sabato 29 agosto, ore 17,30
PROGRESSO IMPRODUTTIVO E INTRAPRESA COSTRUTTIVA
partecipano
Gabriele Zaid
poeta, critico letterario, studioso della società, membro del Colegio Nacional del Messico
Marco Martini
docente di Statistica economica presso l'università di Milano, vicepresidente dell'associazione "Umanesimo Economia e Società"
Conduce l’incontro
Pier Alberto Bertazzi
C'è un progresso che è solo apparente, un progresso immediato che commisurato su tempi più lunghi si rivela paradossalmente negativo. Del resto, anche in economia, la scelta drammatica è tra accogliere l'altro o soffocarne la domanda trasformandolo in cosa. E' solo l'appartenenza a Cristo, l'unità dell'ora et labora, può spingere ad affrontare la divisione del mondo.
G. Zaid
Verso la metà del secolo, la maggior parte delle popolazioni occupate in tutti i paesi lavorava per proprio conto. Non vendeva il proprio tempo marcato da un orologio all'entrata e all'uscita d’installazioni altrui. Lavorava in proprio, vendeva prodotti e servizi prodotti con i mezzi famigliari. Dipendere economicamente da un impiego non era la cosa più comune, né sembrava desiderabile, era come cadere sotto servitù; in particolare aspirare al servizio pubblico in un ufficio sembrava una mancanza di senso comune, quasi una malattia mentale per la quale si usava un nome burlesco, "Impiegomania". Significativamente questa parola non si usa più, cercare un posto divenne normale. Questa nuova normalità culminò verso il 1970. In molti paesi chiamati capitalisti, la maggior parte della popolazione non disponeva più di un proprio capitale per lavorare: aveva un impiego. In altri paesi chiamati socialisti, praticamente tutta la popolazione era tornata alla servitù. L'economia mondiale si era burocratizzata. Il lavoro non si concepiva se non entro uno scenario burocratico, non avere un ruolo in questo scenario era come non esistere. Cercare di produrre fuori da questo scenario era restare fuori dalla realtà. La nuova normalità venne definita dall'economista John Kennet Galbraith, nel suo libro Il nuovo stato industriale, in questo modo: "Ad eccezione dei romantici patologici, tutti adesso riconoscono che questa non è l'epoca del piccolo imprenditore". A suo parere l'azienda del futuro sarebbe stata molto, molto grande; tuttavia, come osservò poi la rivista "The Economist", il Professor Galbraith aveva annunciato tale tendenza esattamente quando le cose cominciavano a cambiare. A partire dal 1970 si parla sempre di più d’autoimpiego, di piccole imprese, di creazione sociale contro creazione burocratica. Le grandi aziende, le grandi città, l'economia del settore pubblico hanno avuto poi tempi difficili, vivono tempi difficili. Si tratta solo di turbolenze congiunturali? Secondo me no. Il problema di fondo è che il gigantismo produce meno di quello che costa, si tratta dell'avanzata di un progresso improduttivo che può sostenersi finché non si amplia troppo. Non è lo stesso che il settore produttivo rappresenti l'1% del totale, oppure il 5%, oppure il 25%; la progressione non può essere sostenuta all'infinito, ancor meno se viene sostenuta attraverso risorse ogni volta sempre più costose. In una prospettiva millenaria, l'estrema concentrazione del potere, il gigantismo e la burocratizzazione del mondo che sembra siano giunti all'apogeo nel 1970, forse si possono spiegare come un fenomeno transitorio. Hanno ricevuto un sostegno straordinario ma non rinnovabile, l'energia fossile che si è cominciato a sperperare nel secolo scorso e che finirà il secolo prossimo. Questi grandi depositi d’energia a basso costo (il carbone, il petrolio) che si sono accumulati durante milioni d’anni per essere consumati nel giro di due secoli, hanno fatto sì che apparissero economiche cose che non lo sono. Molte economie di scala consistono semplicemente nel risparmio di lavoro sperperando energia; scarseggiando l'energia a basso costo, quando aumenta il costo di risorse come il petrolio, le materie prime, la apparecchiatura, le macchine, i tassi d’interesse, com’è successo a partire dal 1970, cambiano tutti i calcoli e si riduce la scala d’operazioni giustificabile. Non sembra casuale che dal censimento del 1980 risulti che per la prima volta nella storia degli Stati Uniti le grandi città abbiano smesso di crescere. Ciò non può considerarsi separatamente da quel che è accaduto dopo il censimento del 1970 e cioè l'aumento dei prezzi del petrolio e dell'elettricità, l'aumento dei tassi d’interesse, il tracollo economico del comune di New York, il rifiuto da parte del Governo Federale di sostenere il deficit delle grandi città, la ribellione dei contribuenti di fronte all'aumento delle imposte locali. Quando il gigantismo cessa di essere sostenuto, cessa di crescere. Molti progressi del XX secolo sono progressi improduttivo, tecnicamente possono apparire meravigliosi, avanzatissimi, ma economicamente sono in deficit; per sostenersi hanno bisogno d’energia a basso costo, di risorse naturali a basso costo, di credito a basso costo. Ma non tutti i giochetti del secolo XX sono improduttivo, non tutti i giocattoli; ce ne sono altri che invece risparmiano energia, che risparmiano le risorse naturali, che risparmiano il capitale. Per esempio la miniaturizzazione elettronica: questo è un progresso degno della migliore tradizione, cioè quella che