Domenica 24 agosto, ore 17
MERAVIGLIA DEI FATTI SCETTICISMO DELL'INFORMAZIONE
Partecipano:
Enzo Biagi,
giornalista e scrittore.
Giampaolo Pansa,
giornalista e scrittore.
Conduce l'incontro:
Robi Ronza.
La stampa, prototipo della comunicazione di massa, è nata nell'età moderna sulla base di una grande idea ottimistica: l'informazione completa ed aggiornata, fino ad allora monopolio dei potenti, delle corti, dei cancellierati, doveva diventare accessibile a tutti. Questo avrebbe consentito il formarsi dell'opinione pubblica, intesa e sperata come un grande motore positivo di ogni spinta di liberazione e progresso. Oggi, proprio quando la comunicazione di massa è al culmine del proprio sviluppo tecnico, della propria diffusione quantitativa, tra chi la produce come tra chi la consuma, sembra predominare un grande scetticismo, una sfiducia che investe la possibilità di conoscere l’oggettività dei fatti. Venuto meno lo stupore nei confronti della realtà, la capacità di attendere il nuovo e di riconoscere la possibilità del cambiamento, spesso si cede alla tentazione di trasformare l'informazione in spettacolo. Protagonisti della tavola rotonda, due grandi firme dei giornalismo italiano, Enzo Biagi e Giampaolo Pansa, due personaggi che, in più occasioni, con linguaggio rigoroso e attento, hanno dimostrato di saper dare ragione delle proprie scelte professionali ed etiche: a loro il Meeting chiede di raccontare se e a quel prezzo sia possibile una meraviglia di fronte ai fatti del reale che sconfigga quell'atteggiamento scettico che spesso veicola l'ideologia e maschera la volontà di potenza.
R. Ronza:
A che cosa serve comunicare alla gente delle notizie?
E. Biagi:
Credo che da quando l'uomo esiste, si sia rivolto e gli abbiano rivolto sempre delle domande. Se non sbaglio, già nella Bibbia si parla di Dio, che rivolgendosi a Caino gli dice, più o meno: hai notizie di tuo fratello Abele? Per me è la più bella domanda provocatoria che sia mai stata fatta, fino ad oggi insuperata. La gente ha sempre voluto sapere qualcosa degli altri. Una volta c'erano i menestrelli, i trovatori, che andavano da un castello all'altro a raccontare delle storie. Io credo che qualche volta, oltre a fare il numero per il principe, ne facessero qualcuno anche nei cortili per i bottegai, per gli artigiani, per la gente che stava lì. E raccontavano delle avventure, immaginate o vissute. Il bisogno di sapere è congenito all'uomo.
G. Pansa:
Io credo che comunicare notizie, dare informazioni, dovrebbe servire a rendere gli uomini più liberi. Perché la libertà è fatta di tante cose anche di sapere quel che ti succede attorno, vicino e, oggi, anche molto lontano. Non per nulla sotto i regimi autoritari, tra le prime libertà che vengono soppresse, c'è quella di informare. Per cui io credo che il giornalista dovrebbe sempre ispirarsi a questa stella polare, essere consapevole che il suo lavoro deve aiutare il prossimo a essere più libero, cioè a sapere più di sé e degli altri, a essere più consapevole delle cose che può fare, dei suoi doveri, ma soprattutto dei suoi diritti, a sapere quando il potente cerca di fregarti, a sapere quando o se l'organizzazione sociale nella quale tu vivi, è finalizzata al rispetto per l'uomo oppure se il suo fine è il contrario. Però io temo che oggi il giornalista italiano sia assai poco consapevole della destinazione del suo mestiere. E di qui nascono due fenomeni paralleli: da una parte la sfiducia della gente, del lettore, degli uomini in generale, nei confronti del prodotto dell'informazione; una sfiducia che io in Italia sento crescere di anno in anno sempre più forte; e dall'altra parte la crescita di un fenomeno speculare, la incapacità dei giornalista a stupirsi, a meravigliarsi. Il giornalista italiano, salvo naturalmente le dovute eccezioni, è un animale al quale ormai importa assai poco di quello che fa, o che potrebbe fare. C'è quindi questa sfiducia della gente, ma anche questa sfiducia, terribile, nostra, in questo mestiere. Questi due fenomeni interagiscono uno sull'altro e creano una sinergia negativa, per cui il risultato è quella informazione che ieri è stata dipinta da Formigoni in maniera abbastanza pessimistica; nella sostanza io concordo col suo giudizio.
R. Ronza:
Pansa, pur di informare, vale la pena stringere la mano a chiunque?
G . Pansa:
E’ una domanda subdola, che mi fa riaprire la polemica con Enzo. Io dico di no. Io non credo. Un anno fa un giovanotto del "Sabato" mi ha telefonato, e mi ha chiesto qualche cosa a proposito di uno scoop che aveva portato un collega in carcere. Io ho detto la mia opinione, con una battuta che poi ho ritrovato nel titolo di questa intervista, di questo collage di opinioni: "La notizia non è il nostro Dio". Beh, la notizia per certi aspetti è il mio Dio, ma è un Dio al quale non mi sento di sacrificare tutto. Soprattutto quando la stretta di mano non è poi essenziale a ricavare delle informazioni.
