EDUCARE PER COSTRUIRE CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE
Sanzioni ed embarghi:
utilità e limiti di questi strumenti
nella collaborazione fra i popoli
Giovedì 26, ore 11.30
Relatori:
Gian Guido Folloni,
Ministro dei Rapporti con
il Parlamento
Vincenzo Petrone,
Direttore Generale del Ministero degli Affari Esteri per la Cooperazione e lo Sviluppo
Staffan De Mistura,
Delegato ONU per l’Europa
S. Ecc. Mons. Diarmuid Martin,
Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace
Moderatore:
Alberto Piatti
Piatti:
Vorremmo affrontare con i nostri ospiti un tema conosciuto al grande pubblico solo per qualche titolo di giornale: in realtà è un tema che, per gli addetti ai lavori, è oggetto di un intenso dibattito."Sanzioni ed embarghi: utilità e limiti di questi strumenti nella collaborazione fra i popoli". Il titolo già suggerisce una piccola chiave di lettura: la collaborazione fra i popoli. È evidente che, con la fine della guerra fredda e la diminuzione del peso del blocco sovietico, lo strumento dell’embargo ha assunto un’importanza diversa. Anche perché il paese che sottopone un altro paese a sanzione d’embargo non ha eccessivi costi economici e politici. Il prezzo pagato invece dal popolo, oggetto delle sanzioni, è normalmente molto alto.
Chiederei ai nostri ospiti di spiegarci, dai loro osservatori, cosa sono gli embarghi dal punto di vista giuridico e degli effetti che questi producono. In un secondo momento mi piacerebbe affrontare la validità dello strumento dal punto di vista politico, e gli effetti che questo produce dal punto di vista umanitario e dal punto di vista economico.
Folloni: Porto innanzitutto il saluto del governo, anche se voglio precisare che la mia presenza qui muove innanzitutto da un mio personale interesse per approfondire la questione, anzi è una presenza che probabilmente nasce da alcune riflessioni seguite all’incontro che con gli amici dell’AVSI e con il Meeting ho avuto lo scorso anno. Ci siamo interrogati e in particolare un paradosso ha, in qualche modo, motivato la mia sollecitazione ad avere un momento di confronto, di valutazione. Il paradosso è questo: l’AVSI, il volontariato, si adopera ad alleviare le difficoltà di popolazioni, opera nelle situazioni di emergenza, di bisogno; a fronte di questo, i meccanismi che con una certa frequenza vengono oggi attivati di sanzioni nei confronti di determinate nazioni, producono i danni e le sofferenze che, per varie ragioni, il volontariato si adopera a lenire.
Nel 1995 ero stato a Baghdad e avevo visto l’ospedale dei bambini di Baghdad, che in seguito è stato oggetto anche di una documentazione da parte della Croce Rossa Internazionale sugli effetti sui bambini iracheni delle sanzioni imposte all’Iraq all’inizio degli anni Novanta, dopo la guerra del Golfo, di un embargo che dura da nove anni. Avevo visto, salendo la strada che da Baghdad conduce al Nord, verso il Kurdistan, i bambini raccogliere l’acqua del Tigri e portarla alle case, un’acqua certamente carica d’infezioni. La situazione sanitaria ha fatto un salto indietro in Iraq, a prima del 1996, e sono tornate le malattie e le infezioni che erano scomparse da decenni.
Di fronte a questa situazione, la prima domanda è: a che cosa servono gli embarghi? Producono i risultati che si propongono coloro che comminano questa sanzione? Vista da Baghdad, vista dalla doppia visita che vi ho fatto nel 1995 e 1996, la mia personale risposta era: no, non producono quel risultato. L’ONU aveva posto delle condizioni, ma il passare degli anni non aveva prodotto alcuna conclusione degli obiettivi che l’ONU si era prefisso con le sanzioni imposte all’Iraq. Il regime non ne usciva indebolito, ma anzi, rinchiuso nel suo isolamento, si rafforzava e rafforzava la propria capacità di tenuta anche coercitiva nei confronti della popolazione. Invece, in controluce, cresceva la sofferenza della popolazione, il disagio, i bambini, gli anziani, le malattie, gli ospedali che non funzionano… la prima cosa che colpisce andando a Baghdad è l’isolamento totale dell’Iraq. Si scende ad Amman e si percorrono quasi mille chilometri di deserto. È l’unica strada per arrivare in Iraq. E se un cardiopatico acuto oggi si trova a Baghdad in situazioni di difficoltà, non c’è alternativa perché non può essere curato in nessun luogo né può affrontare i mille chilometri di deserto che possono portarlo in un ospedale dove possa essere curato. Gli ospedali di Baghdad non hanno più sale operatorie che possano dirsi tali. Non si può operare al cuore a Baghdad.
