Giovedì 25 agosto
"TESTIMONIANZA DAL BRASILE"
Incontro con Mons. Aristide Pirovano, Vescovo Missionario in Brasile.
Moderatore:
Dott. Robi Ronza.
R. Ronza:
Vi presento Mons. Pirovano. Vorrei cominciare, Monsignore, con l'inizio così atipico della sua vita di missionario: lei era pronto a partire per la missione, scoppia la 2° guerra mondiale, e a questo punto che cosa fa il futuro Mons. Pirovano?!
Mons. A. Pirovano:
Ero prete, cosa dovevo fare?! Il prete. La notte la passavo al Policlinico di Milano e allora ogni tanto venivano degli uccelli neri di notte a lasciarci i loro confetti che si chiamavano "Bombe". A un certo punto ho pensato di vivere là con gli ammalati, la notte, per assisterli mentre erano operati al pronto soccorso e per dare loro coraggio quando arrivavano quegli uccelli neri. Io arrivavo all'ospedale verso le dieci di sera, mi fermavo coi medici, assistevo, aiutavo, imparavo un po' anche di medicina, poi al mattino alle cinque celebravo la messa per le suore di Maria Bambina del Policlinico di Milano e partivo per i miei giri perché nel lavoro ordinario ero economo del seminario del Pime di Milano e c'erano tanti giovanotti e la tessera a questi giovanotti non era sufficiente, e allora bisognava che mi dessi da fare ...
R. Ronza:
Bisogna spiegare che la tessera era la tessera di razionamento; adesso la gente, i giovani sono abituati ad altre tessere.
Mons. A. Pirovano:
Adesso, però, bisognerebbe metterla un po' perché sono tutti ammalati di colesterolo qua. Mi sono trovato subito a contatto con gli ammalati e coi sofferenti, e poi durante i bombardamenti mi davo da fare per portare gli ammalati nei rifugi, per dare loro una benedizione, per passare da un rifugio all'altro. C'è stato un periodo in cui al primo colpo di sirena io partivo in bicicletta da via Monte Rosa, attraversavo tutta la città, arrivavo al Policlinico e cominciavo a visitare rifugio per rifugio fino giù a "via della pace" l'ospedale dermatologico. Dicevano che ero pazzo perché mentre io camminavo in bicicletta arrivavano quei "confetti", ma era molto bello perché prima di sganciare le bombe illuminavano Milano al neon colorato e quando io correvo in bicicletta vedevo la mia ombra correre di qua e di là, i palazzi che prendevano un tono violetto, arancione, giallo. Era magnifico, se non fosse stata la guerra. A un certo punto, però, mi sono trovato anche davanti ad altri problemi umani. C'era una ricerca di giovani per portarli nell'esercito o per portarli in Germania e questi giovani amavano la libertà e volevano la libertà, e allora chi cercavano? Il prete. C'erano gli ebrei che a un certo punto sono stati anche in Italia preda delle ideologie e anche loro chi cercavano? Il prete. È il prete che deve essere per tutti, che non deve fare distinzioni ideologiche o partitiche. Cosa deve fare davanti all'uomo che soffre? Ricordare specialmente che Gesù Cristo ha detto che anche un bicchiere d'acqua dato al più piccolo dei suoi fratelli sarebbe stato come dato a Lui personalmente. Cosi mi sono trovato coinvolto in quella che era la Resistenza. Però arriva luglio, io avevo anche degli amici nel partito che dominava allora. Cade il fascismo e i fascisti sono ricercati dalla furia popolare, che non produce certamente giustizia. Questi fascisti, che prima ci guardavano male perché alle volte nelle prediche rivendicavamo i diritti umani, a un certo punto da chi corrono? Dal prete. Cosi mi sono visto attorniato da queste persone che volevano da me un aiuto per sfuggire alla furia popolare. Io dicevo loro: "Guardate, vi aiuterò, però, se avrete fatto delle cose ingiuste, un giorno io vi denuncerò; ora vi salverò dalla furia popolare". Così nel luglio del '43. Poi viene il settembre del '43; cambio di guardia, fascisti tornano al potere, chi deve scappare adesso dalla furia e dall'oppressione dei fascisti e dei tedeschi? Sono coloro che lavoravano lì nel comitato nazionale di liberazione. E cosa fanno anche loro? Cercano il prete. E allora cosa fai tu prete, puoi dire "ma tu ... ?" eh no, davanti alla sofferenza è davanti al dolore il prete è come Cristo, non deve fare distinzioni. Il Signore Gesù cercava di purificare i cuori di chi si presentava a Lui e quando questi cuori riconoscevano i loro errori, Cristo ridava loro la salute. Fossero farisei, fossero di qualsiasi altra razza, il Signore Gesù andava loro incontro. E così mi sono trovato