consente di aumentare la produttività del lavoro con investimenti minimi. Questa tradizione viene dai popoli che oggi si chiamano sottosviluppati e che tuttavia hanno inventato la ruota, l'ago, l'alfabeto e tante altre cose che oggi adoperiamo tutti. Più recentemente, nel secolo XIX, si è inventata un'altra meraviglia che continuiamo ad usare: la bicicletta. La bicicletta costituisce un progresso estremamente produttivo con un investimento minimo che non rappresenta più di un numero ridotto di settimane di lavoro; permette di muoversi quattro volte più in fretta che a piedi, con un dispendio calorico cinque volte inferiore per chilometro percorso. Invece un'automobile può correre dieci volte più in fretta di una bicicletta - naturalmente pensando che tutti siano tanto gentili da farsi da parte e lasciarla passare - ma il costo in calorie per passeggero a chilometro non è inferiore ma superiore. Trenta volta maggiore di quello che invece implica la bicicletta, cinque volte di più che andare a piedi, e l'investimento non è poi così piccolo. Venti o trenta volte di più della bicicletta, come se fosse poco; l'automobile brucia energia non rinnovabile, inquina l'ambiente e uccide molta gente. L'aura meravigliosa del progresso non facilita queste distinzioni, coinvolge tutti i giocattoli meravigliosi come se tutti fossero produttivi, tutte le crescite come se tutte fossero ugualmente desiderabili. Ma c'è una crescita verticale, piramidale centralizzata, che in generale è molto meno produttiva della crescita orizzontale, decentralizzata, comunitaria oppure federativa. C'è un fenomeno sorprendente che ho scoperto prima di tutto nei censimenti industriali del Messico, poi in quelli agricoli, del commercio e dei servizi e anche nelle statistiche di tanti altri paesi. Si suol credere che le imprese piccole siano meno efficienti delle grandi ed è vero, se per efficienza si intende la produttività per uomo; ma se per efficienza si intende la produttività per unità d’investimento, allora il quadro cambia completamente. Nei dieci ordini in cui si è distribuito il censimento, a cominciare dalle imprese con meno di sei persone per finire con le aziende che impiegano più di 750 persone, risulta che la produttività per uomo aumenta gradualmente, mentre la produttività per unità d’investimento diminuisce altrettanto gradualmente. Vale a dire: la concentrazione del potere è improduttivo riguardo alle risorse, le economie di scala si basano soprattutto sul risparmio di lavoro, ma non sul risparmio di risorse. Il gigantismo concentra molte risorse in pochissime mani e aumenta così la produttività del lavoro a costo di ridurre la produttività delle risorse. Se le risorse che si assegnano all'aumento piramidale si destinassero all'aumento orizzontale, produrrebbero molto di più. Lo ripeto perché sembra difficile da accettare. Le grandi aziende, benché poche, producono più di tutte le piccole imprese insieme, producono di più per uomo, anche. Quel che succede è che producono meno in relazione alle risorse. Per esempio in Messico le aziende che occupano più di 750 persone impiegano un capitale per persona otto volte maggiore delle imprese che impiegano in media meno di sei persone; ma non producono, queste grandi aziende, otto volto di più per uomo, bensì quattro volte di più. Vale a dire, producono la metà per unità d’investimento; ossia, con lo stesso investimento si possono dotare di strumenti di lavoro 750 persone di una azienda grande, oppure 6000 persone in 1200 imprese di cinque persone ciascuna. Evidentemente se nella comunità ci sono 6000 persone e non c'è capitale a disposizione più di questo, dotare di strumenti di lavoro 750 persone in una sola azienda è lasciare senza mezzi di produzione 5250 persone. Ma non soltanto questo. Sebbene le 750 persone producano quattro volte di più per persona, nell'insieme produrrebbero la metà delle 6000 delle imprese piccole; malgrado tutto ciò, le risorse tendono a concentrarsi dove producono meno, dove la produttività è inferiore. Per molte ragioni d’ordine sociale più che economico. Le concentrazioni di potere possono avvalersi del potere, appunto, per disporre di risorse e sperperare, aumentando così la produttività per persona e gli introiti del personale; però le risorse a buon mercato tendono a scomparire, soprattutto a partire dal 1970 tendono a diventare care, tendono ad eliminare i vantaggi del gigantismo rispetto all'efficienza, la creatività, la flessibilità delle piccole imprese. Ci sono in tutto ciò grandi potenzialità per scopi costruttivi in vista di una organizzazione economica più umana, aperta alla ispirazione di molteplici iniziative, più simile alla creazione artistica e artigianale. Non sto parlando di sogni utopistici, ma d’occasioni economiche, di vantaggi competitivi fondati sul migliore sfruttamento delle risorse. 