La seconda domanda è: le sanzioni e, in questo caso, la più dura delle sanzioni, l’embargo, e un embargo così rigoroso, sono un’alternativa alla guerra o sono una forma della guerra? Questo credo sia un interrogativo che, anche di fronte al caso iracheno, emerge: perché la forza multinazionale, quella stessa forza che si impegnò nella guerra del Golfo, si è fermata 48 ore prima di abbattere il tiranno che veniva indicato all’opinione pubblica come il Satana di Baghdad, e si è imposto un embargo che in nove anni ha prodotto i risultati di cui sopra? Sono un’alternativa alla guerra, o sono una forma della guerra gli embarghi? Quello iracheno è un embargo particolare, perché è un embargo duro, che isola molto il paese, molto pesante nei confronti della popolazione, che dura da un tempo lunghissimo (credo sia uno degli embarghi più lunghi), globale (basti pensare che in Iraq si entra solo per questa difficile strada percorribile). La conseguenza è che, essendo l’embargo così rigoroso, finiscono sotto embargo anche prodotti o comportamenti che altrimenti sarebbero consentiti. Faccio un esempio: i voli civili non sono sanzionati dalle Nazioni Unite, però non si vola. E ha fatto scalpore il fatto che un aereo iracheno abbia portato dei pellegrini alla Mecca, perché in realtà volare sui cieli dell’Iraq è a rischio e pericolo. Gli aerei di Baghdad, gli aerei civili, sono ancora fermi: quando uno atterra ad Amman, la prima cosa che vede sono gli aerei iracheni fermi dalla fine della guerra nel Golfo.
Nel 1997 sono stato a Tripoli, altro paese sotto embargo. Un embargo più tenue, molto più tenue. Si vola a Gerba, in Tunisia e da qui si arriva in Libia. Tripoli è piena di auto coreane e di tecnologia americana. Quindi, c’è embargo ed embargo, quindi, quando parliamo di sanzioni e di embargo, la prima cosa che dobbiamo anche considerare è che c’è una forma diversa di applicazione delle sanzioni. Quello libico è nato con Lockerbie e con Lockerbie si conclude. Il giorno in cui i due imputati per l’attentato di Lockerbie vengono consegnati alla Comunità Internazionale, le sanzioni nei confronti della Libia, in quello stesso momento, vengono a cessare.
Nascono dunque altre domande: chi ha deciso la sanzione? C’è un’autorità che decide le sanzioni e la misura delle sanzioni? Chi controlla l’applicazione delle sanzioni e chi si erge ad interprete del testo sanzionatore emanato dall’autorità che ha sanzionato? La domanda esiste perché, ad esempio, nei confronti dell’Iraq, una interpretazione in qualche modo estensiva della sanzione nei confronti di questo paese ha portato gli Stati Uniti d’America a dichiarare zona il cui volo non è consentito una parte del paese; e in quella zona, oggi, sempre con una interpretazione estensiva del mandato delle Nazioni Unite, gli americani e gli inglesi, bombardano ogni giorno (sistematicamente). Chi applica e chi controlla, chi decide l’efficacia se la sanzione sta producendo gli effetti e se protrarla nel tempo o se condurre invece a conclusione la sanzione? Chi ne decide in qualche modo la fine? E una domanda aleggia sotto tutti questi interrogativi; perfino la guerra si è data a suo modo dei criteri etici, laddove invece la Convenzione di Ginevra, il trattamento dei prigionieri, le sanzioni e gli embarghi fluttuano in un mare di ambiguità e di indeterminazione: hanno un labile ancoraggio nel diritto internazionale e non hanno precisi confini etici a cui fare riferimento. Anche durante i conflitti, quando ci sono emergenze sanitarie, la Croce Rossa Internazionale vola e soccorre chi si trova in difficoltà. Questo a Baghdad non accade durante l’embargo. E ancora una domanda: di fronte ad un embargo, così duro come l’embargo iracheno, ma potrebbe essere l’embargo libico (i coreani sono entrati in Libia durante l’embargo comminato alla Libia), c’è chi perde, ci sono danni che si producono al paese, alle popolazioni, ma c’è anche chi guadagna? Ad esempio, la mancata estrazione della quota OPEC da parte dell’Iraq, a favore di chi va?