anch'io a dover aiutare chi scappava in quel momento. Naturalmente sono andato a vedere San Vittore, perché insomma l'avevo fatta troppo grossa e qualcheduno mi aveva denunciato. Allora mi sono trovato davanti a un altro problema: avevo la possibilità di fuggire, però sapevo (era il dicembre del '43) che se io fossi fuggito, con ogni probabilità i superiori del mio istituto delle Missioni Estere di Milano, ne avrebbero pagato il fio. Allora ho passato più di un'ora dicendo a me stesso "Scappa Aristide, scappa"; e un'altra voce diceva "No, tu hai promesso che avresti assunto la responsabilità di quello che facevi", e sono stato un'ora nel mio studio a mettere a posto tutto quello che potevo mettere a posto e i tedeschi erano là fuori che mi aspettavano. A un certo punto mi sono consegnato; fino all'ultimo però ho avuto la tentazione di darmela a gambe e di rifugiarmi in un luogo dove avevo già un posto preparato, avrei tagliato la barba (allora era nera), per nascondermi meglio, ma davanti a quella responsabilità che avevo assunto nel confronti dei superiori io non ho potuto far altro che dire: "Mi consegno, sarà quel che sarà". Quando in macchina mi portano all'Hotel Regina, il soldato che mi era vicino mi fa pressione sulla gamba e allora sento che nella tasca della mia veste c'era la mia agendina. In quella lotta, in quella tentazione ("scappo o non scappo") mi ero dimenticato dell'agendina e nell'agendina c'erano dei segni, c'erano dei numeri, c'era qualche nome. Mi sono visto perso, non tanto per me quanto per gli altri che avrebbero potuto essere raggiunti. Mi portano all'ultimo piano dell'Hotel Regina.
R. Ronza:
Qui bisogna spiegare ai più giovani che l'Hotel Regina non era un albergo, altrimenti potrebbero pensare: "Come, siccome era un prete, invece che a San Vittore lo portano all'Hotel Regina!".
Mons. A. Pirovano:
No. L'Hotel Regina non era un albergo, ma il centro delle SS a Milano. Le SS credo che tutti sappiamo cosa fossero. E allora lassù mi dicono: "Attenda". Io avevo preso anche il Breviario e il mio crocefisso di Missionario; a un certo punto mi metto vicino a una colonna, apro il Breviario (nel frattempo nel corridoio passavano e ripassavano soldati, impiegati di tutti i colori) e metto sul Breviario la mia agendina; li ho ingannati un po'. Fingevo di pregare, ma non pregavo; quando vedevo sulla paginetta dell’agendina un segno sospetto, con la massima indifferenza strappavo quel foglietto; poi, con una forza che non avevo mai creduto neanch'io di avere, l'arrotolavo in una pallina e la gettavo in una cassetta di sabbia che era li vicino e che serviva a spegnere i mozziconi di sigaretta; come se fossi un po’ distratto, ci passavo sopra il piede e così la pallina spariva in mezzo ai granellini della sabbia; in questo modo ho purificato ben bene la mia agendina e poi mi sono realmente concentrato nella preghiera. Dopo due ore sono stato introdotto per il primo interrogatorio. A San Vittore ho incontrato veramente i due estremi dell'uomo: l'uomo belva e l'uomo fratello. L'uomo belva era colui che, fingendosi prigioniero, partigiano, si disponeva ad ascoltare le confidenze dei prigionieri per poi denunciarli; l'uomo fratello era chi si interessava veramente di tutti i sofferenti di quel periodo tristissimo, tra il dicembre del '43 e il marzo del '44, quando i tedeschi erano molto forti. Ho visto anche la prima deportazione degli ebrei da San Vittore; ho visto un soldato della SS con le lacrime agli occhi, di guardia a un ebreo che era precipitato dal terzo piano, perché nessuno si avvicinasse, nessuno desse un minimo conforto a quel poveretto. Ecco l'ideologia che passa al di sopra del cuore umano: il soldato che piange ma non permette che nessuno si avvicini. Ho visto poi un eroismo fantastico. C'era un sacerdote di Genova, il cui nome però ora non ricordo più, che era in prigione perché l'avevano preso con un gruppo di ebrei. I tedeschi sapevano che questo prete lavorava su ispirazione e sulle direttive del Cardinale Boetto, che allora era arcivescovo di Genova, e desideravano immensamente mettere le mani su questo porporato. Quel povero prete ne ha passate di tutti i colori; fantastico, ma è stato capace di non parlare e di non confermare quello che i tedeschi sospettavano, che cioè agisse per ordine, per direttiva del Cardinale.
R. Ronza:
"Fantastico" nel senso brasiliano, portoghese di "drammatico"?
