giovedì 30 agosto, ore 15.00
CESARE PAVESE
Presentazione della mostra.
Partecipa:
Fabio Pierangeli
Docente presso la seconda Università di Roma, Torvergata
Modera:
Claudio Marchetti
C. Marchetti:
Buon pomeriggio a tutti. Io credo che tra i luoghi più interessanti, più vivi, più belli di questo Meeting, non possiamo sicuramente non annoverare la mostra su Cesare Pavese, biografia per immagini. Lo scopo del Meeting nel collocarla nell'ambito dell'Ammiratore, nasce proprio dal desiderio di cercare di capire di più di questo personaggio, che tanto ha appassionato e tanto appassiona oggi. La mostra è stata curata, realizzata, ideata da Fabio Pierangeli, che lavora presso la cattedra di Storia della letteratura moderna e contemporanea della seconda Università di Roma, Torvergata, cattedra diretta dal professor Enrico Giacheri.
F. Pierangeli:
Grazie. Volevo sottolineare che molto spazio sarà dedicato alla lettura dei testi di Pavese sia da parte mia che da parte naturalmente degli attori. Infatti, si è molto parlato in quest’estate pavesiana, dopo un lungo silenzio su Pavese, però pochi hanno letto i testi, si sono confrontati con quello che effettivamente ha scritto. Mi sembra così che il primo compito sia quello di farci investire dai suoi scritti, forse è più utile a volte il silenzio di fronte a qualcosa di così vero e profondo, come lo sono i testi di Pavese, che non tanti commenti. Ecco, questa è l'estate di Pavese, sicuramente. Il caso di Pavese è riesploso in varie occasioni, su vari giornali, però di tutto quello che è stato detto su di lui, la cosa più interessante mi sembra l'abbia detta Geno Pampaloni, che è uno dei più attenti critici di Pavese. Ha cominciato a scrivere su Pavese subito dopo la sua morte, fino agli ultimi saggi. Vorrei leggervi questa sua frase, tratta dall'intervista dal Sabato: "Le pagine di Pavese sono lo specchio di una solitudine tragica, in cui l'unico interlocutore, ma impossibile, è Dio. Quella solitudine può essere riempita solo dalla Grazia, e Pavese lo sapeva". Sono due i termini di quest’affermazione: la solitudine tragica e la grazia. Ma cos'è la solitudine tragica e cos'è la grazia? Molti critici, fra cui in testa Moravia, additavano Pavese come uno che non riusciva a stabilire rapporti umani, come uno cui era impossibile stare vicino, perché all'improvviso arrivava alla disperazione, era uno che non sapeva costruirsi una vita, una famiglia. E si rinchiudeva sempre più in se stesso, si rinchiudeva sempre più nella solitudine, quella che Pampaloni chiama una solitudine tragica. Ma c'è invece in questa solitudine un elemento positivo, qualcosa di profondo e d’umano. Dice un altro critico, Dominique Fernandez, di cui alcune pagine non sono del tutto accettabili, che invece la solitudine per Pavese era una necessità esistenziale. Io sono d'accordissimo con questa frase che vuol dire appunto: per tessere rapporti umani, per andare incontro all'altro uomo, per non essere soli, bisogna, con una parola che Pavese usa moltissimo, aver toccato il proprio destino. "La Luna e i falò", guardate quante volte si ripete la parola toccare qualcosa, essere qualcuno. Si ripete anche nei racconti, si può vedere nella mostra nei primi pannelli dedicati alla Langa. "Io sono venuto qui in questo paese, perché forse qui sono qualcuno, perché forse qui mi è toccato un destino". Tantissimi personaggi pavesiani vivono questa solitudine, questo rapporto, e questa è la grande scoperta di Pavese, che non si può eliminare. La solitudine è un rapporto a tu per tu con il destino, non si può andare verso l'altro uomo se prima non ci si è scontrati, se prima non si è toccata, ma come uomini cioè nella solitudine, il proprio destino. Ecco questo per me è il senso della solitudine tragica e inevitabile di Pavese. Può rispondere solo la grazia di Dio. Diciamo subito che Pavese ha soltanto, e non si può nemmeno dire perché il mistero del cuore dell'uomo è insondabile, comunque, almeno cattolicamente, ha solo sfiorato, forse con l'intelligenza, cosa sia la grazia. Non vogliamo fare di Pavese un cattolico, anche perché non sta a noi decidere, però lui sapeva che la grazia non è qualcosa di strano, ma è qualcosa che accompagna la vita. Ne la "Bella Estate", un personaggio Poli; dice: "Io chiamo Dio l'assoluta libertà e certezza, non mi chiedo se Dio esiste, mi basta d’essere libero, certo e felice come lui".