Io non credo, e concludo qui questo mio intervento che diventa a questo punto, quasi una provocazione, che si possa dare una risposta generale alla questione degli embarghi e delle sanzioni; per quello che ho visto, per i due casi che ho citato, ci sono situazioni molto diverse, ma ritengo complessivamente l’uso di questo strumento inefficace, immorale e anche in qualche modo ipocrita. Certamente gli embarghi, e il caso della Libia mi pare emblematico, funzionano quando vengono posti obiettivi precisi e definiti, definiti nel contenuto e nel tempo; nel momento in cui si producono determinati effetti, l’embargo viene a cessare: alla consegna dei due imputati, le sanzioni sono state immediatamente sospese. Quando cioè prevedono chiaramente il meccanismo di levata delle sanzioni. Il caso della Libia, ma anche il caso dell’Iran; la vicenda Mikonos, il ritiro degli ambasciatori, la chiusura delle relazioni con l’Iran, iniziano in aprile e si concludono di fronte a gesti precisi compiuti da Teheran in dicembre. Un tempo limitato, precise indicazioni dei meccanismi di levata e gli effetti vengono raggiunti. Invece gli embarghi non funzionano e divengono moralmente inaccettabili se hanno obiettivi troppo vasti e vaghi, quasi del tutto indeterminati. Questo è il caso dell’Iraq, dove la richiesta che viene fatta sembra non essere tanto un preciso comportamento da parte del governo in carica nel paese sottoposto alla sanzione, quanto la volontà di mantenerlo isolato, o addirittura qualcos’altro. Da un lato si chiede a Baghdad di adempiere agli obblighi in materia di disarmo, dall’altro gli USA non hanno mai fatto mistero che il loro obbiettivo è rovesciare Saddam. Cooperazione e sanzioni sono dunque come carote e bastone; nelle relazioni internazionali e nel diritto internazionale occorre che si getti uno sguardo e si dia un giudizio sull’uso delle sanzioni e degli embarghi.
Petrone: Prima di tutto vorrei molto rapidamente far capire cosa sono gli embarghi e le sanzioni, senza trascinare in una definizione tecnico-giuridica del termine sanzione. Sappiamo istintivamente di che cosa stiamo parlando, stiamo parlando di una scelta: la comunità internazionale nella sua interezza attraverso degli organi rappresentativi come il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o anche attraverso singoli paesi, come per esempio gli Stati Uniti, decidono di isolare economicamente o in parte un determinato paese
È molto importante tuttavia distinguere un tipo particolare di sanzioni: quelle che vengono comunemente definite sanzioni multilaterali, che possono essere imposte unicamente da alcuni organi decisionali come il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che hanno una specifica competenza che gli deriva dalla convenzione internazionale che è quella che ha dato origine alla Carta di San Francisco e alla Carta delle Nazioni Unite. Quindi oggi l’unico organismo sovranazionale che ha competenza a imporre delle misure sanzionatorie è il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Tuttavia accanto a questo schema abbastanza lineare e quasi ovvio, c’è la pretesa di un certo numero di paesi, e in particolare degli Stati Uniti d’America, di imporre delle sanzioni unilaterali che riguardano unicamente scelte politiche di un soggetto internazionale, in un caso specifico, per esempio, gli americani.
Fatta questa distinzione tra sanzioni multilaterali e sanzioni unilaterali, bisogna anche distinguere tra sanzioni totali o parziali, sanzioni dirette o indirette. Le sanzioni totali o parziali sono evidenti: le sanzioni totali ormai praticamente non esistono più, non ci sono esempi recenti, nel senso che quasi tutte le misure sanzionatorie prevedono delle eccezioni per medicinali, cibo, e così via. Bisogna invece distinguere tra sanzioni dirette e sanzioni indirette. Le sanzioni dirette sono quelle che riguardano specifici soggetti di una comunità statuale, per esempio cittadini di un certo paese ai quali si conviene di rifiutare il visto; o organismi, banche di determinati paesi con i quali si conviene di non condurre affari, e così via. Le sanzioni indirette sono quelle che riguardano un paese nel suo complesso, e quindi tutti coloro che in quel paese vivono, che appartengono a quel paese per nazionalità.
Devo anche dire che purtroppo la bibliografia italiana su questa materia è molto ridotta. Essenzialmente oggi, in termini di ricerca, di diritto internazionale, coloro che fanno dei lavori originali su questo tema sono soprattutto gli studiosi americani.