Mons. A. Pirovano:
Esatto. Fantastico in senso drammatico. A San Vittore, insomma, ho visto l'uomo aperto e ho visto la belva. Poi, non so come, il Signore mi ha portato fuori di là e naturalmente i tedeschi mi hanno detto che se avessi fatto ancora qualcosa contro il 3° Reich, sarei stato fucilato. Ma quando sono arrivato al mio paese, Erba, nella provincia di Como, che era il primogenito del fascio, ho visto che gli odi stavano aumentando, ho visto che si stavano preparando delle vendette e allora ho pensato: "Qualcuno deve far qualcosa, e chi se non il prete?!". Allora ho tentato ancora, naturalmente con più accortezza, cercando di avere anche io un mio FBI e ho messo in piedi il C.L.N. lì e in altri paesi. Ci siamo preparati così per il momento del vuoto, quando sarebbe caduto il regime; così ho potuto partecipare anche a questi avvenimenti, anche se con una certa fatica, e ho potuto ottenere la resa di 300 SS che erano a Erba e la resa di una colonna, la colonna Noseda di 700 fascisti che scendeva dalla Val Sassina per raggiungere Mussolini a Como. Io mi ero lanciato; "Il Signore ci penserà" - dicevo. A un certo punto, quando avevo stabilito di portare fuori Erba i tedeschi, conformemente alle direttive del C.L.N. nazionale, le signorine interpreti che vivevano con i tedeschi mi dicevano: "Tu non andare, perché loro volere ammazzare Pfaf (che era il maggiore delle SS) e te". Io facevo mettere in colonna tutti questi camion, erano 17 camion con tutti gli armamenti, e a un certo punto arriva il comandante e tenta di salire sulla mia macchina. Dico: "`No, tu no Pfaf, tu devi andare sulla tua macchina"; dice: "No, io venire con te". I suoi uomini erano disperati e dicevano: "Noi avere perso guerra, noi avere perso patria, noi avere perso famiglia, noi avere soltanto vita, caput" finito. Avevamo però scoperto che lui faceva il doppio gioco che si era preparato un posto a Bergamo e lo volevano uccidere. A un certo punto, quando non sono riuscito a convincere Pfaf ad andare sulla sua macchina, che cosa dovevo fare? Dovevo portarli via dal paese, erano già passati 4 giorni, eravamo al 29 di aprile, non si poteva più resistere, non si potevano più tenere gli uomini fermi. Eravamo in un pericolo di strage, perché i tedeschi erano armatissimi. E allora ho chiuso gli occhi: "Sarà quel che il Signore vorrà". Ed ecco un giovane dell'oratorio, Pietro Rampini. Dice: "Dove vai padre Aristide? Vengo con te". "No" - dissi - "guarda, non si può venire con me, io non so se tornerò indietro, perché vogliono ammazzare il comandante e il comandante vuole venire con me. Tu non devi venire". "Io voglio venire con te". Si è seduto sul parafango della macchina ed è partito con me. Ad un certo punto, distanziato 100 metri dalla colonna, faccio segno che mi seguano verso Lecco, quando, dalla colonna, parte una raffica di mitra. Il comandante in un salto si è trovato nel campo e io mi sono toccato per vedere se ero ancora vivo. Visto che ero ancora vivo, dico: "Gliela faccio vedere io a quei signori lì che non hanno mantenuto la loro parola". Sono sceso dalla macchina, sono andato verso la colonna, ho chiamato tutti gli ufficiali, erano 17, ho detto loro: "Voi essere banditi, voi non essere soldati tedeschi, io avere dato a voi parola d'onore che nessuno avrebbe sparato su di voi, perché io sto davanti, voi avete promesso che non avreste sparato a nessuno, se nessuno avesse sparato a voi, mentre ora voi avete sparato alla mia macchina, voi essere banditi, voi non essere soldati, voi non essere tedeschi". Li ho offesi a morte. E allora hanno parlato fra di loro in tedesco, poi hanno detto: "Noi venire con te". "Va bene". Mi sono girato sui tacchi, ho ripreso la macchina, ho chiamato Pfaf, sono partito e sono arrivato fino a Lecco, dove però non è stato possibile farli transitare. Così hanno dovuto ritornare ancora a Erba, con tanto pericolo, perché in quel momento tutti volevano essere eroi, tutti volevano fare qualcosa, specialmente chi era stato rintanato fino a quel momento. Così bastava che partisse un colpo perché succedesse una guerra e una strage. Ecco, quel Pietro Rampini ha rischiato al sua vita perché non voleva che io rischiassi da solo. Poi ho avuto un'altra grande consolazione: io avevo stabilito una zona, lì a Erba, dove i tedeschi dovevano rimanere e non passare, però volevo portare il loro comandante, perché si persuadesse, ad un comando ad Alzate Brianza e poi dal Generale Wolf giù a Como. E loro volevano un ostaggio. E un certo prof. Camillo Secchi, fratello di quel Manzoniano Secchi di Milano, si è offerto generosamente; io non volevo, dicevo: "Tu hai moglie e figli, io non ho nessuno, io sono prete, sono fratello di tutti, quindi devo rischiare per tutti, ma tu no". E invece, due volte si è messo come ostaggio nelle