E. Biagi:
Mah, è stato detto "visitare i carcerati": ma non mi risulta che sia stato detto "e non dargli la mano quando si va via". Questo forse è un limite della mia informazione. Io ringrazio chiunque mi conceda la sua confidenza, chiunque mi riceva, chiunque mi parli. Non ho detto a Sindona: se lei mi riceve, poi io le do la mano. Sindona si aspettava ben altri riconoscimenti o ben altri favori. Ma vorrei andare al di là di questa polemica. Può darsi che io sia afflitto da una specie di qualunquismo morale, per cui per me un uomo che è già condannato all'ergastolo è un uomo al quale gli uomini hanno già detto la loro opinione. E io non sono il suo ultimo giudice. Se penso poi alla fine che ha fatto quell'uomo, che si è ucciso o è stato ucciso, pochi giorni dopo, allora sono contento di avere fatto nei suoi confronti un gesto umano che non voleva proprio significare che mi associavo alle sue imprese a proposito delle banche e degli affari che lui ha combinato.
R. Ronza:
Dopo tanti anni di esperienza professionale, che cosa provoca il vostro stupore?
E. Biagi:
Farà parte ancora della mia ingenuità. Ogni mattina mi sembra un dono meraviglioso. Tutto mi meraviglia. Quando mi alzo, penso "che cosa ci sarà nel romanzo della nostra vita oggi, che capitolo scriveremo?" Ci sono degli aspetti che mi deludono, in relazione a quella che è stata la mia vita di vecchio cronista, ci sono delle speranze che non si sono realizzate. Io non ho neanche un'idea così disastrosa della mia categoria, che per tanti aspetti non amo. So che tutti i giornali hanno un padrone, tutti, che non esiste un giornale che non sia in qualche modo un partito. (…) Fare del giornalismo è fare una scelta, significa avere un punto di vista. I grandi cronisti per me sono Balzac, Dostoevskij, che hanno raccontato il loro mondo, la loro società, che avevano un metro per giudicare. Può essere un metro giusto oppure sbagliato. Sento sempre dire: ci sono dei giornalisti corrotti, ci sono dei giornalisti comprati. Raccontavo oggi a degli amici che io faccio fatica a crederci, perché a me non ha mai offerto niente nessuno; probabilmente han pensato che ero un cretino, che non ne valeva la pena. Insomma, il rapporto fra il giornalista e il suo editore è questo: l'editore chiede certe cose, il giornalista può dargliele o no. C'è sempre un modo di salvarsi. Io credo che non sempre un giornalista possa dire tutto.
Ma il più grande peccato che può compiere è quando dice quello che non pensa.
G. Pansa:
Se devo rispondere alla prima domanda, credo che la cosa che mi stupisce ancora più di tutto è vedere compiere un gesto di umanità. Vedere di fronte a me un personaggio, che magari non comparirà mai né sulla prima né sulla ventiseiesima pagina di giornale, che compie un gesto positivo, un gesto di lealtà, di generosità, di correttezza, di stima del suo prossimo, di solidarietà. Dopo venticinque, ventisei anni di giornalismo, quello che mi stupisce ancora è questo. Purtroppo, come ha scritto una volta Aldo Moro "la bontà non fa notizia". Quindi noi andiamo alla ricerca dello strano-ma-vero, e questo tipo di stupore non compare più sulle pagine dei giornali. Ma non compare più non soltanto perché i giornalisti sono spesso cattivi giornalisti; e rispondo alla seconda parte della domanda, suggerita dalla risposta di Enzo Biagi. Io credo che il problema oggi non sia tanto quello dei giornalisti corrotti, anche se ce ne sono tanti, forse più di quelli che noi immaginiamo, né di un giornalista che scrive le cose che non pensa per opportunismo, o del giornalista che io una volta ho chiamato, "dimezzato", cioè quello che regala la metà o più della propria professionalità a una cosa che non è la libertà di informare, non è il rispetto del lettore, ma che sono altri interessi in gioco. Oltre a quello individuale, c'è un problema diverso, quello dell'editore. Enzo è uno straordinario professionista, è il numero uno del giornalismo italiano, ha un potere professionale che gli deriva dalla sua capacità, dalla sua onestà, e dalla sua bravura, naturalmente, e quindi dalla fama e dal successo che accompagna queste cose; e lui può permettersi di non scrivere mai cose che non pensa, e può anche permettersi di scegliere un editore. Ricordo un episodio, Enzo, se mi consenti; una volta il direttore de "La Stampa", De Benedetti, per un tuo articolo, tra l'altro bellissimo, dopo la morte del primo Kennedy, ti fece delle osservazioni che a me sembrarono sbagliate, e che probabilmente lo erano anche in assoluto, e tu te ne andasti in cinque minuti.
E.Biagi:
Perché ho un brutto carattere.