Vorrei ora attardarmi qualche minuto nella descrizione di quello che è accaduto in due grandi periodi della storia delle relazioni internazionali che, dal punto di vista del tema che stiamo affrontando, io cercherei – forse forzatamente – di delimitare: il primo fino al secondo conflitto mondiale; e il secondo periodo dal secondo conflitto mondiale ai nostri giorni. La distinzione che vi vorrei invitare a fare è questa: mentre la fonte del diritto internazionale primaria, in base alla quale si imponevano le sanzioni fino alla seconda guerra mondiale, era essenzialmente la Carta fondamentale della Lega delle Nazioni, dalla seconda guerra mondiale in poi, con la creazione delle Nazioni Unite, anche la fonte di legittimazione primaria è cambiata, ed è diventate la Carta delle Nazioni Unite. Tra questi due strumenti, tra la Carta fondamentale della Lega delle Nazioni e la Carta delle Nazioni Unite, c’è una differenza importante. Nella carta della Lega delle Nazioni lo strumento della sanzione era considerato essenzialmente un atto di guerra, che voleva essere uno strumento diplomatico ed aveva un fine molto preciso, quello di prevenire o di arrestare una aggressione di tipo militare. Quindi aveva una delimitazione, anche concettuale, abbastanza netta. Qui in Italia ne abbiamo fatto esperienza nel 1935 quando, per effetto della guerra in Etiopia siamo stati oggetto di sanzioni da parte della Lega delle Nazioni, sanzioni alle quali, peraltro, gli Stati Uniti non parteciparono. Con la Carta delle Nazioni Unite l’evoluzione è stata in senso espansivo, ma non perché la Carta delle Nazioni Unite prevedesse i casi per i quali le sanzioni si potevano applicare, ma perché la Carta delle Nazioni Unite lascia al Consiglio di Sicurezza un ampio margine di discrezionalità nell’utilizzazione di vari strumenti, tra i quali le sanzioni, per far fronte a delle crisi internazionali. Il risultato è stato che nel periodo 1945-1990, il Consiglio di Sicurezza ha applicato le sanzioni unicamente due volte: nel periodo 1990-1998 il Consiglio di Sicurezza ha applicato le sanzioni undici volte. C’è dunque un escalation nella utilizzazione di questo strumento.
Ma c’è un’altra differenza importante che vorrei sottolineare: nella chiarezza concettuale dell’utilizzazione delle sanzioni prima della seconda guerra mondiale c’era una relativamente semplice assimilazione concettuale dello strumento delle sanzioni con una forma classica, forse più vecchia della guerra totale, che è la guerra d’assedio. Di fatto la sanzione totale nei confronti di un governo non si differenziava granché da quello che era l’assedio e che quindi portava ad un isolamento, di una certa comunità – che fosse una comunità statuale o una comunità più piccola è relativamente irrilevante sul piano concettuale – ma l’essenza era che, così come in un assedio si impediva ad un’intera comunità di avere accesso al mondo esterno, così con le sanzioni si cercava di isolare una comunità di tipo statuale per impedire che la leadership di quel paese continuasse a svolgere delle attività di aggressione militare che stavano svolgendo loro. In questa logica di assedio, evidentemente noi ci troviamo di fronte a dei dilemmi etici. Il primo, fondamentale dilemma etico sul quale ci dovremmo pronunciare è se il principio stesso di sanzione, in quanto principio assimilato alla guerra di assedio, sia un principio che si avvicina a quello che uno studioso americano che ha scritto molto su questo tema, chiama "il principio della giusta guerra". Il principio della giusta guerra è un principio abbastanza elementare: ci sono guerre che occorre fare in difesa di alcuni diritti umani, che però vanno condotte secondo certi principi. Guardate per esempio la Convenzione di Ginevra: la guerra giusta distingue tra il civile e il militare, tra il militare armato e il militare disarmato, tra il militare prigioniero e il militare ancora operativo sul teatro di guerra, e via discorrendo; ci siamo dati delle regole anche per realizzare una forma di guerra giusta. Nell’assedio – e quindi nelle sanzioni – tutto questo non accade. Non accade perché, non soltanto la sanzione non distingue tra chi commette l’atto che si vuole impedire e chi, invece, viene punito per effetto di quell’atto ma, esattamente al contrario penalizza molto di più – come è dimostrato storicamente – chi non ha commesso nulla di criticabile rispetto a chi, invece, ha la responsabilità di un atto di aggressione, di una violazione dei diritti umani che, con le sanzioni, si vogliono punire.