1 progressi del gigantismo hanno preso la strada facile della risorsa grezza in quantità, invece le tradizioni artistica e artigianale hanno sempre dato preferenza alla qualità, alla creatività, alla persona, all'espressione di più con meno. L'arte è sempre stata economica in questo senso, ha prodotto di più con meno, ha diffidato della strada facile, è ricorsa all'immaginazione più che alla quantità. Come si può appoggiare questo sviluppo di una economia più umana? In primo luogo con la creatività. In molti paesi esistono programmi d’appoggio per le piccole imprese, ma non ottengono molti effetti perché sono troppo burocratizzati; per appoggiare la creatività, sostenerla, occorre creatività. In secondo luogo con la legittimazione: il prestigio del gigantismo della quantità, dell'appartenenza a grandi istituzioni e imprese pesa nei riguardi dei lavori in piccolo. La sicurezza economica, le installazioni di lusso, le spese pagate, danno prestigio alla integrazione nel potere. Occorre quindi dare prestigio all'indipendenza, alla responsabilità, al rischio, alla creatività, all'austerità, alla meravigliosa economia di produrre di più con meno, di fare storia a misura d'uomo ed essere protagonisti di una operazione che ha un senso. Occorre distruggere l'idea che l'unico scenario degno del lavoro sia lo scenario burocratico. In terzo luogo con l'informazione. L'economia offre molteplici occasioni per operare in piccolo, occasioni che sono di scarso interesse per le grandi aziende, oppure che sono inaccessibili per il loro modo di operare; perché esigono qualità che non ha la burocrazia. Sfortunatamente molte di queste occasioni non si sfruttano per mancanza d’informazione. Con la semplice informazione, ma una informazione pratica, si può favorire il contatto fra gli interessati senza subordinarli ad un centro di potere, si può stimolare l'organizzazione orizzontale della società, uno sviluppo economico più umano ad un costo relativamente basso. In quarto luogo, sollecitando l'offerta di risorse per produrre in piccolo. Farò una serie d’esempi. Negli Stati Uniti esistono federazioni di piccole imprese che agiscono come una catena benché ogni modulo ripetitivo appartenga ad un piccolo imprenditore che paga dei diritti d’affiliazione. Questo sistema denominato "Franchising" si applica a settori molto diversi dell'economia: fioristi, pizzerie, stampa, piccoli hotel, officine meccaniche, negozi d’ottica, lavanderie ecc.. Il sistema ha prosperato tanto che si organizzano addirittura delle fiere ogni anno in cui centinaia di compagnie offrono contratti di franchigia con i requisiti per sottoscriversi e in cui i visitatori percorrono tutti i settori d’attività in cui possono inserirsi. In Messico, dove non esiste quasi questo sistema, si sta organizzando una fiera dell'autoimpiego per esporre ogni sorta d’equipaggiamento, d’apparecchiatura, di macchine, materiali, corsi, servizi, che sono a disposizione appunto dell'autoimpiego. Si potrebbe anche fare una specie di fiera per iscritto, un catalogo con questo scopo; un'altra possibilità è canalizzare quest'offerta di risorse per produrre in piccolo per mezzo di una catena di negozi la cui operazione potesse completarsi offrendo ogni tipo di materiali per il "fai da te" e gli hobby. Molti autoimpieghi cominciano dal semplice gusto creativo e dal gusto di imparare, di esprimersi, di produrre con le proprie mani, invece che comperare tutto già fatto; fare mobili o lampade per la casa che poi piacciono agli amici e poi, a poco, a poco, diventano una piccola industria. Non bisogna dimenticare neppure la via indicata da Schumacher, autore di Piccolo è bello. Schumacher era un cattolico fervente, con un gran senso teorico e allo stesso tempo pratico. Nato in Germania, studiò in Inghilterra dove pubblicò un articolo sulle compensazioni multilaterali di saldi internazionali, le cui idee sfruttò lo stesso Keynes, il quale lo portò con sé ad Oxford e diventò per lui una specie di protettore. Lavorò per vent'anni nel "British Coal Board" in modo convenzionale, fino a che scoprì il principio della tecnologia intermedia. Senza vera necessità, tutto il progresso tecnologico si limitava al disegno di cose sempre più grandi, essendo invece perfettamente possibile e desiderabile disegnare cose più avanzate, ma più piccole. Fondò un gruppo che continua ad operare in Inghilterra con lo scopo, appunto, di disegnare apparecchiatura per produrre in piccolo. Un ultimo esempio. Quando si parla dei successi dell'industria giapponese, si pensa alle grandi aziende come Toshiba e Mitsubishi, senza considerare l'importanza che le piccole imprese e le piccole aziende agricole hanno avuto per lo sviluppo giapponese. Così come alcune iniziative di straordinaria originalità. Per esempio: l'industriale Magokici Hiamaoca, ebbe l'idea di ridisegnare completamente un motore diesel, in modo che le parti di questo potessero essere fabbricate dagli stessi contadini nelle loro terre, con utensili anch'essi disegnati a questo scopo. Il risultato è stato che i contadini poterono arrotondare le proprie entrate agricole e che molti dei loro figli, così, quasi per gioco, senza necessità di alcun corso speciale, sono divenuti meccanici esperti molto richiesti. L'economia non è la produzione e lo scambio di cose, è la produzione e lo scambio della vita della gente. L'economia è, in ultima istanza, una conversazione; questa conversazione si impoverisce nel gigantismo e nella burocrazia e questo, naturalmente, è sufficiente per desiderare un'economia più umana, ma sono contento di aver trovato che l'impoverimento è anche economico. Il progresso improduttivo concentra le risorse e le sperpera. Un'economia meno piramidale, più orizzontale, più umana, più affine alle tradizioni creative dell'arte e dell'artigianato, produrrebbe di più con meno.