G. Pansa:
Perché hai un brutto carattere, perché sei un signore di carattere. Tu stesso hai detto che il carattere è una delle doti principali dei giornalisti, ma oggi tu sei uno che ha questa possibilità, che molti giornalisti invece non hanno. Allora il problema è, per usare un aggettivo banale, ma chiaro, strutturale, ed è un problema che riguarda le proprietà dei giornali. Se oggi l'informazione in Italia desta tutti i sospetti che desta, tanto da provocare, tra l'altro, un Meeting come questo, tanto da tenere tante persone qui dentro - io sono emozionato e anche angosciato a parlare di fronte a tanti giovani - è perché questo dell'informazione è uno dei bubboni della nostra democrazia. Perché dico che è un problema strutturale? Perché mentre una volta esistevano dei giornali di proprietà di gruppi industriali, c'erano però anche degli editori (…), degli imprenditori che avevano come unico scopo quello di fare delle notizie, e di fare dei soldi vendendo delle notizie. Se erano imprenditori seri, sapevano che più le notizie erano pulite, più avevano la possibilità di fare soldi, perché cresceva la fiducia dei lettore in un prodotto che veniva sfornato giorno per giorno. Se oggi osserviamo il panorama della stampa italiana, quotidiana e periodica, vediamo che ormai gli editori - editori sono quasi ridotti al lumicino. La stampa italiana oggi è di proprietà quasi esclusivamente di grandi imprese industriali, ma soprattutto di gruppi finanziari: è di proprietà, per usare un'espressione abbastanza chiara, di venditori di titoli azionari. Gli interessi dei gruppi finanziari sono enormemente più ramificati di quelli delle imprese industriali, quindi, paradossalmente, un giornale proprietà di una impresa industriale ha meno vincoli di un giornale proprietà di un gruppo finanziario. (…) L'interesse fondamentale dei gruppi finanziari non è quello di produrre dell'informazione, corretta o libera, ma di avere tra le mani uno strumento che può essere utile in tantissime occasioni (…). Il panorama della stampa italiana non è fatto tutto di Enzo Biagi, è fatto anche di giornalisti come me, che vivono giorno per giorno la difficoltà di far coincidere gli interessi, spesso non confessati, dell'editore, con l'interesse del pubblico, che dovrebbe leggere delle "buone" notizie. Di qui nasce una situazione di grande disagio, alla quale spesso non sappiamo reagire come dovremmo. Concludo e mi faccio anche pubblicità: ho riflettuto abbastanza su questi temi, ho anche scritto un libro che uscirà tra venti giorni da "Rizzoli", sul giornalisti italiani, e l'ho voluto intitolare Carte false, perché spesso noi giornalisti produciamo carte false.
R. Ronza:
In questa situazione, che spazio resta alla libertà del giornalista? Dobbiamo, come avrebbe detto Voltaire, chiudere i giornali e andare a lavorare in giardino, oppure c'è ancora qualche cosa che possiamo fare dignitosamente in questa professione?
E. Biagi:
Questo intanto presupporrebbe l'esistenza di un giardino, e non vedo una grande fioritura intorno a me. Vorrei anche dire che la mia posizione, dopo quello che ha detto Pansa, è un po’ difficile. Io non sono un padre della patria, in me c’è il malinconico privilegio dell’età che mi consente certi vantaggi. Io credo che la diagnosi che Pansa ha fatto sia molto esatta. Ma accanto alle responsabilità della situazione di questi editori, che hanno degli interessi in questo momento più specifici, più identificabili, ma li avevano anche in passato, intesi come corporazione. Se nel nostro mestiere c’è una possibile grandezza, secondo me sta proprio nel non ottenere la settimana corta o le vacanze lunghe (tutte cose che rispetto moltissimo), ottenere di dare la propria approvazione al cambio del direttore di un giornale, una delle cerimonie più ridicole che io abbia mai visto. (…) Quando io ho incominciato questo mestiere, nel 1937-38, in un giornale che aveva una testata un po' più lunga, si chiamava "Avvenire d'Italia", bastava portare un articolo, sembran delle favole, e c'era un signore molto gentile che leggeva il pezzo di un ragazzino e magari anche lo pubblicava. Adesso la nostra corporazione si è talmente politicizzata che, quando si presenta un giovane, credo che i direttori non gli chiedano più 'cosa vuoi fare', ma 'chi hai dietro le spalle', 'quale ideologia porti' (…). Insomma, mi pare che la mia categoria abbia progredito abbastanza sul piano di certe conquiste che non so se siano definitivamente conquiste o apparenze, ma che non si sia difeso un margine un po' più grande per quella massa di giornalisti giovani, che non hanno abbastanza protezione perché vivono in un ambiente ristretto. Non ho da propormi come esempio a nessuno, ma vorrei che ci fosse questo tipo di miglioramento, perché non è vero che sono i fatti che parlano, sono le idee che parlano.
R.Ronza:
Raccontateci un episodio della vostra rispettiva vita professionale in cui avete sentito in modo particolarmente vivo e immediato, che il vostro lavoro serviva, era utile alla gente.