Un ultimo commento. Occorre notare, a titolo di pura speculazione intellettuale, l’evoluzione del concetto, in questi cinquant’anni, della guerra d’assedio, e della sanzione. Mentre, fino alla guerra del Vietnam, era comunemente accettato che un paese che volesse intervenire in una situazione di crisi dovesse mettere in programma la possibilità di intervenire militarmente e quindi di subire delle perdite di vite umane nei propri ranghi, tra i propri militari; successivamente, soprattutto negli ultimi anni, con la guerra in Iraq, ma ancor di più con la guerra per il Kosovo, si sta affermando l’utopia che sia possibile una guerra senza perdite umane nei ranghi di chi la conduce. Le sanzioni avranno – a mio modestissimo modo di vedere – un revival molto importante nei prossimi anni proprio perché danno muscolo a questo concetto: che sia possibile realizzare operazioni di ostilità, di conflitto, senza mettere a rischio la vita dei propri ragazzi in divisa. Un’ultima annotazione: pensate all’assedio di Sebastopoli, alla guerra in Crimea, in cui Cavour, non soltanto mandò i bersaglieri per essere presente, e per avere qualche morto da poter rivendicare al tavolo della pace, ma addirittura ci mandò, a capo dei bersaglieri, il principe ereditario Carlo Alberto. Pensate agli stessi americani che in Vietnam hanno avuto 60.000 morti: si può discutere sulla fondatezza morale della motivazione della partecipazione americana a quel conflitto, ma non si può discutere il fatto che l’America di quegli anni era disposta a subire, nel proprio interno, una terribile polemica politica, una lacerazione nel tessuto sociale fondamentale; e allo stesso tempo era disposta a mandare 350.000 uomini sul teatro di guerra e subire 60.000 perdite di vite umane. Tutto questo, con la cosiddetta casualty free war – di cui abbiamo visto un esempio adesso in Jugoslavia –, non si sta più verificando, e in questa ottica lo strumento delle sanzioni potrebbe diventare sempre più appetibile come strumento di controllo e di governo delle relazioni internazionali.
De Mistura: Il mio compito non è quello di applicare le sanzioni; anche il vigilare è stato ben diverso da quello che si potrebbe pensare. Io credo di avere vissuto sulla mia pelle ed aver visto da vicino cosa sono le sanzioni, e aver – grazie ad alcune iniziative molto recenti – tentato disperatamente di attenuarle, ma non sempre con efficacia.
Faccio un esempio pratico: sono andato in Iraq, portando con me le mie due bambine e mia moglie, perché mi avevano assegnato l’idea di lanciare l’iniziativa che si chiamava "Petrolio per cibo", "Oil for Food", che era un tentativo – e tuttora rimane l’unico tentativo – di attenuazione chirurgica delle sanzioni. Quando le sanzioni sono globali e lunghe, e terribili come nel caso dell’Iraq, si può trovare una formula affinché coloro i quali non dovrebbero essere puniti possano essere raggiunti da ciò che manca loro, e che non siano come sempre le vere vittime. Questa iniziativa prevedeva in sostanza di vendere il petrolio iracheno, comprare con quel petrolio cibo, medicinali, altro tipo di assistenza umanitaria, e garantire che arrivassero alla popolazione. Dovendo dunque affrontare questa operazione, decisi di portare con me le mie due bambine e mia moglie anche se non era permesso, e fu l’unico, vero, grosso privilegio che imposi in quanto capo dell’operazione, e mi fu accordato. Era indispensabile: sette mesi di assenza vuol dire una eternità. E poi la famiglia eravamo noi, anche se l’avventura era rischiosa, ma giusta. Il risultato, comunque, fu la capacità di capire cos’erano queste sanzioni, non in teoria, non per scritto, non in cifre, ma sulla pelle. Non dimenticherò mai l’angoscia che provai, insieme a mia moglie, quando mia figlia ebbe una otite, una banalissima otite, e urlava di dolore, e specialmente non dimenticherò la difficoltà di trovare un facilissimo, banalissimo prodotto che si mette nelle orecchie e che ferma il dolore e l’infezione. Non sapevo cosa fare, ed ero il capo dell’ONU in Iraq, ma non avevo un indirizzo di una farmacia dove trovarlo. Dopo quarantotto ore lo trovai, perché ero privilegiato, perché potei chiedere ad un collega che veniva da fuori di comprarlo in Kuwait, a pochi chilometri di distanza. Analogamente, non dimenticherò mai il senso di angoscia nell’assistere alla operazione, senza anestesia totale, solo locale, di una collega che aveva avuto una urgenza e che noi non potevamo trasportare; o quando un collega iracheno ebbe un infarto, e lo portammo per undici ore in macchina sperando che ce la facesse. E questi erano tutti casi speciali in cui io potevo intervenire e avevo diritto di intervenire, ma nei casi generali, dell’iracheno comune, no.
Questa esperienza non può non avermi marcato, e mi ha fatto porre delle domande, che sono le domande che ci poniamo tutti. Se è vero che le sanzioni sono imposte, ed esistono, vediamo i fatti: anzitutto, le sanzioni sono decise, in termini multilaterali, dal Consiglio di Sicurezza, e quindi devono essere, almeno, approvate da tutti i membri del Consiglio di Sicurezza, perché basta uno che potrebbe metterlo fuori gioco; il secondo fatto è che c’è stata, negli ultimi anni, una tendenza a reagire nei confronti di un governo che si comporta male, o di una nazione che esce fuori dalle righe, come prima reazione, con le sanzioni. A chi le abbiamo applicate, noi comunità internazionale?