mani dei tedeschi, senza sapere se io fossi riuscito a ritornare. Ho avuto poi un'altra avventura con un amico che vedo qui, Luigi Davide Grassi che è stato il primo questore di Como, dopo la liberazione. Era stato fatto prigioniero da un'altra colonna di fascisti, io l'ho strappato loro dando un po' di pedate alle persone che l'avevano fatto prigioniero; erano delle donne, che venivano in avanscoperta, e già avevano combattuto ad Olzago dove c'erano stati molti morti. Dunque Camillo Secchi, di una onestà, di una fede e di una dirittura morale fantastica, due volte si era messo come ostaggio nelle mani dei tedeschi senza sapere se io tornavo o non tornavo, perché, non tornando io, certamente l'avrebbero ucciso. Questo fa vedere che l'uomo quando crede in Dio, prima di tutto acquista una forza meravigliosa, perché sa che è condotto dal dito di Dio, che è sorretto dalla mano del Padre, quindi si getti, se il Signore vuole usare di lui per fare del bene, abbia fiducia nel Signore, perché il Signore non lo lascerà perire. Poi ho visto che bisogna andare incontro al nostri fratelli, con serenità, senza partito preso, non guardando il colore, non guardando le opinioni, ma vedendo nell'uomo sofferente il fratello che aspetta da te un aiuto. E questo non è soltanto per me che ho scelto ad un certo punto di essere prete missionario, ma per ogni uomo che nel battesimo è assimilato a Cristo e diventa figlio di Dio e fratello di Gesù Cristo. Non possiamo più, una volta assunti in Cristo, afferrati da Cristo, vivere una nostra vita individuale, egoista, dobbiamo donarci, dobbiamo costituire comunità. Sarebbe interessante avere il tempo di guardare le prime pagine degli Atti degli Apostoli sulla Chiesa primitiva che è una meraviglia veramente, perché stupiva anche i pagani che dicevano tra loro: "Guardate come si vogliono bene, come si aiutano". E direi, per inciso, perché ora c’è tanto egoismo, c'è tanto edonismo, c'è tanto individualismo? Non sarà perché non viviamo più le dimensioni della nostra fede? Non sarà perché a un certo punto ciascuno di noi è diventato un'isola, mentre l'uomo è fatto per la famiglia, per vivere nella famiglia umana e non come un'isola, separato? Ecco, queste sono le riflessioni che io farei, al primo round della mia testimonianza.
R. Ronza:
In attesa del secondo round, lasciamo per un attimo in un angolo Mons. Pirovano. Intanto io vorrei farvi osservare una cosa; come sarebbe importante che noi reimparassimo ad ascoltare gli anziani. Qui ci sono certamente molti brianzoli, ma non so quanti brianzoli di 20-25 anni conoscessero prima d'ora questo squarcio di storia della Brianza. Vedete che un eccesso di televisione, di radio, fa sì che non si sappiano le cose che ci hanno immediatamente preceduto. Vale la pena, credo, di prendere il Meeting anche come spunto per iniziative che potremmo prendere nelle nostre città, non solo in Brianza naturalmente, per imparare a conoscere la storia di chi ci ha preceduto e per avere testimonianze dentro questa storia, testimonianze come questa. Anche per una ragione molto pratica, che se la nostra storia non ce la facciamo noi, ce la fanno gli altri come vogliono. E adesso riportiamo al centro del ring Mons. Pirovano.
Mons. A. Pirovano:
E io farei un passo indietro, invece di andare avanti, guarda un po', che ne dice lei? Tornerei all'età di 15 anni. Ero, mi dicevano, un bel moretto, sognavo anch'io un certo benessere, avevo in mente cosa fare, avevo litigato con un prete, cioè il prete aveva litigato con me, e io pensavo che non era giusto quel che mi aveva detto (guardate che sono ancora della stessa opinione), mi ero allontanato un po' anche dalla Chiesa e poi avevo la ragazzina. A un certo punto, io sognavo veramente: avevo un piccolo laboratorio, mio papa era un artigiano, aveva due o tre operai, ed era bravissimo come artigiano, ma non come negoziante, era bravissimo nel lavoro, ma niente soldarelli. Io invece già allora pensavo ai soldarelli, naturale: "Mio papà lavora bene, però non è capace di fare gli affari, io imparerò a fare gli affari e progrediremo". A un certo punto però, un prete mi ha accalappiato e sono tornato ancora alla Chiesa, all’oratorio, poi ha mandato perfino a fare un corso di esercizi, insieme ad altri, a 15 anni e rotti. Quando arrivo a casa, una vicina che mi conosceva, dice: "Si, si" con ironia, ma bonaria, perché eravamo amici, "sì, sì, adesso l'Aristide vedrai che diventerà anche prete". E mi sono arrabbiato, non avrei mai pensato di diventare prete, mai. Mi sono arrabbiato e ho risposto male, anche se l'ironia era benevola, era da amici, però quella frase lì, ad un certo punto è risorta, io la cacciavo via e risorgeva, era una lotta interna. Poi ad un certo punto dicevo: "Be, sì, missionario rete qui in Italia, no". Nella mia