E. Biagi:
E’ molto difficile da dire. Io ho sempre pensato che il mio lavoro serviva agli altri, come ho sempre pensato che non sono un lombrico, cioè che la mia vita deve avere un senso al di là di due date che non dipendono da me, quella della nascita e quella della morte. Non mi sono mai sentito un missionario, perché non posso salire sul podio e non ho niente da insegnare a nessuno. Ma i riconoscimenti della gente sono le piccole cose. Tornavo a casa, un mese fa, si è avvicinato a me un giovanotto che aveva una piccola motocicletta, e mi ha detto: "Senta, io sono uscito ieri l'altro da San Vittore, sono andato in questura, non mi vogliono dare la patente, m'han detto: - Se fai l'uccellino te la diamo -" . Fare l'uccellino non vuoi dire fare dei gorgheggi, ma andare a raccontare un po' di storielle, di quelle che i poliziotti non sanno. "Bisognerebbe che lei si occupasse di questo caso". Ho detto: "Lei ha un'idea del mio potere che io non condivido, se io mi occupassi di questo caso lei tornerebbe dai suoi vecchi amici, e io probabilmente verrei a farle compagnia, perché nessuno dei due potrebbe dimostrarlo". Mi ha detto: "Ma se lei si presenta alle elezioni, lo sa che ha 45.000 voti?" Gli ho detto: "Man quali sono?" "Quelli di tutti quelli che sono dentro".
G.Pansa:
L'episodio che mi è venuto alla memoria non riguarda me solo, in quel caso ero un giovane giornalista, l'ultima ruota del carro. Nell'ottobre del 1963 un pezzo di una montagna, che si chiamava Monte Toc, è franato dentro l'invaso di una diga, che era la diga dei Vajon, a pochi chilometri da Belluno. L'ondata che ne è emersa ha fatto fuori qualcosa come 2.000 persone, molti di questi corpi non sono più stati trovati. La diga aveva resistito e l’ondata aveva spazzato via un paese intero che era Longarone, con le sue frazioni vicine. Poche ore dopo, vale a dire la mattina successiva, che era quella dei 10 ottobre, già si cominciò a dire: "è una fatalità". Non era la fatalità, perché c'era stata la nazionalizzazione dell'energia elettrica, e la Sade, la Società Adriatica di Elettricità, aveva ceduto quest’impianto all'Enel, doveva essere pagata. Per dimostrare che l'impianto funzionava l'aveva riempito d'acqua sino a un limite che s'era rivelato talmente pericoloso che la montagna, che era marcia, era cascata dentro la diga. La gente del paese, della zona, temeva quest'evento, aveva tentato in tutti i modi di fermare la Sade e non c'era riuscita e, immediatamente dopo questi 2.000 morti, si cominciò a dire "la fatalità". Ecco, i giornali italiani di quell'epoca, non tutti ma gran parte, non stettero a farsi incantare dalla canzone della fatalità; cercarono di spiegare, di capire perché era accaduta questa storia, perché nuclei familiari interi erano stati spazzati via, perché una comunità come Longarone non esisteva più. Ecco, io credo di aver dato un contributo da formica a questo lavoro, ma se vado con la memoria alla mia storia professionale, credo che quello sia un esempio di come il giornalismo sia stato di utilità alla collettività, perché l'ha resa più libera anche del proprio diritto di chiedere che i morti dei Vajon avessero giustizia (…). La libertà dei giornalista esige, prima di tutto, un giornalista che abbia voglia di essere libero, perché molti di noi si accontentano di tante delle cose che ha ricordato Enzo. Esiste questo animale strano col gusto di fare del mestiere onesto: questa libertà va conquistata giorno per giorno, è una trattativa logorante. Si tratta di dire: "no,guardate che questa notizia non è così", "non dobbiamo aprire la prima pagina con questo fatto che non è rilevante, o che è un fatto di Palazzo, ma dobbiamo tentare di aprire con un altro fatto". Se si ha la fortuna di avere un direttore consapevole dei propri doveri, oltre che dei propri diritti, allora, questo lavoro è un po' più facile. Questo tipo di direttore è stato dipinto molti anni fa da Einaudi in un suo scritto sul giornalismo che diceva: "A pochi uomini, in poche epoche, vengono concesse da Dio le doti di carattere, di forza, di resistenza, di tenacia, di grinta". Einaudi voleva dire che è la limpidezza di carattere che consente di essere il capo di un giornale indipendente. Quando c'è questo, il lavoro è più facile ma è sempre una libertà da conquistare giorno per giorno. Ma il fronte decisivo siete voi, i lettori dei giornali, che dovete rifiutare quelli che vi sembrano spacciatori di notizie inquinate. Grazie al cielo, il mercato del giornalismo stampato in Italia, sia quello quotidiano, che quello settimanale, si regge ancora su un fatto che si chiama concorrenza, su un fatto determinante per la vita dei giornali che è la sanità dei loro bilanci. E’ il lettore, l'alleato numero uno del giornalista che vuole essere libero, e dipende dai lettori la libertà dei giornali: fino a quando? Non vorrei introdurre un'altra nota pessimistica, ma fino a quando i giornali in parte resteranno ancora di proprietà di editori professionali, che hanno un interesse economico alla vendita e alla diffusione. Quando le proprietà dei giornali saranno esclusivamente finanziarie o industriali, neppure più la forza professionale di un gruppo di giornalisti, la forza di una testata, il suo mercato, il numero di lettori che riesce ad agganciare ogni giorno conterà, perché i passivi saranno ridicoli rispetto ai fatturati che sono in grado di produrre questi gruppi industriali, questi gruppi finanziari. C'è questo rischio sullo sfondo, contro il quale io metto in guardia i giovani che sono qui questa sera. (…)
R. Ronza:
Pansa accennava a un "potere dei senza potere". Allora la mia domanda successiva è: chi ha il potere in Italia e quanto può contare il "potere dei senza potere?"