In termini economici completi, all’Iraq, ad Haiti, e al Sud Africa; per altre nazioni, invece, come Sierra Leone, Liberia, erano puramente armi; per la ex-Jugoslavia, on ed off, con entrate ed uscite, sia in armi che completamente economiche; alla Libia specificatamente diplomatiche, di trasporto, per un caso specifico. Come vediamo, abbiamo una pluralità di applicazioni. Hanno avuto degli effetti – cerco, adesso, di dimenticarmi dell’otite di mia figlia, per un attimo, e pensare all’aspetto puramente tecnico –: credo di poter dire che, se un giorno si scriverà un libro bianco sulle sanzioni, il risultato sarà molto poco soddisfacente, in termini di pura tecnicità, di risultati. Gli unici casi, in cui io personalmente – ero laggiù ad Haiti – ho visto il risultato della sanzioni, in cui sono diventate veramente chirurgiche, è stato quando erano accompagnate da un cocktail di altre iniziative, tra cui anche un’eventuale minaccia di un intervento, di una forza militare. Il caso classico è Haiti: ci ricordiamo, forse, quando dopo un lungo periodo di sanzioni, i personaggi che gestivano Haiti – che non erano personaggi molto raccomandabili – stavano benissimo, molto contenti, erano tra i più grossi importatori, in borsa nera, di quello che, in fondo, era proibito, quindi addirittura si arricchivano. Quando cominciarono a sentire, leggermente, un certo dolore, in termini almeno psicologici? Quando passò, tardi e alla fine, una sanzione specifica che impediva loro e ai loro figli di andare a scuola o in viaggio a Miami, che bloccò i loro conti bancari, che gli impediva di andare in vacanza a Parigi o a Londra. A questo punto, non erano contenti, erano leggermente irritati, cominciava a toccarli da vicino, potevano guadagnare quello che volevano, nell’importazione illegale di whisky o di cibo, ma non potevano spenderlo. Quando poi gli fu detto: "Attenzione, sta per avvenire un intervento militare", la combinazione del viaggio non avvenuto a Miami, delle belle vacanze non fatte a Miami o a Palm Beach, e il fatto che stava per avvenire un intervento militare, fece quello che ci ricordiamo, accettarono di partire. E si trovano tranquillamente in una lunga vacanza isolata. Un giorno, la Corte Penale Internazionale dovrebbe ricordarsi di loro.
Non ho visto altri casi di sanzioni chirurgiche, eccetto forse recentemente il caso della Libia. Non era il chiedere la caduta del regime, che in realtà è molto difficile ottenere perché il regime per definizione vuole mantenersi e quindi è pronto anche a sacrificare la sofferenza della propria popolazione.
Se le cose sono così, quali effetti – a parte i non effetti di efficacia tecnica – hanno prodotto le sanzioni? Hanno prodotto – quello che ho visto in Iraq – è che a volte non è proprio immediato, l’effetto del cosiddetto compounded effect. Nove anni di sanzioni non sono soltanto nove anni in cui è difficile trovare tutto, ma sono anche nove anni in cui non si sono riparate delle strutture ospedaliere, dove non si sono riparati i filtri dell’acqua; dopo due o tre anni le cose ancora funzionano, ma dopo cinque, sette, nove, comincia a degradare tutto. Nove anni in cui non si può avere un contatto tecnologico con know how esterno; da qui nasce chiaramente un senso di isolamento, gli abitanti non sanno quali sono le ultime cure di chemioterapia, non hanno potuto fare un viaggio in Austria, in Germania, negli Stati Uniti e aggiornarsi. È come se fossero nel Medioevo. Questo ulteriore effetto compounded non è visibile e non è quantificabile. Inoltre, il tessuto sociale comincia a sfracellarsi, a distruggersi perché la gente è a caccia di sopravvivenza, il regime non crolla, anzi si rafforza. Perché più ti preoccupi di sopravvivere, di trovare cibo o di trovare lo sciroppo per la tosse, meno ti occupi di partecipare alla vita politica e più sei dipendente da questo.
Cosa dobbiamo dunque fare quando c’è un governo, un regime, una persona che si comporta pessimamente, o addirittura produce orrori? È deciso che la prima reazione sia quella delle sanzioni. Quindi anche se non ci piacciono epidermicamente, anche se non le vogliamo, se vengono decise dobbiamo comunque trovare una formula, altrimenti facciamo di nuovo l’ostruzione nei confronti delle sanzioni. Quello che mi permetto di proporre è un cocktail di iniziative.