La presentazione della mostra continua attraverso la lettura d’alcuni brani tratti dai "Dialoghi con Leucò" che fanno luce su alcune delle "immagini" "nosta1gie" della vita di Pavese: la donna e il mondo degli affetti, l’arte e il lavoro dell’uomo, il Mistero e la religione. Ogni lettura è preceduta dal commento di F. Pierangeli.
Nel dialogo tra Orfeo e Bacca, Pavese stravolge il mito greco di Orfeo ed Euridice. Vi si dice che Orfeo non è andato nell'Ade per riprendere Euridice, perché non si cerca una donna, perché una donna tutt'al più è una stagione della vita, la stagione passa e rimane il dolore per le cose che iniziano in maniera grandiosa e che poi vacillano, si sfasciano. Orfeo non è andato lì per riprendere Euridice, perché poi sarebbe successo nuovamente, sarebbe successa nuovamente la morte, la separazione, ma è andato nell'Ade soltanto perché cercava il mio destino, e la donna non è, e non può essere totalmente il destino. Ecco quindi la frase che abbiamo messo accanto alla figura della donna, a Costance, l'ultima donna di Pavese, la donna americana: "Non ci si uccide per amore di una donna, ci si uccide perché ogni amore, qualunque amore ci rivela la nostra inermità, nudità, nulla". Ogni amore. E l'amore non è solo quello per una donna, è per esempio la partecipazione alla politica, l'affetto, l'amicizia, l'impegno sociale, però ogni amore ci rivela la nostra inermità, nudità nulla. Segue la lettura del dialogo tra Orfeo e Bacca. Leggeremo ora "Le Muse", che parla dell'arte e del lavoro dell'uomo. Se si pensa alla propria vita, in alcuni attimi si è stati contenti, soprattutto nell'attimo dell'infanzia, in cui tutto è speranza, perché il bambino crede ancora di poter realizzare i sogni, e quindi realizza un mondo suo, un mondo particolare, non diverso dal mondo che si crea l'amante rispetto all'amata. E’ un mondo di fantasia e non è diverso il mondo che crea un romanziere, con le proprie parole, con la propria espressione, con la propria opera. Di fronte alla pagina bianca lo scrittore ha qualche volta la sensazione che può costruire qualcosa come un Dio che può essere qualcuno. Il problema è che la vita reale è altro. La vita si vive nel lavoro, si vive nei campi, si vive nella durezza. Ecco, sia l'espressione dell'arte che l’espressione della religione non possono intaccare la noia pesante del vivere, l'inquieta, angosciosa, come la definisce nell'ultima pagina del diario, il fastidio delle cose. Ecco Pavese arriva a dire nei "Dialoghi con Leucò" che l'unica speranza allora di vivere è insieme al Dio, che il Dio venga in questa vita, nelle campagne, nel momento in cui si lavora, nel momento della fatica dura. Ecco, questa è in qualche modo una profezia del cristianesimo. Segue la lettura del Dialogo "Le Muse".
F. Pierangeli:
Ecco l'ultimo dialogo. Gli istanti mortali non sono una vita. In quest altro dialogo, che riguarda proprio la religione, è chiarissimo che se anche l'apice dell'intelligenza umana riconosce il Mistero, ma non sperimenta la Grazia, come diceva Pampaloni, in una presenza di carne e di sangue, la religione al massimo porta alla disperazione, al suicidio. E’ come tremendamente annullato l'uomo con il suo limite, l’uomo che cerca di salire ad essere Dio, è come se il limite di non riuscire ad essere lo annientasse. A salvare può essere invece l’abbandono ad una presenza, ma a una presenza di carne e di sangue, non il volontarismo, altrimenti, come dice Pavese sarebbe protestantesimo senza Dio. Questa è una frase che Pavese dice nel 44, pochi giorni dopo aver ricevuto la Comunione cristiana e la confessione. Lo testimonia padre Baravalle che ha confessato e comunicato Pavese nel periodo in cui è stato nascosto nel convento dei padri Somaschi durante la guerra. Per Pavese questa esperienza è rimasta un racconto, un’intuizione; non c’è stato, almeno da quello che possiamo sapere noi, un incontro al livello della vita, del fastidio della vita. La religione, questa è la grande testimonianza di Pavese, e anche la poesia è un grido disperato nel suo apice. Invece quando l'ideologia, anche cattolica vuole imporsi, senza