ignoranza dicevo anche, - perché c'erano dei frati lì in giro che si erano accorti un po' che avevo raddrizzato le gambe e allora mi facevano l'occhiolino – "no, no, missionario e non frate". Non sapevo del PIME, l'istituto di Milano, non lo conoscevo ancora. Così a 17 anni sono entrate nella prima ginnasio a cominciare "rosa, rosae" e via dicendo. Però a un certo punto ci sono state tante disgrazie nella mia vita, sono diventato io il responsabile della famiglia e a un certo punto mi sono trovato coinvolto in tante ingiustizie e all'egoismo degli altri, di quelli che fanno pagare gli interessi anticipati, che all'età di 22-23 anni ho avuto una crisi terribile, una crisi, non più di adolescenza, ma una crisi di scelta nella vita, di scelta per la giustizia. Allora cominciava a nascere il Partito Comunista e si parlava tanto dell'uguaglianza; io, a un certo punto ho pensato di lasciare il seminario davanti all'ingiustizia di colorò che andavano in chiesa, perché andavano in chiesa le persone che stavano commettendo ingiustizia verso la mia famiglia, e io questo non lo sopportavo. Però, Provvidenza mi ha aiutato e a un certo punto c’è stata la cosiddetta conversione, per cui alla fine del liceo ho deciso proprio per la vocazione missionaria nel PIME, cioè ho scelto di essere prete senza altri legami che il sacerdozio, disponibile per la Chiesa. Ecco, credo che questa possa essere una testimonianza, anche perché adesso io ho riassunto la storia in poche parole, ma è stata una lotta terribile, sia lasciare la famiglia, sia risolvere i problemi economici attraverso le ingiustizie e le oppressioni, sia guarire dall'ideologia che credevo nel sol dell'avvenire, nella società ugualitaria senza più oppressioni da parte del capitalismo. Ora facciamo un terzo round, e allora andiamo in Brasile.
R. Ronza:
Quando andiamo in Brasile?
Mons. A. Pirovano:
Adesso.
R. Ronza:
Ma allora lei quando ci è andato?
Mons. A. Pirovano:
Io sono andato in Brasile nell'ottobre del '46. Poiché allora non si parlava molto di povertà, ma si cercava di viverla; avevo preso una nave brasiliana e in terza classe eravamo un camerone di 600 uomini con un solo rubinetto d'acqua dolce e senza nessun ventilatore. La nave era divisa a metà: da una parte c’erano le donne, dall'altra c'erano gli uomini, e i passeggeri erano in maggior parte gente che fuggiva dall'Europa centrale e orientale. Molti erano ebrei. Abbiamo fatto quel viaggio in 36 giorni, partendo da Genova e arrivando a Santos. Il cibo era abbondantissimo ma era pessimo, non si riusciva a mangiarlo, però il pane era bianco, mentre noi avevamo ancora il pane nero. Eravamo in tre sacerdoti, uno dei quali era anziano e allora gli ufficiali brasiliani, in rispetto a questo vecchietto, lo invitavano alla loro mensa mattino, mezzogiorno e sera. Là lui si dava da fare, rubava qualche frutto e lo portava a noi due giovani che stavamo giù in terza classe. Così abbiamo fatto 36 giorni di viaggio in questa nave, ci sono stati tre bambini morti, abbiamo avuto delle tragedie, e anche lì, chissà perché, noi due preti giovani ci trovavamo sempre coinvolti. A un certo punto si era accesa una mezza rivoluzione contro gli ufficiali, perché nessuno poteva mangiare quel cibo e allora noi abbiamo dovuto metterci di mezzo per trovare una via di conciliazione, così che in cucina hanno potuto entrare anche degli italiani, delle altre persone. Abbiamo cercato di essere anche li strumenti di pace. Ho fatto tutto il periplo del Brasile, poi mi sono inoltrato dentro, nel Rio delle Amazzoni, fino a Manaos, poi sono sceso dalla parte del Mato Grosso, per trovare un luogo dove noi missionari del PIME avremmo potuto stabilire le nostre tende.
R. Ronza:
Eravate i primi tre del PIME, che andavate?
Mons. A. Pirovano:
Eravamo i primi tre del PIME che andavamo in America Latina, perché le missioni del PIME fino allora erano sempre state in Oriente, India, Bengala, Pakistan, Cina, ma nell'America Latina non c'eravamo. Il papa Pio XII voleva però che anche noi aprissimo il nostro lavoro all'America Latina. Nel mio giro arrivo a un certo punto con un arco militare, perché sugli aerei militari non si pagava, arrivo a Santarain che è a metà strada tra Belen, la foce del Rio delle Amazzoni, e Manaos, che è il cuore dell'Amazzonia. L'aereo, un "catilina", a un certo punto non riesce più a staccarsi dall'acqua, e dai, e prova, ma niente da fare, restavamo dentro chiusi come in una botola. Allora sbarchiamo e mi ospitano dei soldati tedeschi; c'era un vescovo che aveva un nome italiano, Petrulla Anselmo, ma era tedesco. Questo vescovo era allora responsabile di una regione di circa 900 mila chilometri quadrati, in Amazzonia, quasi tutto lo stato del Parà, senza strade, dove le comunicazioni avvenivano tutte sul fiumi. Meravigliosi quel frati!