M. Martini
La parola intrapresa non si trova nei manuali di economia, si trova in quei manuali la parola impresa. Ma la parola impresa, ormai, è soltanto designativa di fatti giuridici. Dichiaro subito che per me la parola intrapresa coincide col significato dei lavoro. Il lavoro è intrapresa e senza capirlo come intrapresa non lo si capisce come lavoro. E’ questa la tesi che vorrei sviluppare in questo mio intervento. Nella divisione degli ordini gerarchici della società, tutto il mondo antico fino al 1800, parlava di tre ordini: i bellatores, cioè coloro che fanno la guerra, gli oratores, coloro che usano la parola e i laboratores, coloro che faticano sulla terra, coloro il cui posto è la terra, la miniera, il solco dell'aratro. Questa tripartizione è durata per circa diecimila anni per quel che ne sappiamo, e ancora oggi noi ne risentiamo. Con l'introduzione della macchina, delle macchine guidate dalle fonti di energia scoperte nell'800, è sembrato ad alcuni che chi lavorava in realtà fosse la macchina e gli ingegneri ci hanno abituato a parlare del lavoro come del lavoro della macchina - il lavoro meccanico, il lavoro fisico, l'applicazione di una energia nel tempo, e il lavoro dell'uomo era solo un caso particolare di questo lavoro fisico. La macchina, la catena delle macchine che è la fabbrica, la catena di fabbriche che è il settore, la catena di settori che è l'economia, lavora: e l'uomo è un ingranaggio di questa catena. Gli oratores sono i pochi che dispongono delle risorse e possono decidere che cosa produrre e come produrre. I laboratores sono coloro che applicano la forza fisica e psichica nel tempo, nel posto definito dalla macchina. Questa è la definizione di Marx di lavoro generalizzato; ma questa è la definizione che Marx riprende da Smith, da Ricardo, cioè dagli economisti che l'hanno preceduto ed è la definizione che riprendono anche gli economisti successivi che pure per molti aspetti sono diversi da Marx, Pareto, Marshall, Keynes. Tutti assumono questa idea: il lavoro come forza applicata nel tempo, la forza lavoro. E’ ancora il termine con cui oggi gli statistici misurano il lavoro. Le tre grandi scuole di pensiero economico: la classica, la keinesiana e la neoclassica, sono accomunate da questa idea che il lavoro sia una forza applicata nel posto deciso dalla macchina. Paradossalmente Keynes e Marx, molto diversi in tanti aspetti, coincidono invece oltre che nel concepire il lavoro come una forza fisica o psichica applicata alla macchina, anche nel pensare che il progresso tecnico, cioè lo sviluppo delle macchine, integrato con l'impulso della domanda pubblica per Keynes o integrato con la presa dei potere da parte dei proletari per Marx, condurranno alla fine dei lavoro dell'uomo. Ci sono frasi quasi identiche in Marx e nell'esortazione e nelle profezie di Keynes e poiché quelle di Marx sono stranote, forse troppo note, preferisco citarne una di Keynes. "Il problema economico non è, se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana. Ciò che mi preoccupa è il collasso nervoso del vecchio Adamo che è in noi, troppo abituato a lavorare, che potrebbe, non appena risolto attraverso il progresso tecnico il terribile pasticcio dell'economia, un pasticcio contingente non necessario, avere appunto un collasso nervoso". Il lavoro sarà sostituito dalla macchina, il progresso della macchina sostituirà il lavoro dell'uomo. Non sono idee vecchie, sono idee che circolano ancora oggi e non circolano soltanto tra gli economisti, circolano soprattutto nei mass-media, nella testa dei giovani universitari. Per Marx e Keynes il progresso è la fine del lavoro e quindi la fine dell'economia, la fine del costo, la fine del prezzo, la fine del denaro, la fine della proprietà. In questa società, che è un eterno week-end, sia nella sua versione opulenta keinesiana, sia nella sua versione comunistico-marxista, tutti i bisogni saranno soddisfatti e non sarà più necessario lavorare. La liberazione dei laboratores è liberazione dal lavoro e dall'economia. L'ideale liberale dei moderni Keynes e Marx è l'otium dei classici. Il negotium, cioè il non ozio, il lavoro, è una contingente condizione di schiavitù, la schiavitù della terra o la schiavitù della macchina: queste sono idee che ancora oggi sono presenti nella maggioranza di noi e incidono profondamente non tanto e non solo sulle teorie economiche e sui modelli economici, ma sulle scelte organizzativi, sulle scelte politiche, sulle scelte che la gente fa pensando al posto di lavoro del proprio figlio. Chi pensa al lavoro del proprio figlio, pensa che ci sia in qualche organizzazione, nell'organico di qualche organizzazione, un posto vicino a una macchina da occupare. Trovare lavoro, dare lavoro a chi lo cerca si dice collocare, mettere in un posto, e anche l'inglese dice "allocation", allocare il lavoratore, metterlo nel luogo che qualcuno ha pensato. Mettere le persone giuste nel posto giusto. Il collocamento istituzionale o l'allocazione che secondo alcuni favorirebbe in modo ottimo il mercato, suppongono comunque sempre l'idea del lavoro come occupazione di un posto per prestare la propria forza fisica e psichica di fianco ad una macchina o a un calcolatore. E’ con queste idee che io ho incominciato a studiare il mercato del lavoro e a pensare soluzioni di politica del lavoro e soprattutto attraverso l'osservazione