E. Biagi:
Quelli che hanno il potere in Italia si vedono, si conoscono, sono presenti ogni giorno; basta aprire i giornali o guardare la televisione. Io condivido tutto quello che ha detto Pansa, ma vorrei ancora aggiungere una cosa. Credo che i giornalisti possano ancora fare molto. Sono protetti come non lo sono mai stati, oggi è pressoché impossibile licenziare un giornalista. E’ possibile invece licenziare il direttore, quindi penso che il primo dovere di un direttore sia, oggi, quello di dare un senso di sicurezza e di protezione a quelli che lavorano con lui. Anche il direttore fa sempre parte della categoria. Chi ha il potere in Italia? Non conta solo chi ce l'ha; conta anche quello che la gente pensa di chi non ce l'ha, ma che lo potrebbe, avere. Contano certamente i politici, contano come minimo per dire di no a certe cose. Contano come sempre, dappertutto, quelli che hanno il denaro. Contano le grandi organizzazioni di massa, in un certo modo, ma fino a un certo punto. C'è un partito in Italia che ha il trenta per cento dei voti: in me suscita l'immagine di un trattore che si porta dietro un foglio di carta velina, una grande forza che tira dietro niente. Allora, chi è che comanda? Sono tante le stanze dei bottoni: alcune vere, altre immaginarie. Quelle immaginarie probabilmente sono ancora più pericolose. (…) Non so se non contano niente quelli che apparentemente non hanno potere. Secondo me contano. Un difetto del lettore, però, è quello di cercare il giornale che gli dà ragione. Non c'è tanto la curiosità di sapere quello che pensano gli altri, seguendo quell'aureo consiglio che dice: "Cerca di considerare intelligenti anche quelli che non la pensano come te". Allora fa male "L'Unità" probabilmente, quando vuole portare dalla sua quelli che già votano comunista, o fanno male i miei colleghi di "Avvenire" se vogliono convincere i preti dell'esistenza di Dio. Devono parlare a me, che sono lì, un po' incerto, dovete suscitare negli altri la curiosità di sapere le cose! E poi c'è una pigrizia ancora, dei giornalisti: a me piacerebbe fare un programma televisivo che durasse cinque minuti, con un uomo dei quale ho una grandissima stima, col quale ho parlato tre o quattro volte, il cardinal Martini. Parlare con un uomo che ha una grande coscienza, indipendentemente dalle convinzioni religiose, della vita, della morte, del dolore, della solitudine, della disperazione, di "quel fatto che è successo quel giorno", proiettato in una dimensione più grande, qualcuno che sa dare anche una speranza agli altri, io credo che aiuti a vivere.
G. Pansa:
Quando Ronza faceva questa domanda mi è venuta in mente la battuta di un politologo che, se fosse vera, taglierebbe la testa al toro e non staremmo qui a parlarne, dice: "i voti contano, le risorse finanziarie decidono". Io credo che in parte questo sia vero, sia nei giornali che nel mondo dell'informazione, della comunicazione. Però il potere dei senza potere c'è, è enorme, basta creare le strutture per cui il potere di tanti uomini che singolarmente non hanno potere, messi assieme, diventi una struttura di potere. Se c'è una persona lontana da C.L. credo di essere io, non mi sono mai occupato da vicino di voi, per certi aspetti non mi siete nemmeno troppo simpatici, però che voi esistiate è un fatto importante per la democrazia di questo paese. Una struttura che nasce dal niente, che porta qui tanti giovani a sentire non solo il concerto di Battiato, ma due signori che parlano di giornali e informazione, è una struttura importante per la democrazia di questo paese. Allora, anche per chi non vi ama, anche per chi ritiene che il vostro presunto sponsor politico, Andreotti, sia il peggior politico che la Democrazia Cristiana può buttare in campo oggi, voi siete, ripeto, una struttura fondamentale, perché siete un insieme di persone senza potere, diventati un gruppo che ha del potere. Sull'informazione io vorrei che si creassero in Italia, così come esistono le associazioni dei consumatori che si battono perché l'olio non è buono, o perché nel vino c'è il metanolo, delle associazioni di consumatori dell'informazione, sarebbe una grande vittoria per tutti quei giornalisti che oggi nei giornali, nelle televisioni, nei settimanali, nei media, tentano ancora di fare il loro mestiere come gli è stato insegnato.
R. Ronza:
Voi siete entrambi dei giornalisti notissimi, occupate delle posizioni di grande rilievo che vi danno anche possibilità di grande influenza. Questa non è una colpa, è una condizione, anche un merito. Stando così le cose, vi sentite dentro o fuori dal Palazzo?
