oppressi, i poveri romani dal Papa, che fino all’ultimo non alzarono un dito malgrado i Savoia mandassero fior di milioni dell'epoca per provocare questa insurrezione romana contro il Papa, che non ci fu. In ogni caso, nel 1861, l’Italia era più o meno quella di oggi con l’eccezione del Lazio, appunto 1870, con l’eccezione del Veneto, 1866, con la vergognosa cosiddetta Terza Guerra di Indipendenza, e senza appunto ciò che ci giunse poi dopo con la cosiddetta vittoria mutilata, dopo l’inutile strage del 1918. Ebbene, nel 1861, alle elezioni per il primo parlamento cosiddetto unitario, la popolazione italiana contava 22 milioni di persone. Si trattava di eleggere 443 deputati. Ebbene, su questi 22 milioni di abitanti italiani, solo 419 mila avevano diritto al voto. Di questi 419 mila, in quel 1861, ne andarono alle urne 242 mila in tutto. Di questi 242 mila, molti espressero la loro protesta, e quindi il loro voto fu nullo; quindi, i voti validi alla fine furono 170.567. Ma di questi 170.567 votanti, 70mila erano di impiegati statali, cui il capo divisione, il capo ufficio, e non è una battuta, il giorno prima delle elezioni consegnò la scheda già votata. Italia contro cui protestavano i Faà di Bruno, i patrioti veri, gli italiani seri, quelli che davvero tentavano di fare l’Italia, tentavano di fare gli italiani, era l’Italia della quale parlava anche un altro dei guru, cattolico-liberale, tra l’altro, quindi particolarmente inquietante e da prendere con le molle, Massimo d’Azeglio. Massimo d’Azeglio disse una volta ai suoi intimi, - e grazie a Dio, grazie a una soffiata la sua frase ci è rimasta - vedendo qual era il numero di votanti: "queste Camere rappresentano l’Italia così come io rappresento il Gran Sultano Turco". Bene, di questi 443 deputati eletti da quelle meno che 100mila persone, 57 di loro entrarono nel Parlamento italiano grazie a meno di 200 voti; solo due deputati del cosiddetto popolo italiano, su 443, ebbero il suffragio di più di mille votanti. Pensate che lo stesso Cavour, che in quel 1861 celebrava il suo trionfo politico, celebrava addirittura al di là delle sue speranze e delle sue previsioni, presentandosi nel collegio della sua Torino, fu eletto con 620 preferenze. Domanda del pubblico: Chi erano i massoni? I massoni penso che fossero i 100 mila che votavano Ciò che abbiamo dimenticato, è che in realtà la reazione non stava dalla parte dei cattolici, ma stava davvero dalla parte dei liberali di allora. Pensate che il suffragio universale fu chiesto poi dai socialisti. Intendiamoci, la fondazione del Partito Socialista Italiano, come sapete, è del 1892. Faà di Bruno e Don Bosco morirono nell’88 e non avevano aspettato certamente il 1892 per fare davvero attività sociale. Quindi se vogliamo metterla su un piano, come dire, anche di priorità cronologica, il vero porsi di fronte alla questione sociale con almeno mezzo secolo di precedenza, è di parte cattolica, non certamente di parte laica. In ogni caso, quello che si è spesso dimenticato, è che il suffragio universale, che a noi sembra una sorta di richiesta eversiva delle forze del progresso, era in realtà chiesto da tutti quei cosiddetti cattolici reazionari. Reazionari poi secondo la polemica interessata, perché in realtà, loro sapevano che se ci si fosse contati, se si fosse andati alle urne, i 100 mila appunto delle logge o nutriti dalle logge, i quali eleggevano uno pseudo-parlamento, sarebbero stati giustamente rimandati alle loro occupazioni di provincia. Faà di Bruno chiese il suffragio universale, come lo chiese Don Bosco, come lo chiesero i cattolici del tempo. E non a caso si vide quanto questa loro polemica contro un Paese legale che non rappresentava un Paese reale, avesse ragione perché, voi sapete, in questo Paese, questa vecchia richiesta dei cattolici di suffragio universale, si realizzò per la prima volta il 18 aprile del 1948 quando si tennero le prime elezioni italiane allargate a tutti i cittadini, donne comprese. Come andarono quelle elezioni? Fu la vittoria schiacciante di quel Paese reale del quale già un secolo prima i Faà di Bruno, i Don Bosco, tutti questi nostri fratelli nella fede che ci hanno preceduto, parlavano; vale davvero la pena di riscoprirli. Grazie.
U. Casotto:
Io ringrazio i tre relatori. Ringrazio voi che avete partecipato. Volevo solo ricordare in conclusione una frase di Sua Eminenza: "La Santità non è mai noiosa" e la Santità non è un ideale per pochi, vale la pena ricordare, ma è la stoffa della vita cristiana. Auguro a tutti voi che nessuno mai incontrandoci negli ambienti dove viviamo, si annoi. Grazie.