In primo luogo, occorre che le sanzioni vengano decise dal Consiglio di Sicurezza, che rende la decisione già molto più profonda; in secondo luogo, che quando vengono decise le sanzioni siano soprattutto sulle armi, che di fatto sono quelle che hanno avuto una certa efficacia, e che quando sono economiche abbiano degli obiettivi molto precisi, dei tempi molto precisi e degli obiettivi pubblici. In terzo luogo, la sanzione deve essere parte di una strategia e non semplicemente una reazione quasi epidermica di rabbia e di punizione. Si deve partire da una strategia e in questa strategia comprendere non solo le sanzioni ma gli incentivi che possono fare miracoli. Inoltre, è necessario che ci sia un monitoraggio da parte delle Nazioni Unite su richiesta del Consiglio di Sicurezza su quale è la "temperatura" della popolazione. Quando si fa una cura di chemioterapia dobbiamo cercare di raggiungere le cellule cattive, non quelle buone, e cercare di curarle se possibile. Dobbiamo vedere quante cellule buone stanno soffrendo, altrimenti dobbiamo interrompere o modulare la cura: lo stesso è valido nei confronti di una popolazione. Un altro elemento è quello che avevo cercato di lanciare e che ha prodotto degli effetti: "Oil for Food". Una iniziativa di assistenza specifica internazionale alle potenziali vittime collaterali, visto che parliamo di bombardamenti. Per fare questo, si deve creare un fondo. Se a questo aggiungiamo l’accelerazione della creazione della sospirata Corte Penale Internazionale – che si sta muovendo in termini virtuali – avremo un elemento di contenimento a chi in futuro può essere tentato di diventare orribile e di vivere sul massacro dei propri cittadini o sull’attacco dei propri vicini di casa. E quindi anche questo diventerebbe uno degli elementi di incentivo e di prevenzione. Solo così potremo parlare di sanzioni senza sentire la coscienza sporca.
Martin: Il capitolo sulle sanzioni internazionali è uno dei capitoli ancora da completare nel lessico del diritto internazionale. Sarà bene allora cercare di delineare alcuni criteri etici, giuridici, anche istituzionali, per valutare l’utilità, l’efficacia, di questo strumento che è uno strumento di pressione e di coercizione. Alla domanda: è alternativa alla guerra o a una forma di guerra?, si risponde con una difficoltà. La difficoltà è che certamente le sanzioni per essere efficaci devono essere coercitive. Sono stato invitato a un convegno in Gran Bretagna dal titolo Le sanzioni non violente nel diritto internazionale. E la prima cosa che abbiamo dovuto decidere è che le sanzioni non sono non violente, al massimo sono non militari. Però un elemento di violenza è necessario per avere questa capacità di – per usare le parole del Santo Padre – fermare la mano di un aggressore. Nel sistema internazionale avremo sempre la necessità di avere a nostra disposizione degli strumenti. Allora le sanzioni costituiscono un elemento efficace e utile in questo.
Appartengo alla generazione che è stata molto entusiasta delle sanzioni, soprattutto nel periodo che ha seguito la guerra fredda, nel periodo dell’ottimismo del nuovo ordine mondiale. Però un nuovo ordine mondiale che non è riuscito ad essere tutto quello che doveva essere. Un nuovo ordine che è molto più selettivo, nella imposizione di misure. Io uso la parola selettivo e non ipocrita, che è stata utilizzata da altri, ma è un fatto che si impongono le sanzioni in maniera selettiva. Io ero entusiasta perché sembrava, con le sanzioni, aprirsi una nuova strada nell’interpretazione anche del capitolo settimo della Carta delle Nazioni Unite: la violazione sistematica dei diritti umani all’interno di un paese, veniva inclusa tra i criteri di minaccia alla pace e alla sicurezza. L’idea di avere uno strumento nuovo che si situava tra la diplomazia con le sue debolezze e la guerra con la sua violenza, sembrava una cosa positiva ed è stato salutato con entusiasmo da molti. Ma l’entusiasmo nella vita internazionale non è necessariamente la via più indicata per raggiungere ciò che l’ambasciatore De Mistura chiamava la tecnicità del verificare l’efficacia o no di questi strumenti. Inoltre, l’entusiasmo è legato al fatto, che anche il Ministro Petrone ha notato, che le sanzioni offrivano la possibilità di un nuovo metodo di coercizione a basso costo economico e a basso costo in vite umane per chi desiderava imporsi.