E. Biagi:
Io mi sento fuori dal Palazzo, enormemente. Il Palazzo si occupa di me ogni volta che comincio a fare certi lavori, chiedendo, alcuni che mi licenzino, altri che cambi i modi, o altri ancora che non mi faccia più vivo. Ci sono tanti modi... Mi sento uno che ha il privilegio di fare un mestiere che gli fa compagnia da una vita, che ha ancora tante curiosità che lo aiutano a vivere, che ogni giorno cerca di affrontare con dignità il suo compito, che si rende conto delle grandi difficoltà che ci sono in questo paese, ma è anche convinto che molte cose si possano affrontare. (…) Non si può chiedere al lettore che ci difenda, Pansa, bisogna che le cose le facciamo assieme. Dovremmo tenere in mente quella bellissima battuta che James Reston indirizzò al clan dei Kennedy quando erano al potere, alla Casa Bianca. Disse, ai Kennedy che non gradivano tanto gli articoli del "New York Times"; "Quando voi siete arrivati, noi c'eravamo; quando voi ve ne andrete, noi ci saremo ancora". Facciamoglielo presente tutti i giorni.
G. Pansa:
Io non chiedo ai lettori di difenderci, ma di difendersi difendendo anche il lavoro di chi come noi, ce ne sono tanti, tentano all'interno dei giornali di fare un mestiere corretto. Personalmente mi considero fuori dal Palazzo, non sono un frequenta-VIP, non vado a cena con De Mita o con Bettino, però credo di non essere fuori dal Palazzo. Credo che il mio lavoro mi tenga, mio malgrado, all'interno di una struttura informativa che è fatta per poche persone. In Italia, saremo cinquantasette, cinquantotto milioni, ci sono soltanto sei milioni di persone che ogni mattina sentono il bisogno di comprare un giornale. Che spinta può trovare all'acquisto del giornale il contadino che sta in una valle laterale a Courmayeur o nella bassa romagnola, o il pensionato che vive nelle periferie di Torino, di Milano, di Roma? Cosa trova dei suoi problemi dentro il giornale di oggi? Questa è una delle cose che ha detto Formigoni, è un vecchio leit-motiv che noi ci cantiamo sempre. Quando faccio la mia rubrica sull’ "Espresso", ormai mi rendo conto che faccio dei riferimenti che possono capire soltanto persone che hanno letto la rubrica della settimana precedente. Mi rendo conto che questo mestiere è arrivato a un punto tale che necessita di forme di espressione nuove, intendo dal punto di vista tecnico, la televisione per esempio. Io credo che il problema del comunicare sia arrivato a un punto di snodo che non so individuare, perché questo mondo della comunicazione elettronica, dei computer, io lo conosco poco e niente, ho imparato a scrivere su un video-terminale perché devo, ma quando posso continuo a scrivere sulla mia vecchia "Lettera 32". Credo che la condizione numero uno, per un giornalismo non di Palazzo, sia ristabilire la corrente di fiducia che dovrebbe esistere tra la persona e l'informazione. Se noi riusciamo - ma questo è il fosso che dobbiamo saltare - a stabilire la convinzione che il nostro trasmettere notizie è un gesto pulito, che può servire a rendere più libere le altre persone, allora forse riusciamo a uscire da questo imbuto; ma credo, conoscendo i polli del mio pollaio, conoscendo me stesso, conoscendo le condizioni in cui lavoriamo, conoscendo il nostro scetticismo, conoscendo la nostra voglia di vivere tranquilli, che sia molto facile all'interno delle strutture editoriali fare delle scelte che non hanno come stella polare l'interesse dei lettore a conoscere, non dico la verità, ma la possibile verità sul fatto. E’ difficile licenziare il giornalista, ma è molto facile inserirlo in un sistema tale per cui la capacità di porsi delle domande su quello che accade attorno, e di spingere il lettore a farsi delle domande, diventa sempre più rara. Se c'è un vizio che oggi corrode il giornalismo italiano, è un giornalismo che non si fa più domande, e non spinge più i lettori a farsi delle domande.
R. Ronza:
In ambiente cristiano si ha spesso l'impressione, e io la condivido, che nel mondo italiano dei mass-media ci sia una generale sotto-comprensione delle culture di tipo religioso. Biagi parlava dei giornali che vogliono convincere i preti dell'esistenza di Dio, ma noi abbiamo visto in questi giorni che ci sono dei giornali che si sorprendono, che i cristiani pensino all'esistenza dei diavolo. E’ sorprendente che si sorprendano, che dei cristiani siano convinti di una cosa di cui Cristo era convinto. La domanda: è vero o non è vero che le culture di tipo religioso sono sotto-rappresentate nel mondo italiano dei mass-media, e soprattutto sono comprese e rappresentate in modo inversamente proporzionale alla loro presenza nel Paese? E, se è vero, di chi è la colpa?
E. Biagi:
E’ un problema che non mi sono mai posto.
R. Ronza:
Noi ce lo poniamo.