questa Presenza, allora si sente il fastidio. E Pavese questo fastidio lo sentiva fortemente sia per gli antifascisti che per i comunisti, sia per i fascisti che per i nazisti. Non voglio risolvere così tutte le problematiche sollevate da questo taccuino inedito però la politica è importante, per affrontare il discorso di Pavese. Pavese aveva ben presente che con le proprie mani l'uomo non arriva a costruirsi il proprio destino; finge quando dice che invece può, finge fino a darsi la morte. Perché se l'uomo non accetta, se non ha vicino questa Presenza e capisce che con le proprie mani non può farcela, o bara oppure dice che non esiste nulla e allora conviene darsi la morte, conviene uccidersi, autodeterminarsi fino alla fine, quindi compiere il gesto più stoico della vita: darsi la morte perché esiste solo l'uomo che non deve aspettare che la morte arrivi casuale per un destino che non esiste. Questo, forse, è l'ultimo dramma della vita di Pavese. Voglio citare queste tre frasi che lui dice prima della guerra e quindi non direttamente riferite alla vicenda del taccuino inedito. "C’è una cosa più triste che fallire i propri ideali: esserci riusciti". Non c'è bisogno di commento. E poi la seconda: "In genere è per mestiere disposto a sacrificarsi chi non sa altrimenti dare un senso alla sua vita". E’ disposto a lavorare per gli altri, a impegnarsi nella politica chi non sa dare altrimenti una risposta alla sua vita: è l'attivismo. Questo è un pericolo per ognuno di noi. Magari è meglio, drammaticamente, come Pavese, dire che non c'è risposta nella vita perché si legge proprio in faccia quando uno si impegna o si sacrifica per gli altri perché non ha altrimenti da riempire la vita. L’altra: "Il professionismo dell'entusiasmo è la più nauseante dell'insincerità". Sono tre frasi che hanno molto a che fare con il problema del Pavese politico. In questo ultimo dialogo sottolineo il riferirsi continuo ai simboli del cristianesimo: il pane e il vino, la carne e il sangue. Alla fine la disperazione, l'ultimo scetticismo dell'uomo, ma è uno scetticismo vero. La religione nel suo compimento più alto che è il cristianesimo cioè il Dio fatto carne, se non è sperimentata qua nel fastidio delle cose, magari anche dopo essersi confessati, dopo aver letto nei libri tutto del cristianesimo, se poi non si reincontra in una storia, difficilmente può salvare.
Segue la lettura del dialogo "Il Mistero". Alla fine della lettura inizia un dibattito col pubblico sui temi suscitati dalla presentazione.
Domanda:
Pavese riteneva i "Dialoghi con Leucò" la sua opera più significativa, ma quanto questo ha influito nel suicidio di Pavese?
F. Pierangeli:
Tutto il suo itinerario penso abbia influito. Lui scrisse la sua ultima frase sui "Dialoghi con Leucò" che hanno ritrovato nella stanza, riportata anche nella mostra: "Non fate pettegolezzi" e non era chiaramente un caso. E’ sicuramente la sua opera più completa in cui abbiamo visto si avvicina di più ai suoi temi, ai temi più profondi. Come ha inciso non si può dire, non so. Senz’altro sono le tematiche più scottanti del suo itinerario. L’opera di Pavese è un continuo ritornare su certi temi di cui mi sembra di vedere limpidamente quei temi che accennavo, più frequenti. Anche lui dice che raccontare è monotono, raccontare come un blocco monolitico originale a cui il poeta, ma anche l’uomo ritorna continuamente per cercare di capirlo e si dibatte come un ossesso come diceva Orfeo per capire questo destino, per toccare, come ho detto prima, per afferrare questo destino; ma la parola toccare nella "Luna e i Falò" ha un duplice o triplice significato perché toccare un destino è anche che ti capita un destino, ti capita per caso, ti ci scontri, ma è anche cercare di afferrarlo e non riuscirci, perché un destino capita, si incontra. Poi la parola toccare ha anche il significato di toccare nel senso di tangere, di sfiorare e quindi di sfiorire: le cose che si toccano, se non lasciano un segno duraturo nella vita, è come se lasciano dei solchi anche visivamente sulla pelle che vanno verso la morte, in qualche modo si consumano.