della realtà dei lavoro, della realtà dei lavoratori e delle imprese, ho dovuto cambiare mentalità; ho dovuto cambiarla per capire, perché questa era una gabbia concettuale che mi impediva di capire e mi impediva di fare proposte. Il modello dell'economia come una catena, una grande catena di macchine, nella quale si inserisce il lavoro come appendice, poteva forse spiegare il funzionamento del comportamento economico di alcuni imenotteri sociali come le api e io ho cominciato a divertirmi, a presentare il Tableau economique o il sistema di riproduzione semplice e allargato di Marx, ai miei studenti, nelle prime lezioni, per descrivere il funzionamento di un alveare. Si possono perfettamente descrivere la produzione, l'accumulazione, il consumo, lo scambio, i valori, anche per le api. Ciò che vale per le api, presumibilmente vale anche per l'uomo, ma non è sufficiente. Ridurre il lavoro dell'uomo a forza, significa impedirsi di capirne la natura, significa non capire, soprattutto, in questa fase di cambiamento epocale che stiamo vivendo, che cosa sta succedendo al lavoro dell'uomo e quali soluzioni si possono attuare per il lavoro dell'uomo. Ciò che mi pare più necessario è ricostruire una cultura nuova del lavoro, ma per ricostruirla bisogna ricominciare ad osservare il lavoro. E’ importante studiare l'economia, capire i meccanismi, capire gli strumenti che essa ha elaborato, per inserirli in una nuova visione del lavoro e quindi dell'economia che senza lavoro non esiste. Allora osserviamo insieme il lavoro. Nella soddisfazione del suo bisogno, l'uomo sperimenta contemporaneamente la meraviglia del godimento di un dato gratuito: il respirare, il mangiare, il camminare e insieme l'angoscia del rischio che tale godimento possa finire, della precarietà dello stesso godimento, della possibilità che la vita, che è questo godimento, possa sprofondare. Di qui nasce il lavoro. L'attività della mano che prende la cosa, ma che sospende almeno per qualche istante il godimento e anziché nutrirsene, anziché portare la cosa alla bocca, afferra il frutto e lo porta nella casa in vista della soddisfazione, nel tempo futuro, del suo bisogno. Rinviando così, almeno per qualche tempo, il rischio della morte. li lavoro del raccoglitore è presa della mano, ma nello stesso tempo è comprensione. La mano prende e comprende, la materia indistinta, il brulichio dell'elemento, come lo chiama il filosofo Levinas, diventa materia prima. Cosa durevole trasportata nella capanna, bene economico, perché suscettibile di essere impiegato per soddisfare un bisogno di domani o di dopodomani. Lavorare, dunque, è comprendere, definire, nel senso di connettere ciò che non lo era alla soddisfazione di un bisogno a un fine. Il montanaro nel bosco raccoglie il ramo caduto, lo prende, lo trasporta nella casa, potrà servire per il fuoco, per costruire un bastone, per fare una trave, per intagliare una scultura; il ramo nella foresta non è un bene, lo diventa quando l'uomo lo trasporta nella sua casa e se ne raffigura in un progetto, proiectum, il possibile uso futuro. La mano che prende, che sorprende, che comprende il dato, gli conferisce una forma, lo trasforma, lo informa, da cui l'importanza della parola informazione per capire il lavoro. Lavorare è dare forma, informare il dato, rendendolo così utilizzabile nel tempo, rendendolo bene. Lavorare è addomesticare, ad domum ducere, portare nella casa il fuoco, la fiera. Gli elementi, l'acqua, la terra, il fuoco, gli animali, non sono risorse finché il lavoro non li addomestica, non conferisce loro un nome, non li conduce nella dimora, non li definisce come beni capaci di dare soddisfazione ai bisogni dell'uomo. Beni compresi, cioè misurati dalla mano, dal pollice, dal palmo, dal braccio, le prime unità di misura; misurabili e quindi paragonabili, quindi intercambiabili, quindi scambiabili. Così nasce l'economia, l'ordine della casa come ordine delle cose che abbiamo portato nel recinto della casa, ordine nel loro impiego nel tempo futuro, ordine che è pazienza e che è patire. La fatica del lavoro è innanzitutto il rimandare il godimento, ma l'idea di addomesticamento, del portare nella casa, dello scambio dei beni introduce un altro aspetto fondamentale del lavoro: la dimora, la casa, l'oikos. Suppone il rapporto stabile tra l'uomo, la donna e i figli. Non c'è lavoro senza casa, non c'è casa, non c'è oikos senza ethos, cioè rapporto tra l'uomo, la donna e i figli; suppone cioè che ci sia qualcuno, qualcosa che non è comprensibile con la mano, che non è manipolabile, che non è riducibile a cosa, qualcuno che parla per domandare e per chiedere, che chiede di assumere il suo bisogno. Lavorare è dunque addomesticare, ma anche assumersi il bisogno dell'altro, della donna, del figlio, il bisogno futuro dell'altro, del figlio che nascerà, dei figli di cui non si conosce ancora il numero. L'altro non si può manipolare, non si può ridurre a cosa a meno di ucciderlo. Il volto dell'altro è una domanda, è una richiesta, è una domanda che m'interpella e contesta il mio possesso della cosa. Anche lo straniero, l'estraneo che si affaccia nella mia casa m'interpella e mi impone con il suo volto una scelta radicale. Il pastore arabo che ha costruito la sua tenda vicino al pozzo e che vede lo straniero affacciarsi sulla sua tenda deve fare una scelta, può guardare lo straniero