E. Biagi:
Voi ve lo ponete e avete perfettamente ragione. Io capisco che uno trovi ridicolo che i giornali laici si stupiscano che i cristiani hanno fede nell'esistenza dei diavolo. Io ci credo che ci sia il diavolo. Per me magari ha il composto atteggiamento di monsignor Marcinkus. Quindi non mi meraviglio. Certo, la gente è distante dai problemi religiosi, e voi qui siete la dimostrazione che c'è un bisogno di religiosità, e lo testimoniate. Ma per tanti anni c'è stata una grande commistione tra religione e politica, e la gente ha identificato la religione in un partito non sempre esemplare degli interventi della Chiesa, per cui Gesù Cristo a un certo momento diventava una specie di agente elettorale, che ti invitava a votare in un modo piuttosto che in un altro. Forse anche da questo è nato un certo distacco. Riflettevo su quello che ha detto prima Pansa: forse i giornali si occupano poco delle cose che riguardano i pensionati o la gente comune o almeno non se ne occupano in maniera da coinvolgerli, ma chi è che lo fa? Ci sono dei giornali che rappresentano delle grandissime forze politiche, vedi "l'Unità", che ha aumentato la tiratura facendo "Tango", non predicando o sintonizzandosi con la gente su quelli che sono i problemi di questi momenti. C'è un giornale che si chiama "Il Popolo"; secondo me, vista la tiratura, dovrebbe chiamarsi "La Comitiva". Ce n'è un altro che si chiama "Avanti!" e dovresti vedere queste masse che camminano, ma cammineranno sulle diecimila copie, mica tanto di più, basterebbe mandare una letterina a casa, o fare qualche telefonata. Insomma la faccenda è un po' più complicata di quello che sembra.
G. Pansa:
Io credo che sia una domanda che non dovreste porre a me, ma a voi stessi.
R. Ronza:
Noi ce la siamo già fatta, vogliamo farla anche a voi.
G. Pansa:
Dovete farla. Non dovete farvi soltanto la domanda, ma muovervi, dopo che vi siete dati una risposta. Biagi vi ha detto delle cose vere. Ma perché in Italia l'editoria, chiamiamola cattolica, non marcia? Perché l'altro giorno è uscito "Avvenire" con un bilancio terrificante? Perché "Il Sabato", che pure è un giornale che spesso presenta delle cose di grandissimo interesse, stenta, non si vede, non fa parlare? Questo è un problema di deficit culturale, organizzativo, finanziario, oppure c'è qualche cosa nella vostra proposta politica, culturale, ideologica, ecclesiale, che non sfonda, c'è qualcosa che non aggrega, perlomeno in tali dimensioni? Giudicando dai giovani che vedo qui, voi dovreste produrre un quotidiano che vende ogni giorno come minimo centocinquantamila copie. Perché non riuscite a farlo? Il problema è allora di aggregare un gruppo che sia in grado di trovare una risposta a questa domanda. Qui voglio vedervi! Perché poi non basta solo lamentarsi; certo, gli altri giornali parlano poco di informazione religiosa. I grandi quotidiani hanno due giornalisti o spesso uno solo che chiamiamo "vaticanista", delegato ad occuparsi di queste cose, anche se poi magari sul diavolo scrive un signore intelligentissimo, che il giorno prima si è occupato di un'altra cosa. Bisogna tener presente che oggi i quadri dirigenti dei giornali che vanno per la maggiore hanno una formazione culturale e ideologica che è la più estranea alla vostra. Io sono un agnostico, a un certo tipo di problematica non sono interessato, mi manca anche il retroterra culturale, però capisco che c'è questa necessità, questo bisogno. Fa parte del discorso dell'organizzazione dei "senza potere" di cui s'è detto prima; quindi una risposta dovete trovarla voi. Trovatevela, sputate fuori quello che avete trovato, mettetecelo nelle edicole tutte le mattine. Questo dovreste fare. Sarebbe un contributo importante alla convivenza e alla democrazia, non solo, ma anche ai fini di quel discorso sull'informazione che vogliamo fare oggi. (…) Questo è un compito essenziale. Certo, la vostra generosità (so perché leggo anch'io le cose che si pubblicano su di voi) si esplica in tanti campi, con grandi sforzi: sono cose che spesso fanno venire i brividi alla schiena, perché io spesso mi domando se sarei capace dì fare quello che fate voi. La mia risposta è sempre no, e quindi arretro impaurito, commosso e rispettoso davanti a quello che siete capaci di fare, ma questo dell'informazione è un banco di prova fondamentale nella vita di oggi. Provatevi anche su questo e ad un altro Meeting verremo qui a parlare di quello che siete riusciti a produrre. Io vi invito a farlo.
R. Ronza:
Pansa, non intervengo sul giudizio su Andreotti, ma sento di dover chiedere a lei e a chi rappresenta la sua posizione, con questa franchezza che ci ha dimostrato, di non vederci sempre a tutti i costi attraverso questo filtro dell'aggregazione politica che per noi è secondaria. Lei crede che questi dodicimila ragazzi siano qui per Andreotti? Sono qui per tutt'altra cosa. Che poi questo abbia anche dei riflessi politici, è perché cerchiamo di essere vivi in tutte le cose. Noi vi chiediamo di volerci vedere per quello che siamo realmente, un'aggregazione religiosa.