Domanda:
Io volevo sapere una cosa. A proposito del suicidio mi ricordo che ci sono personaggi come Leopardi, Schopenauer o lo stesso Foscolo che pensavano al suicidio come un gesto eroico. Leopardi ad esempio nel Bruto Minore diceva che il suicidio era il mezzo con cui l'uomo si poteva ribellare a Dio. Infatti, Bruto quando muore accusa Dio e lancia l'invettiva. Da quanto ho capito invece Pavese non è che si suicida perché è contro Dio, ma perché diventa l'unica soluzione. Volevo sapere se la concezione era come quella di Schopenauer e Leopardi (che tra l'altro però non si suicidano)?
F.Pierangeli:
Io, chiaramente, tento di andare intuitivamente perché il mistero del cuore dell'uomo, come ho già detto, è insondabile; è impossibile dire perché un uomo fa certe scelte. Comunque ho tentato di dire prima che esistevano due alternative (nel diario è chiarissimo): la vita come dono, un immenso dono e la vita invece come volontarismo, come stoicismo. Nel suicidio credo sono presenti e nel "Mestiere di vivere" tutte e due queste componenti. L'uomo che dice che sulla terra ci sono solo io, non c'è nessun Mistero, nessuna realtà, siamo frutto del caso, ci tocca un destino, ci tocca qualcosa casualmente, ma invece io voglio resistere contro questa realtà ostile che mi sono trovato nel mondo; decido perciò di morire come gesto plateale, di un attore, per dire al mondo che io sono forte e posseggo la mia vita fino a darmi la morte. Questo forse il cuore dell'uomo non può sopportarlo fino alla fine; infatti, una delle ultime frasi è: "Oh, Tu, abbi pietà di me". Questo "Tu" con la T maiuscola, questo Infinito che si presenta a cui ci si vuole abbandonare, ma che non diventa una Presenza a cui abbandonarci. L'immagine del volantone di Pasqua in cui vi è Giovanni accarezzato da Cristo è un immagine di carne e di sangue e il Cristianesimo è una cosa così. "Oh, Tu, abbi pietà di me" non è una cosa astratta, è un volto, un abbraccio nella storia, non una cosa sentimentale. Il Tu è questa cosa qua o non è nulla. Queste due alternative tra il suicidio alla Foscolo e il suicidio perché si capisce che non si può essere perdonati, si è nel supremo limite sono tutte e due componenti nella vita di Pavese. Ho presente anche il titolo del suo libro, uno dei più belli, "Prima che il gallo canti". L’idea del tradimento dell'uomo, ma non è solo un tradimento politico come molti hanno detto perché se leggiamo i due monologhi all'inizio e alla fine de "La casa in collina" lui parla dei morti fascisti come di quelli partigiani, parla della morte, della guerra come morte. Però il tradimento che lui non era andato in guerra, questo senz'altro. Questo tradimento, anche un tradimento umano, del "Prima che il gallo canti", ma tutti i tradimenti che Pavese sentiva di non riuscire. Non aveva la possibilità di piangere amaramente come invece nel passo evangelico di "Prima che il gallo canti" ha fatto San Pietro; si può piangere amaramente soltanto di fronte, per Pietro, a Cristo.
Domanda:
La cosa che più mi ha colpito leggendo la "Stampa" che è stato il giornale che, attraverso Lorenzo Mondo, ha dato la notizia della scoperta di questi manoscritti è stato il fatto che sono stati nascosti per diversi anni. Ho come l'impressione che ci sono degli intellettuali nel nostro Paese che decidono che cosa dobbiamo sapere, che cosa non dobbiamo sapere e questo mi ha realmente impressionato anche per i nomi che sono coinvolti in questa vicenda: una casa editrice come l’Einaudi che afferma di averli persi, un uomo come Calvino che consiglia a Mondo di non farne parola con nessuno, lo stesso Mondo che aspetta che i tempi cambino per tirare fuori le fotocopie nascoste sotto il letto della figlia che io conosco. Tutto questo mi fa dire che veramente il Meeting è un’occasione per difendere la libertà nostra e la libertà della cultura del nostro Paese, la possibilità di parlare e di approfondire liberamente come stiamo facendo. Volevo sapere tu che cosa ne pensi di questa impressione che ho.
F. Pierangeli:
Sottoscrivo senza aggiungere niente. Ringrazio dell'intervento.
C. Marchetti:
Mi sembra che già questo applauso sia un ringraziamento per quello che abbiamo vissuto oggi pomeriggio. Più che la presentazione di una mostra volevamo incontrare Cesare Pavese. E’ stato un incontro con le voci, le parole degli attori del Teatro dell'Arca, con le parole di Fabio Pierangeli. Ringrazio loro, innanzi tutto, come ringrazio voi per l'attenzione.