R. Ronza:
Sarebbe il triplo dell'Italia 900 mila Kmq.
Mons. A. Pirovano:
Questo vescovo mi dice: "Ho bisogno assoluto di preti, perché il governo centrale ha staccato una fetta dal governo dello stato del Parà e ha creato un territorio federale che confina con il Rio delle Amazzoni e la Guyana francese, per dare un maggiore incremento a quel territorio in vista anche della famosa teoria della difesa, perché quel territorio confina con la Guyana francese Cayenna, la Guyana olandese e inglese, all'interno. Mi ha descritto la situazione di quella zona: l'equatore passava accanto al villaggio chiamato allora Macapà, 2000 abitanti, zero metri sul livello del mare, pioggia otto mesi all'anno, temperatura dai 35 ai 40 gradi dal 1° di gennaio al 31 dicembre, umidità da un minimo di 80% a un massimo di 98%. E mi descrive tutte le cose negative di questo territorio. Il giorno dopo avevano aggiustato l'aereo, siamo partiti, faccio il mio giro e poi vado a Rio, a parlare col rappresentante della Santa Sede, perché è la Santa Sede che deve affidare i territori missionari. Il Nunzio Mons. Chiarlo, dice: "Guardi, è stato qui il vescovo di Santarè, perché quando lei è partito, si è pentito di aver dipinto quella regione con quei colori neri con cui l'ha dipinta, lo doveva fare in coscienza, ma poi ha pensato che lei si sarebbe spaventato e quindi non avrebbe scelto quella missione". Invece io ho risposto che appunto perché quella missione era dipinta a colori neri, ed era veramente difficile, il PIME di Milano l'avrebbe scelta. Ed era proprio così. E proprio in quel momento io andavo a Rio de Janeiro, dove c'era il Nunzio, a comunicare che il PIME di Milano tra le varie offerte che aveva avuto nelle varie zone della Amazzonia, nelle varie zone del Mato Grosso e di altri stati ancora arretrati, aveva scelto il territorio federale del Macapà, dove poi è nata questa nostra missione, che oggi è già diocesi e sta sviluppandosi. Abbiamo già due preti, molte suore locali, anzi due suore di lì hanno scelto di venire a lavorare con me nel lebbrosario di Marituba. Ora un round dedicato a Marcello Candia, chi non lo conosce? Io l'ho conosciuto nel 1950. Era un industriale, bel giovanotto aitante, forte, cordiale, meraviglioso, un cristiano veramente convinto, perché anche quando l'ho conosciuto, aveva tutta una sua rete di attività missionaria e aveva anche una rete meravigliosa di attività caritativa in Milano, perché dopo la guerra anche in Milano c'era bisogno della carità di chi aveva qualcosa e Marcello è sempre stato generoso. Ci siamo conosciuti, ci siamo voluti bene, poi a un certo punto lui venuto a trovarmi in Amazzonia, a Macapà, ha girato con me, ha visto le difficoltà e siccome da sempre lui sognava un giorno di lasciare l’industria e di diventare lui stesso, in forza del suo battesimo, missionario laico, ad un certo punto ha deciso di diventare missionario laico là con me, con noi del PIME a Macapà. Io sono stato contentissimo. Nel '55 ero in Italia per l'ordinazione episcopale e Marcello mi dice: "Oramai sono pronto". Ero stato invitato a partecipare a Milano all'inaugurazione della sua industria rimodernata considerata dai tedeschi, dai francesi, dagli svizzeri e dagli inglesi presenti la più avanzata tecnologicamente per il 1955. L'inaugurazione, una cosa solenne e Marcello si prepara a partire. Dopo tre settimane la radio dava l'annuncio che la fabbrica di Marcello Candia era scoppiata. Mi precipito a Milano e trovo Marcello in mezzo alle macerie, io conoscevo bene le macerie di Milano, in quell'epoca. Lo abbraccio e lui mi dice: "Monsignore, il Signore me l'ha data, il Signore me l'ha tolta, adesso però non posso partire, perché ho la famiglia, il fratello e le sorelle a cui pensare. Ricostruirò e un giorno partirò". E difatti ha rimboccato le maniche e ci siamo rincorsi cosi per 10 anni. Arriviamo al '65 e Marcello mi manda a dire: "Monsignore sono pronto, oramai ho messo tutto a posto, ho