G. Pansa:
Io di questo sono estremamente convinto. Lei mi fa torto se pensa che io posso pensare che questi giovani sono qui per Andreotti o per De Mita. Prima di tutto, se avessi avuto questo sospetto folle, non sarei venuto; secondo, non sono così scemo né così invecchiato da pensare che Andreotti o De Mita siano in grado di produrre questo spettacolo. Se fossero in grado di produrlo, siccome ho una profonda sfiducia nei confronti di certi sistemi partitici, mi sentirei accapponare la pelle. Ronza, mi creda, vi vedo per quello che siete, spesso non ho le armi culturali per capirvi fino in fondo. Vi rispetto, non mi fate alcuna preoccupazione. Vi vedo per quello che siete, vi incito ad esserlo fino in fondo, perché allora comincia il confronto vero.
E. Biagi:
E io vorrei dire che non mi fate affatto paura, voglio dire anche che non vedo neanche questa indifferenza voluta nel confronto dei problemi religiosi da parte dei giornali; dovete tenere presente che quando in Francia avevano Bernanos noi avevamo Papini, cioè un altro modo di parlare di religione. Papini andava a Weimar, Bernanos raccontava tutta la disperazione e la tristezza della guerra di Spagna. Non è vero che i giornali non sono stati attenti a certi uomini, a certe storie religiose. Io sono profondamente convinto che l'Italia ha avuto tre rivoluzionari dal '45 ad oggi: don Zeno, don Mazzolari e don Milani. Allora, di questi uomini ci siamo occupati tutti, chi crede, chi non crede, chi vorrebbe credere, perché secondo me il laico è uno che cerca. E io, che mi considero un laico, vedo in voi della gente felice che ha trovato certezze che io invidio. Ci vogliono delle storie perché i giornali le raccontino, quella che voi state vivendo è una bella storia. lo non so se voi siete integralisti, come vi vedete, non mi preoccupo minimamente. Voi portate dentro di voi delle speranze. Io non credo che le vostre speranze debbano suscitare negli altri preoccupazione; forse devono aiutare gli altri a vivere, a sperare come voi. Voi lo sapete che non si possono salvare le anime né a colpi di crocifisso, né a colpi di violenza ideologica, dovete avere il vostro posto, come l'avete, nel nostro paese, e penso che da questo non possa nascere che del bene. Ma non si può dire ai giornali: "state più attenti ai fatti religiosi". Fate lievitare qualcosa di più, se ne accorgeranno anche i distratti giornalisti.
R. Ronza:
In Francia si pubblica da anni una collana molto fortunata che s'intitola "Ce que je croie", "Quello in cui credo"; se loro fossero invitati a scrivere un libro per questa collana, cosa ci scriverebbero dentro, detto in due minuti?
E. Biagi:
Accidenti, dire in due minuti quello che uno scriverebbe in un libro, su un argomentino così leggero,... è un'impresa da diecimila dollari. Se rispondo, bene mi mandate in cabina?
R. Ronza:
I diecimila dollari non li abbiamo.
E. Biagi:
Io credo che nessuna vita sia inutile. Io credo che sia abbastanza vero quello che disse una volta Hemingway. Quando gli domandarono "Credi in Dio?" lui disse "Qualche volta di sera". Forse anche qualche volta di giorno. Io credo che ci sia qualche cosa che non riesco a spiegarmi, che quand'ero bambino mi aiutava a immaginare un certo mondo che esiste ancora adesso che sono vecchio. Credo che mia madre, che è morta parlando con Dio su un piano di parità, non avesse torto, perché ha avuto coraggio anche in un'ora difficile. Credo negli uomini che sono uguali a me; guardavo la vostra mostra sulle pitture delle caverne, e mi confortava ancora una volta pensare che uomini distanti nel tempo e nello spazio sentivano tutti le stesse cose nello stesso momento. Chi ha detto: "Tutti i figli di Dio hanno le ali?" Mi piace. Credo che ci sia della verità. Qualcuno ha detto anche: "Per ogni uomo che incontri, qualcosa in te nasce, qualcosa in te muore". Io credo che da questo giorno che ho vissuto con voi, nascerà in me qualcosa che non sarà male e che mi aiuterà a tirare avanti e mi farà compagnia.
G. Pansa:
Ma, io, se dovessi essere invitato a scrivere un libro di questo tipo rifiuterei subito, non sarei capace di scrivere più che dieci righe in risposta a questa domanda, divise in due parti: credo - invecchiando ci credo sempre di più - che sia possibile una solidarietà fra gli esseri umani, e quindi che sia possibile una forma di giustizia terrena, e quindi sia giusto combattere per questa giustizia e contro l'ingiustizia. La seconda cosa - anche questa, invecchiando, mi fortifica sempre più, ma purtroppo so che ho poco tempo, rispetto a prima, per goderla - credo nell'affetto delle persone che costituiscono il mio nucleo familiare, credo nella famiglia. Queste sono le due cose di cui forse non dubito, essendo un laico che non ha un orizzonte così ampio come avete voi; credo siano le due ancore che mi impediscono di diventare matto, a 50 anni e in un mondo come questo.