come un'altra cosa oppure accoglierlo nella sua tenda, può ucciderlo, manipolarlo, rapinarlo, farlo schiavo, oppure stabilire con lui un rapporto diverso da quello che stabilisce con i suoi animali e con le sue cose: un rapporto economico, farlo entrare nella sua casa, stabilire con lui un rapporto per cui assume il suo bisogno e mette a disposizione le sue cose al suo bisogno, scambia cose con lui. Non è vero che il commercio nasce come continuazione della guerra, come diceva Colbert; il commercio è il contrario della guerra, è lo scambio. La rapina e la guerra sono l'alternativa all'economia. Non esiste una parola indoeuropea che designi il termine commercio, esiste solo una parola per indicare l'azione della rapina. Per millenni il rapporto con lo straniero era il rapporto con qualcuno che non era da rispettare ma che poteva essere rapinato, e scambiare e rapinare erano sinonimi. L'economia nasce soltanto quando l'altro, il cinese lontano, l'arabo, diventa uomo con una dignità che mi impone di farmi una domanda su quale sia il giusto prezzo, l'equivalente, il prezzo. Lo sfruttamento, l'asservimento, la rapina è negare all'altro la facoltà della parola, è chiudergli la bocca, impedirgli di fare domande, costringerlo nel proprio progetto. Il prigioniero, nudo, bestia da lavoro, non può parlare, non può domandare, l'indio, nudo in piedi, non può parlare, non può far domande, non può orare. Gli oratores sono uomini liberi, i laboratores sono la forza lavoro legata alla terra, alla macchina. Solo la scoperta della dignità invalicabile dell'altro costituisce la casa non solo come oikos, insiemi di beni, ma anche come ethos e fa sperimentare il lavoro come dialogo, come risposta alla domanda dell'altro che mi interpella, che mi contesta anche conflittualmente. Ora si può capire in che senso il lavoro dell'uomo è creativo; da un lato la sua capacità di comprendere, di definire, di addomesticare il dato, è in continuo movimento, grazie alla memoria dei segni e alla parola l'uomo può addomesticare tutta la terra, tutto l'universo. Per capire questo l'uomo ha dovuto comprendere che il mondo, il sole, la luna, la terra, l'acqua, gli animali, le piante non sono dei capricciosi e irascibili, che non si debbano turbare o disturbare scavando miniere, tracciando solchi, canalizzando fiumi, ma sono dato, dato da Dio, che l'uomo può addomesticare dandogli un nome, conferendogli una forma, la forma di un bene, è questa la prima condizione perché la creatività dell'uomo si scateni. Ma d'altra parte l'uomo ha dovuto comprendere che il suo bisogno è un bisogno senza fine; "date all'uomo tutto ciò che desidera, ed immediatamente egli capirà che tutto non è tutto", dice Kant in una lettera ad un amico. Il bisogno suo e dei suoi figli, il bisogno di tutto il mondo, la domanda espressa dal grido dei contemporanei e delle generazioni future, non è senza senso e senza ascolto. Il grido, l'urlo della miseria del mondo ha un senso perché è ascoltato da un altro. Lo stesso Signore che ha dato le cose ha impresso nel cuore dell'uomo un desiderio incolmabile, ma pieno di senso. Da questa consapevolezza nasce l'indomabilità creativa dei lavoro dell'uomo, che il monaco e il mercante medievale per primi ed unici nella storia dell'umanità hanno iniziato. Progetto delle mani e progetto di Dio, "Opus manum et opus Dei" era il lavoro del monaco. "Dignitatis memores ad optima intentia" - è una frase scritta a Praga - memori della dignità dell'uomo cerchiamo l'ottimo, questa è la creatività; e c'è un esempio preclaro che Bloch, lo storico dell'economia, ci ha aiutato a capire. La tecnica del mulino ad acqua era conosciuta dai romani, ma non fu diffusa nell'impero romano: l'imperatore, di fronte alla proposta di impiegare il mulino ad acqua per la macina, rispose che non era economico, perché non avrebbe saputo che farne degli schiavi. Il Medio Evo intorno all'anno mille aveva abolito la schiavitù, come ha dimostrato Bloch, non perché c'era stata la diffusione dei mulini ad acqua, perché questa venne dopo, ma perché la fonte della schiavitù si era esaurita. Il prigioniero, essendo figlio di Dio, non poteva più essere fatto schiavo, e nell'anno mille la creatività dei monaci invase di mulini ad acqua l'Europa. I modelli economici elaborati sulla base dell'idea del lavoro come forza, come occupazione di un posto, non capiscono la dinamica dell'economia, non capiscono il lavoro dell'uomo, perché pretendono di coglierne il meccanismo avendo definito i bisogni che invece sono indefinibili, avendone definito le tecniche che invece sono sempre in mutamento, ma più profondamente non lo capiscono perché hanno separato il lavoro dalla domanda, perché hanno spezzato l'unità profonda del labora con l'ora; così, nella pretesa di definire i bisogni, essi riducono l'uomo e possono pensare che il progresso tecnico elimini la necessità del lavoro. L'aspetto creativo del lavoro non sarà mai sostituito dalle macchine: i robot potranno manipolare materiali, i sistemi esperti possono sostituire l'uomo nella scelta tra variabili note, ma nessuna macchina potrà assumersi creativamente il bisogno dell'altro, potrà generare il bene per l'altro scoprendo nuove possibilità di risposta. E’ questo il fondamento per risolvere i problemi dell'occupazione di oggi, ed è questo il fondamento dello sviluppo che non solo non nega, ma è l'economia.