venduto la fabbrica, ho dato tutto quello che dovevo dare alle sorelle, al fratello, sono pronto per partire con lei". Quando lui mi dice così, capita a me una tegola in testa, perché mi dicono: "Adesso stai qui, a Roma, a fare il capo del PIME". Era Marcello che prima veniva sempre ad accompagnarmi all'aeroporto. Quella volta lì, con la coda fra le gambe, sono andato io accompagnare lui che partiva, che andava laggiù per continuare l'opera che d'accordo avevamo iniziato, questo grande ospedale all'equatore, che anche dall’UNESCO è stato considerato l'entità ospedaliera più perfetta in tutta l'Amazzonia. Frutto di Marcello. E a un certo punto, non contento di lavorare in Macapà, la carità non si ferma mai come l'amore, non dice mai basta, ecco che Marcello ha scoperto il lebbrosario governativo di Marituba. Tra Macapà e Marituba ci sono 300 km e in mezzo c'è il fiume con tutte le isole. Marcello doveva cercare al lebbrosario parenti di alcuni abitanti di Macapà. Il direttore gli dice: "Ma cosa viene a fare lei qui? Qui non è per persone che stanno bene". "Ma io voglio trovare il tale e il tale, perché i loro parenti di Macapà non sanno nulla. E allora ecco che è entrato, ma i lebbrosi si ritiravano all'apparire di un giovanotto così aitante, si nascondevano, avevano vergogna e questo povero uomo passava di baracca in baracca, di padiglione in padiglione senza riuscire a parlare con nessuno. Questo è stato il suo primo ingresso a Marituba, dove c'erano 750 lebbrosi. A un certo punto, dopo aver girato e girato, e cercato di parlare con qualcuno, si sente male, si siede per terra, perché ha un attacco cardiaco. È lì, seduto per terra, quando a un certo punto sente una vocina dietro alle spalle che dice: "Lei si sente male?". "Sì". "Posso darle un bicchiere d'acqua?". "Me la dia". Era la prima lebbrosa che aveva il coraggio di affrontare questo estraneo offrendogli un bicchiere d'acqua. Questo è stato l'ingresso di Marcello Candia nel lebbrosario di Marituba. Il tempo è passato, e allora Marcello ha cominciato a sognare che lì c'erano i lebbrosi concentrati, dove l'assistenza era fatta soltanto da persone salariate, (non per parlare male dei dipendenti del governo, dei funzionari, ma molte volte dove ci sono i funzionari non funziona proprio niente, almeno in Amazzonia, non so in Italia) lì si poteva creare una comunità religiosa, dedita alla Madonna della pace. Quando venne in Italia ne abbiamo parlato anche a Paolo VI, che tra parentesi era molto, molto vicino a Marcello Candia e un po' anche a me. Il Papa ha benedetto. Immaginarsi, Marcello parte in tromba col suo progetto. Ha dovuto lottare 4 anni con la burocrazia statale per avere il permesso di costruire dentro il lebbrosario la casa per le suore e la casa per il prete. Nel '77, ha inaugurato la casa "Madonna della pace" e lì hanno incominciato a lavorare le suore, missionarie del PIME, brasiliane e italiane, ancora prima del PIME sono andati due sacerdoti italiani, che sono ricordati nel libro di Torelli su Marcello Candia "Da ricco che era". E io da Roma accompagnavo e seguivo. A un certo punto, io finisco di fare il capo, prendo la mia valigetta e dopo 13 anni raggiungo Marcello a Marituba. Nel '50 ci siamo conosciuti, nel '55 lui doveva venire a fare il missionario laico avendo me come vescovo, nel '78 sono andato io a fare il missionario sotto Marcello. Ecco qui le cose della vita come sono interessanti, come il Signore conduce le cose. Perché io per andare là ho detto: "Marcello, adesso ti chiedo io il permesso di venire a far il missionario con te". E sono andato.
R. Ronza:
Perché lei vescovo e superiore del PIME per 13 anni, cessato dall'incarico di superiore…
Mons. A. Pirovano:
Sono ancora vescovo, però non ho più diocesi. E mi dicevano di fare qualcosa a Roma, ma sai com'è, Roma non mi piaceva, e allora prima che sorgessero altre cosette mi sono preso la mia valigia e sono andato.
R. Ronza:
Meglio Marituba che Roma insomma?