Forse sarebbe bene ricominciare a fare un score cart, dare un punteggio a diversi aspetti di questo fenomeno. Per esempio, per essere efficaci le sanzioni, quali sono le cose necessarie? Questo strumento risponde si o no a questo? Le sanzioni richiedono chiarezza riguardante l’obiettivo. Le sanzioni richiedono la collaborazione dell’intera comunità internazionale. L’assedio con delle porte laterali non è più un assedio; in zone del mondo dove non esistono sistemi doganali anche in tempo di pace, avere un assedio in quel contesto significa lasciare le porte laterali aperte ai contrabbandieri, che sono molto spesso ciò che le sanzioni vogliono colpire. O la chiarezza riguardante l’obiettivo: il problema difficile da evitare è che le sanzioni abbiano degli obiettivi nascosti.
Stiamo trattando anche di strumenti politici nelle mani delle grandi potenze. Spesso le sanzioni cominciano ad acquisire vita propria, ed è molto difficile porvi termine, o adattare le sanzioni alla luce della esperienza. Spesso le sanzioni sono sostituite in maniera diversa dai paesi, sono a due velocità, alcuni paesi che sono molto entusiasti, altri meno. I meccanismi di organizzazioni della Commissione sulle sanzioni richiedono che tutti i paesi agiscano più o meno per consenso, e quindi anche un solo paese è in grado di ostacolare un cambiamento di un regime di sanzione una volta applicato. Molto spesso, dallo scopo originale di cambiare la politica di un regime si arriva a quello di sostituire il regime: il meccanismo delle sanzioni non è adatto a questo, e se quello è il nuovo scopo le sanzioni andranno avanti per sempre. Quando lo scopo diventa nella mente di alcuni, quello di indebolire un regime, uno scopo di per sé assai vago, il risultato è che lo scopo delle sanzioni diventa quello di mantenere le sanzioni ad ogni costo. Anche su questo criterio della chiarezza dell’obiettivo le sanzioni diventano uno strumento abbastanza difficile da valutare.
Ma sono soprattutto le conseguenze umanitarie delle sanzioni che colpiscono l’opinione pubblica per la loro gravità: le statistiche dell’Unicef di questi giorni sulla situazione della salute dei bambini in Iraq dimostrano gli effetti veramente brutali di questo strumento, anche per il fatto che hanno una tendenza a colpire le popolazioni innocenti in maniera più drammatica anche della guerra stessa. Qualche volta le sanzioni sono una forma di morte lenta, e un intervento militare chirurgico potrebbe portare meno morte, o una morte almeno più rapida. Bisogna sottoporre le sanzioni alle stesse norme di diritto internazionale, di un’azione di guerra. Sono le norme della protezione del diritto umanitario e anche le norme riguardanti questi fondamentali indicatori di sviluppo sociale; ogni popolo, ogni persona ha un diritto a ciò che è necessario per il suo sviluppo personale, per la sua sicurezza personale. Qualsiasi misura, anche se adottatA dal Consiglio di Sicurezza deve anche proteggere questi diritti fondamentali. Il Consiglio di Sicurezza non può considerarsi dispensato dall’obbligo di veder garantito la protezione del diritto umanitario internazionale. Se bombardare e distruggere il sistema di approvvigionamento dell’acqua di un paese è una violazione del diritto umanitario internazionale, un sistema di sanzioni che blocca l’accesso all’acqua pulita e ai meccanismi necessari per mantenere questo elemento essenziale è anche una violazione dello stesso diritto umanitario. Se bombardare un ospedale è una violazione grave del diritto umanitario, porre gravi ostacoli al funzionamento del sistema sanitario di un intero paese entra anch’esso nel rispetto o non rispetto del diritto umanitaro.
Sarebbe interessante vedere, io ho dato soltanto alcuni spunti, che praticamente questo strumento che in teoria sembra molto utile, in pratica ha portato dei risultati poveri per quanto riguarda il raggiungimento dell’obiettivo e forse anche molto negativo per alcune conseguenze.
Piatti: Come conclusione, sottolinerei i punti che l’ambasciatore De Mistura ci ha dato come possibili correttivi dello strumento, non dimenticando però che l’embargo, all’origine, è una decisione politica e viene applicato selettivamente, come ha evidenziato monsignor Martin, in alcune situazioni ed in altre no, dove ci sono anche evidentemente, sottintesi pesanti e importanti interessi economici e strategici. Che ci sia un organismo sovranazionale che imponga le sanzioni, che sia prevalentemente indicato o abbia come obiettivo gli armamenti e preveda sanzioni economiche chirurgiche. L’ONU, che deve vigilare sulle sanzioni stima che 40.000 bambini sotto i cinque anni muoiono ogni anno in Iraq, per rimanere all’esempio citato e 50.000 adulti, soprattutto anziani: sono effetti molto devastanti.