Se la macchina libererà gli uomini dalla fatica, scrive Einaudi, dalla fatica di produrre i beni usuali della vita, altri beni saranno inventati dagli uomini e li indurranno alla fatica; venga meno lo stimolo al lavoro e in poche generazioni il livello di vita dell'uomo medio discenderà rapidamente, ben più rapidamente di come si è innalzato. Questo è il limite dello sviluppo; l'inadeguatezza di una cultura, di una responsabilità degli uomini verso di sé, gli altri e il mondo, e non il limite fisico della terra o dell'universo. L'incapacità dell'uomo di assumersi responsabilmente il bisogno suo e degli altri uomini per l'eternità e di vivere come se domani dovesse morire. E una frase del Corano. Allora lavoro è intrapresa, il lavoro più umile e il lavoro che richiede il massimo di preparazione; ma il lavoro costruisce beni da utilizzare nel tempo avvenire e il futuro è imprevedibile, è incerto. Nessuno, salvo chi crede di essere il consigliere della provvidenza, lo conosce. Nuovi bisogni, nuove tecniche, nuove domande da connettere, nuove possibilità e nuovi limiti. Oggi lavorare significa battere nuove strade, intraprendere un cammino verso un futuro incerte e rischioso; lavorare oggi non è più legarsi alla terra e nemmeno legarsi alla macchina, occupare il proprio posto alla macchina o in un ufficio, ma intraprendere un percorso tra occasioni imprevedibili dove le probabilità sono sconosciute e i rischi di disoccupazione crescono in un mondo dove la diffusione tecnologica assume ritmi sempre più accelerati. Il rischio non è più solo quello di pochi imprenditori che possono fallire, ma è comune a chiunque intraprenda questo percorso; non è più possibili scambiare sicurezza e denaro, più sicurezza e meno denaro al contadino e al lavoratore dipendente, più rischio e più denaro al Signore o all'imprenditore.
Il rischio dell'intrapresa riguarda tutti gli uomini, perché non è possibile immaginare il lavoro come posto. Ma vi è un rischio più profondo che pure interessa tutti gli uomini: le nuove possibilità definite dal lavoro creativo, se hanno successo, conferiscono all'uomo nuovo potere e quindi lo rendono capace di contestare il vecchio potere; il contadino contesta il cacciatore, il mercante contesta il contadino, l'imprenditore contesta il mercante, non solo il potere dei grandi della politica o dell'economia e della finanza, ma il potere mio, tuo, del medico, dell'insegnante, della madre di famiglia. Se la forma antica di questo potere che si trasforma in dominio sull'uomo era la schiavitù e la rapina dello straniero, se la forma assunta dalla società industriale era la riduzione dell'uomo ad appendice della macchina e la rapina da parte dei ricchi sui paesi più poveri, la forma contemporanea di questo dominio dell'uomo sull'uomo, che fa degenerare il potere raggiunto dal lavoro creativo in sopruso, è la manipolazione del bisogno, è la chiusura degli spazi all'intrapresa creativa degli uomini e dei popoli. Il nuovo potere, anziché al servizio dei bisogni dell'uomo, può sempre rivolgersi contro l'uomo. Il potere nato dal successo dell'intrapresa creativa, capace di contestare la sacralità della gerarchia sociale del potere precedente, può rivolgersi sempre contro l'uomo, soffocandone la domanda, manipolandone il bisogno, impedendogli la libertà di domandare. Come difendersi dal duplice rischio del potere, dal rischio del futuro incerto, dal rischio dell'insuccesso e dal rischio ancor più profondo dell'abuso del potere, dal rischio del successo? Da sempre l'uomo affronta il rischio dell'intrapresa creativa con la solidarietà, è il senso immediato delle solidarietà che unisce quelli che sono accomunati dallo stesso lavoro e quindi dallo stesso pericolo, dice Romano Guardini in Il potere.