Mons. A. Pirovano:
Sì, meglio Marituba che Roma. Roma è bellissima, ma era il suo ingranaggio, che io non sopportavo. E poi ero fatto per essere missionario. Si può essere missionari anche a Roma, ma io avevo fatto la scelta della missione tra i popoli, non in Italia, a 17 anni. E bisogna essere fedeli, costanti e perseveranti. Adesso però vi devo dare una notizia tristissima, ma tristissima proprio. Marcello Candia è ritornato la settimana scorsa, è arrivato quasi in coma, ha un cancro al fegato e al pancreas, già in metastasi, non riesce più neanche a parlare ed è ricoverato a Pavia, da ieri, perché ha anche la malaria. Pare che Signore gli voglia dare il premio del Paradiso, però io non sono tanto d'accordo; ma ad ogni modo, se il Signore proprio vuole così ... Io sono contento di questo, ma io desidero che però ricordiate al Signore Marcello Candia. Il Signore può fare anche il miracolo, noi impetriamo, se poi il Signore non lo fa, chineremo la testa, però facciamo sentire, diciamo che non siamo d’accordo, perché là c'è ancora tanto e tanto bisogno di Marcello, perché sinceramente dove lavora Marcello Candia si lavora col cuore, con l'amore. Io conosco tanti lebbrosari del mondo, specialmente quelli in mano ai funzionari, ma ho visto che veramente lì Marcello fa quello che si deve fare oggi per la cura dei lebbrosi. È organizzato in modo tale che è tecnicamente perfetto e poi è fatto con amore. Ci ha messo perfino delle suore di mezza contemplazione, perché nelle ore libere della contemplazione visitino gli ammalati, stiano loro vicino. Perché chi va per la cura non ha tanto tempo per poter stare a parlare con l'ammalato, il lebbroso invece deve essere ricostruito dal di dentro e Marcello è arrivato anche a questa gentilezza, portare suore di clausura in Missione, perché visitino e passino dei momenti di preghiera, di meditazione, di conforto accanto a ogni ammalato. Meraviglioso! Quindi chiediamo al Signore che lo lasci qui ancora un po' per fare andare le cose avanti bene. Se proprio Lui ha detto che ne ha bisogno in Paradiso, beh insomma, comanda Lui, però chiediamolo. Quindi il battimano. Sì, però io voglio le preghiere stasera e domani. Poi una cosa, i lebbrosi bisogna farli rinascere prima dentro. Un episodio solo, perché ormai bisogna chiudere. Un giorno eravamo in chiesa per la Messa col gruppo dei cattolici (ci sono anche altri che non sono cattolici, per noi sono tutti fratelli, ma in chiesa vengono soltanto i cattolici), era arrivata la notizia del terremoto qui nell'Irpinia, e quindi eravamo tutti intenti a sentire la radio. La mia prima preghiera era stata per questi nostri fratelli colpiti dal terremoto e poi i miei lebbrosi hanno continuato a pregare. Ma poi, fuori dalla chiesa hanno cominciato a dire, "Ma guarda un po' che disgrazia, questi morti, che calamità, ma noi dagli italiani abbiamo ricevuto tante cose, abbiamo ricevuto tanto aiuto, abbiamo ricevuto tanto amore e bisogna fare qualcosa per i nostri fratelli, condividere il loro dolore". Questo lo dicevano tra loro, senza dirlo a me. Si sono organizzati e piano piano con delle rinunce, con delle quaresime volontarie, ma quaresime del tempo dei nostri nonni, rinunciando al pane quotidiano per due mesi, hanno messo insieme una somma equivalente allora, nell'81, a 250 dollari americani. Pensate, i miserabili che non hanno nulla. Mi hanno chiamato, mi hanno raccontato questo loro gesto, - io lo avevo già scoperto - e mi hanno pregato di mandare quei soldi alla Caritas italiana come segno di condivisione, come segno della loro partecipazione al dolore dei terremotati, alle distruzioni. Io naturalmente ho mandato alla Caritas italiana 250 dollari, raccolti spontaneamente dai miei lebbrosi del lebbrosario di Marituba per i fratelli terremotati d'Italia. Ecco cosa diventa l'uomo quando si ricostruisce dentro, quando cascheranno ancora per la malattia, ma l'anima no, l'uomo diventa veramente grande. L'altro giorno ho ricevuto una lettera di Adalusio, il mio segretario. Non ha le mani, soltanto le braccia, non ha le gambe, però per servire i suoi fratelli ha imparato a scrivere. Mette dei guantoni, infila una biro e scrive col polso, oppure mette un bacchettino con un gommino sotto e scrive a macchina. E il discorso ufficiale al Papa, l'8 luglio dell'80, quando è stato là in lebbrosario, glielo ha fatto lui, glielo ha fatto veramente con una maniera bellissima di esprimersi, come cattolico, come fedele e come fratello. Il Papa lo ricorda ogni tanto e gli manda la benedizione. L'altro giorno ho ricevuto una lettera che dice: "Ricordi al S. Padre che noi qui, a Marituba, ogni giorno offriamo le nostre sofferenze e le nostre preghiere per il Papa e per la Chiesa, cosi come lui ci ha chiesto quando è stato qui l'8 luglio dell'80 e cosi come noi gli abbiamo promesso in quel giorno". E il Papa lo sa. E poi mi dice: "Che pena per noi qui sapere di Emanuela Orlandi". Leggendo non me ne ero reso conto, poi mi si è aperta l'intelligenza. Ecco, hanno sentito per radio di quel a figliola di Roma, e laggiù nel lebbrosario di Marituba, circondato da foreste, pensano, pregano, soffrono per Emanuela Orlandi. Ecco cosa vuol dire l'uomo, non scimmia, non robot, ma uomo, vale a dire immagine di Dio, fratello di tutti.