La naturale disposizione all'aiuto reciproco e all'integrazione nel lavoro, è la forma che l'uomo da sempre ha cercato per affrontare il rischio, non per eliminarlo, ma per poterlo affrontare; senza solidarietà non vi sarebbe intrapresa: non solo la solidarietà non è contraddittoria con l'efficienza, ma è la condizione necessaria per il lavoro e l'intrapresa. La famiglia ne è la forma originaria, ma ogni lavoro creativo teso a produrre nuovi beni, a rispondere a nuovi bisogni, a scoprire nuove risorse, genera necessariamente un tessuto di solidarietà. La solidarietà della comunità rurale, la solidarietà della comunitas dei mercanti, la solidarietà operaia contro i rischi e lo sfruttamento del lavoro industriale, la solidarietà contro il rischio della rapina e della colonizzazione. Ciò che sostiene l'uomo nel rischio del lavoro, cioè della vita, è sempre una appartenenza; l'appartenenza consente all'uomo di rischiare, la solitudine lo consegna inevitabilmente nelle mani del potere e lo blocca in un tenace conservatorismo che nasce dalla paura. La paura del nuovo getta l'uomo senza appartenenza nelle braccia del potere a cui chiede garanzie, sicurezza, nelle cui mani le masse di individui intercambiabili consegnano il proprio bisogno. Non a caso oggi si teorizza, da parte di una certa cultura radicale, la massima mobilità nei rapporti coniugali insieme con la massima stabilità del posto di lavoro. L'uomo contemporaneo deve affrontare il nuovo, il lavoro creativo, ma l'intrapresa, avendo smarrito il senso dell'appartenenza, stenta a decollare. Se pensate che miliardi di uomini sono una risorsa non valorizzata vi è da chiedersi come potenziarne, come valorizzarne, come sostenerne il decollo? Ma appartenenza a che cosa, oggi? All'impresa come vorrebbero i giapponesi? Alla classe sociale come vorrebbe l'est? Allo stato come vorrebbe anche qualcuno dell'ovest? Queste appartenenze sono state e sono anche certo forme di solidarietà nel rischio, ma sempre, inevitabilmente, si sono trasformate in solidarietà contro altre imprese, contro altre classi sociali, contro altri partiti, contro altri stati. Queste appartenenze non solo non garantiscono, ma addirittura possono esasperare il rischio del successo, il rischio che abbiamo detto essere insito nel potere. L'uomo del 2000 ha imparato dalla storia che il potere può essere usato contro l'uomo non solo dal padrone ma anche dall'operaio, non solo dal tiranno ma anche dal sindacato, non solo dallo stato straniero ma anche dai signori della politica contro i propri concittadini, non solo dal nemico ma anche dall'uomo della stessa parte. La scelta drammatica tra l'accogliere l'altro nella sua nudità o soffocarne la domanda trasformandolo in cosa, in parte intercambiabile della totalità della politica o della storia, non si consuma una volta per tutte; l'intrapresa in tutte le sue forme, dal lavoro del singolo all'iniziativa sociale, resta una avventura drammatica, oggi come ieri. L'appartenere alla civilissima Atene, alla civilissima Spagna dei '500, alla civilissima Inghilterra dell'800, non ha garantito dal rischio di trasformarsi in pirati, in conquistadores, in negrieri. La scelta di appartenere alla parte degli sfruttati, dei proletari, di coloro che hanno l'insuccesso, non ha garantito in questo secolo dal rischio di trasformarsi in torturatori e macellai peggiori di quelli che si erano abbattuti. Tanto meno la scelta di stare dalla parte del successo tecnologico ed economico, che sembra oggi, nella crisi delle ideologie, l'ultimo specchietto che attrae numerose specie di volatili del pensiero debole e forte, garantisce dall'usare l'informazione, la comunicazione, la conoscenza scientifica per un progetto di manipolazione dell'uomo, di quello già nato e di quello che sta per nascere. Neppure ci si garantisce affidandosi al potere, anzi, è la forma più patetica di consegna di sé e della propria responsabilità alla parte vincente della totalità della storia e della politica. La scelta di appartenere ad una parte o non appartenere a nessuno trasforma il dramma dell'intrapresa economica in tragedia. Solo l'appartenenza al Signore nudo e crocifisso che ci libera dal male ci può dare il coraggio della contestazione del potere che è in noi e fuori di noi. Solo l'appartenenza all'Uomo nudo, il cui volto silenzioso accoglie l'incolmabile domanda di tutti gli uomini che popolano il mondo e di quelli che non sono ancora nati, può darci la temerarietà di tentare di rispondere con il lavoro creativo al bisogno dell'uomo. Solo l'appartenenza a Cristo Risorto, che ci ha riconsegnato il mondo - tutto è vostro e voi siete di Cristo - rappresenta la compagnia adeguata alla quotidianità delle nostre opere, del nostro lavoro, fonda la nostra contingente appartenenza alla famiglia, all'impresa, alla parte sociale, o allo stato, ma rinnova quell'unità dell'ora et labora degli antichi monaci che ci dà il coraggio di affrontare la divisione del mondo. Allora possiamo capire la portata rivoluzionaria dell'esortazione che il profeta Geremia faceva agli Israeliti prigionieri e deportati, schiavi in Babilonia. Geremia non li incita a contrapporre potere all'altro potere, ma dice: costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti, cercate il bene del paese in cui vi ho fatto deportare e diventare schiavi, pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere.