EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE

Tra chi scappa e chi trasforma:
dove va l’industria italiana?

In collaborazione con Unioncamere

Martedì 24, ore 11.30

Relatori:

Pier Luigi Bersani,
Ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato

Pasquale Pistorio,
Presidente della STMicroelectronics

Roberto Colaninno,
Presidente e Amministratore Delegato Telecom

Mario Carraro,
Presidente Carraro SpA

Bersani: Il mio intervento ruota intorno a un concetto molto semplice: abbiamo bisogno di imprenditori che provino. Noi, governo e Stato, dobbiamo creare delle condizioni per questi imprenditori. Non gli imprenditori della lamentela, ma imprenditori che vogliono tradurre in fatti un’idea che hanno in testa. Questo è particolarmente urgente in questa epoca della globalizzazione: la globalizzazione è come le Olimpiadi; se non c’è alle olimpiadi una buona squadra italiana, ci perdono anche le Olimpiadi. Il nostro dovere come sesta potenza industriale del mondo è quello di partecipare attivamente alla globalizzazione in una chiave di reciprocità. Molti devono venire da noi, molti di noi devono andare nel mondo. Dobbiamo scambiare le carte e crescere assieme.

Sicuramente, innescarsi nella globalizzazione per il sistema industriale italiano comporta qualche problema. Questa globalizzazione significa che il mondo si è fatto piccolo, quello che era esotico diventa domestico, tutto si accelera, il mondo si rimpicciolisce, i mercati si espandono, succedono fatti di concentrazione, di specializzazione, di "esternalizzazione". Tra i diversi problemi che abbiamo, ne scelgo tre come esempio: il tema della internazionalizzazione, quello della delocalizzazione, che è un aspetto particolare dell’internazionalizzazione, e quello della specializzazione.

Internazionalizzazione significa andare a produrre là dove ci sono i mercati. In un mercato globale vado a produrre globalmente. Ma per far questo ci vuole della massa critica: noi però abbiamo poche grandi imprese, e le nostre grandi imprese non sono le prime delle piccole, sono le ultime delle grandi, come dimensioni. Inoltre, noi abbiamo alcune grosse imprese che sono potenzialmente grosse imprese da globalizzazione ma sono state legate mani e piedi dalla logica del monopolio. Ci sono poi le medie imprese, che magari sono leader nella loro nicchia di mercato: a un certo punto o crescono o si fanno comprare, senza che in questo vi sia una negatività.

Noi abbiamo una tradizione, siamo un’industria di tradizioni; è il famoso "made in Italy". Questi settori di produzione sono molto esposti alla cosiddetta delocalizzazione. Delocalizzarsi significa internazionalizzarsi, andare a produrre dove costa meno, dove le esigenze di paesi emergenti sono quelle di cominciare a trasformare e non solo quelle di vendere materie prime. Questo fenomeno rappresenta anche il fatto che c’è una parte del mondo che vuol mangiare, vuole crescere: è un fenomeno necessario e positivo. Non possiamo pensare che chi fa materie prime sia condannato fin che campa nei secoli a vendere solo materie prime. E siccome siamo il paese trasformatore per eccellenza dal Medioevo in poi, è chiaro che questa desiderio dei paesi emergenti ci disturba. Per reagire, con uguale velocità dobbiamo introdurre in quei settori tecnologie, anche organizzazione nuova, internazionalizzazione e crescita. La delocalizzazione e la crescita qualitativa devono avere la stessa velocità. Non approvo tutte le delocalizzazioni: però ci sono aspetti di questo fenomeno che vanno inseriti in un discorso planetario che non possiamo ignorare.

Per quanto riguarda le specializzazioni, abbiamo alcune rigidità; siamo molto forti nel "made in Italy", settore che però cresce poco. Nei settori delle piccole imprese, a livello di singola impresa, abbiamo una flessibilità eccezionale, ma come settori siamo rigidi. Pensiamo poco ai nuovi settori nei quali si cresce di più, informatica e telecomunicazioni, biotecnologie, nuovi materiali.

Al di sotto di questi ed altri problemi c’è una grande questione, una questione non nuova che riemerge in modo carsico. È la forza o debolezza strutturale del capitalismo italiano, ed ha un secolo di vita. Se noi andiamo alle radici profonde di quel che siamo sul piano industriale, ci accorgiamo che in tutta la storia del capitalismo italiano abbiamo avuto un problema che in battuta si potrebbe dire "capitalismo senza capitali". C’è sempre stato il problema di come portare risorse alle avventure imprenditoriali e manageriali. Il problema fu risolto, in una prima fase – quella di nascita, crescita e di espansione del capitalismo italiano – con l’intervento diretto delle banche, delle strutture del credito che allora nella attrezzatura europea erano ben consistenti. Quando andò in crisi quel meccanismo fu lo Stato che intervenne: l’IRI nasce per questo. Ora abbiamo alle spalle questa fase – l’IRI ha 65 anni e va in pensione –, e siamo in una singolare situazione per cui non abbiamo ancora il modo anglosassone di finanziare le imprese, ovvero il capitale di rischio, le borse; non abbiamo neppure il meccanismo tedesco, ovvero le banche. Usciamo dal meccanismo dell’intervento dello Stato. Stiamo camminando con diverse gambe ma ancora non con la forza sufficiente.

Il problema non riguarda solo la nascita delle nuove imprese, ma anche la grande impresa: sono in corso le organizzazioni bancarie, che dovrebbero accelerarsi, tramite gli strumenti recentemente allestiti come il fondo pensioni o le iniziative per sostenere il capitale di rischio.

L’imprenditore, se sa far l’imprenditore, è già molto: non si può anche pretendere che abbia i soldi. Dobbiamo trovare più modi attraverso i quali si selezionino le capacità imprenditoriali e manageriali, attraverso l’affidamento a queste capacità di capitali e di risorse per incrementare le attività industriali, nei settori di tradizione e nei nuovi settori, e per far crescere la massa critica e anche una nuova diversificazione delle offerte industriali.

Pistorio: Il meccanismo che consente all’azienda di trovare il capitale è il mercato. È il miglior meccanismo, perché se l’azienda va bene trova tutti i capitali. Noi ci siamo rivolti al mercato tre volte e abbiamo trovato tutti i capitali per crescere. Siamo una società di media dimensione nel campo della produzione elettronica, produciamo i chip, che sono il cervello e il cuore di qualsiasi apparato elettronico e sono alla base della rivoluzione dell’informazione che viviamo oggi. È un settore di lavoro favoloso, nei passati trent’anni è cresciuto del 15% annuo, ed è facile che continuerà così per i prossimi vent’anni.

Certo ci sono dei piccoli problemi. Queste crescite sono talora del 40% ed altre volte del 18%, con delle oscillazioni terribili che impongono caratteristiche di flessibilità particolari al nostro settore. È inoltre estremamente competitivo: i maggiori concorrenti sono americani, giapponesi, coreani, qualche europeo; si affacciano ora taiwanesi e cinesi. È un settore capital intensive e braining intensive. Le spese di ricerca in questo settore sono circa l’11% del fatturato: la nostra azienda ne investe ancora di più, il 16/17%.

Oggi la ST è una società media, si piazza al nono posto mondiale sui 150 circa operatori in questo settore. Abbiamo un fatturato che l’anno scorso è stato di 7500 miliardi, con un utile netto dopo tasse di 750 miliardi: il 10% netto. Abbiamo un net financial position cioè siamo in attivo dal punto di vista finanziario, abbiamo 300 milioni di dollari in positivo e non abbiamo debiti. Continuiamo a investire e crescere in Italia e nei paesi in cui operiamo.

La ST nasce dalla fusione di una società italiana, dell’IRI, e di una società francese del gruppo Thompson. Quando siamo nati, eravamo piuttosto deboli, perché allora tutto il settore della microelettronica era estremamente debole in Europa, e si dubitava addirittura che potesse sopravvivere. Abbiamo puntato sull’innovazione. Questo ha fatto sì che in Italia non siamo scappati, non ci siamo trasformati, ma evoluti. Negli ultimi anni abbiamo continuato a investire al ritmo di 600 miliardi all’anno di cui 300 nel Sud Italia, circa la metà. Spendiamo circa 400 miliardi all’anno in Italia di ricerca, di cui 60% al Nord e 40% al Sud. E continuiamo ad assumere 500 o 600 persone all’anno, che non è male di questi tempi, di cui oltre la metà al Sud. Cresciamo al Sud più rapidamente che al Nord.

Per noi il tema fondamentale è stato come si posiziona la ST nel mondo perché operiamo in un mondo globale: abbiamo stabilimenti in tutto il mondo – Francia, Marocco, America, Taiwan –, quindi possiamo osservare da una posizione privilegiata. Ebbene, da questo osservatorio privilegiato, io credo di poter dire che l’Italia ha oggi un enorme, importantissimo vantaggio competitivo. In un settore che spende come noi dal 15% in su di ricerca, l’innovazione è fondamentale. Il fattore innovazione si fa sia con gli investimenti ma soprattutto con le risorse umane: quantità, qualità, preparazione, stabilità. In questi termini l’Italia ha un vantaggio competitivo enorme. Abbiamo un eccellente collaborazione con le università. L’Università di Catania è stata la prima con cui abbiamo stabilito grandi rapporti di collaborazione. L’abbiamo col Politecnico di Milano, con l’Università di Pavia. L’abbiamo con una varietà di università in Italia dove la formazione è eccellente.

La ricetta per un’azienda come la nostra è continuare a delocalizzare le attività ad alto contenuto di lavoro e a basso contenuto di intelligenza. Abbiamo creato 4000 posti di lavoro in Marocco: questo è un bene anche per l’Italia, perché è meglio tenere i marocchini in Marocco che farli venire in Italia. D’altra parte col costo del lavoro di 4 dollari all’ora non posso competere dove ci sono alti contenuti manuali col costo del lavoro che c’è in Italia di 25 dollari all’ora. Però in Marocco non ho gli ingegneri, i periti e i chimici che ho invece a Catania. In questo mix di delocalizzazione si distribuisce il lavoro ad alto contenuto di manodopera dove costa poco e il lavoro di alto contenuto intellettuale dove c’è un paese evoluto. E cresciamo sia in Italia che in Marocco, a Singapore, in Cina, negli Stati Uniti. La nostra società cresce parallelamente.

Se si tratta di alta tecnologia, l’Italia è competitiva per il valore competitivo del cervello: questo valore al Sud Italia è ancora più competitivo, perché quello che ci vuole è la preparazione, la quantità, la stabilità, che nel Sud Italia sono i migliori del mondo sviluppato.

Colaninno: Quando io andai in Olivetti, la situazione era piuttosto grave. Con il Ministro Bersani abbiamo passato momenti estremamente pesanti e brutti. Però c’è stato un lieto fine imprevisto e imprevedibile. Dividerei la storia in tre momenti.

Il primo è il momento in cui nessuno italiano ha messo una lira in Olivetti, e i soldi li ha dovuti mettere un tedesco a Mannersburg. Sono scappati via tutti. Sono scappati quelli che avevano contribuito alla storia e allo sviluppo dell’Olivetti, sono scappati i fondi, è scappato il mercato finanziario. Alcune banche coraggiose italiane sono rimaste perché dovevano rimanere. Ci si auspicava che qualcuno comprasse l’Olivetti come un desiderio di disfarsi di un qualcosa di brutto che faceva male e che non poteva più avere vita, come se fosse un pacchetto da regalare. Qualcuno pensava che certi comportamenti erano folli, irrazionali, visionari, arroganti. L’Olivetti ha così trovato una società tedesca che ha avuto fiducia e ha messo i quattrini.

Dopo questo, inizia il secondo momento: l’Olivetti passò da cosa da non vedere e neanche toccare ad un’azienda che si era messa in testa di restare un’azienda italiana e aggregare intorno a sé grandi azionisti. Questo era ritenuto impossibile. Arrivò la storia con la Telecom. In questa storia, nasce un rapporto fiduciario e quattro banche, tre americane e una italiana hanno accettato il rischio di mettere a disposizione una cifra incredibile: 117 mila miliardi.

Siamo così riusciti – ed è la terza fase – a spendere parte di questi miliardi sulla Telecom. Partimmo per l’OPA, corredo un grosso rischio. Abbiamo acquistato il 52% di Telecom. Ho avuto manifestazioni da parte del settore finanziario straordinarie, sia italiane che non.

Personalmente, non sono contro il mercato internazionale: il mercato è questo. I capitali devono andare dove ci sono uomini e opportunità. Lo sviluppo e il lavoro non possono essere fatti per legge, sarebbe troppo comodo. Bisogna avere il coraggio delle proprie idee, bisogna avere la serietà nei comportamenti per avere un credito, bisogna essere coerenti con le cose che si dicono, non bisogna ingannare, non bisogna dire falsità. Certo si possono fare errori, penso che sia abbastanza illogico pensare che uno non possa commettere errori. Però poi bisogna avere il coraggio di denunciare gli errori e di cercare di rimediare.

Lo sviluppo non si fa né con il monopolio, né con le barriere, né con le trincee: si fa con la competizione, si fa misurando il proprio impegno, il proprio lavoro di tutti i giorni con la certezza che il giorno in cui non si funziona più, bisogna andare a casa. Se uno pretende di rimanere in una posizione con delle responsabilità e una autorità ormai inadeguate, si creano i privilegi e si creano i disastri.

Carraro: Nelle prospettive della crescita economica del paese, abbiamo due strade da seguire: quella di modernizzare al massimo l’industria e quella della creazione dal nuovo. Io vengo da una industria metalmeccanica, molto internazionalizzata e molto avanzata da un punto di vista organizzativo. Nel nostro campo, la componentistica destinata ai trattori e alle macchine movimento terra, bisogna intendere la globalizzazione e l’internazionalizzazione in termini reali. La nostra industria ha unità in Corea del Sud, in India, in Argentina: noi andiamo là dove ci sono i clienti.

Quello che deve cercare l’Italia e anche l’Europa è di individuare le linee dello sviluppo nell’ammodernamento dell’esistente ma anche nella creazione del nuovo, sotto l’aspetto sia dei livelli produttivi che dei servizi. Non possiamo soltanto immaginare la crescita in termini industriali ma dobbiamo avere un concetto di crescita in termini economici.

Per quanto riguarda la parte esistente, la nostra azienda opera un grande sforzo di rinnovamento tecnologico nei mezzi di produzione, dando molta enfasi alla ricerca, all’innovazione del prodotto, alla individuazione di nuovi settori. Oggi la crescita si fa nell’alta tecnologia, nelle biotecnologie, nei servizi, nella diffusione degli strumenti di comunicazione, che purtroppo sono tutti settori nei quali il nostro paese è assente. Dobbiamo anche avere l’attenzione a una nuova cultura produttiva: il gruppo Carraro occupa 1300 persone, delle quali 500 sono al computer. Questo significa creare una diffusione dei sistemi estremi, e di strumenti come Internet o Extranet, che creano un collegamento gestionale organico da una parte con i clienti, dall’altra con i fornitori. Abbiamo bisogno di dare un impeto nuovo alla gestione dell’azienda: in una cultura di contatti, noi abbiamo generato molta innovazione, malgrado i lacci e i lacciuoli di cui normalmente ci si lamenta come industriali. Questa è la grande sfida delle relazioni industriali, che consentano la flessibilità e che permettano di organizzare il lavoro attraverso le trasformazioni immense che ci troviamo a dover prendere in esame.

Il primo aspetto, l’ammodernamento dell’esistente, si salda così con il secondo, la creazione del nuovo. Occorre cercare il nuovo, e in Italia non è facile, perché abbiamo alcune industrie eccellenti sui prodotti classici, ma quando andiamo sulle aree innovative siamo sempre all’ultimo posto. Non possiamo solo augurarci di continuare a vendere i telefonini, dobbiamo anche preoccuparci di una gestione tecnica della comunicazione, in grado di dare un apporto creativo nella gestione delle nostre aziende. Per questo, dobbiamo domandare che anche le nostre università ci diano strumenti sui quali possiamo crescere, strumenti per la modernizzazione, per confrontarci per lo sviluppo nuovo.

Purtroppo, il nuovo spesso genera inquietudine, ma è l’unica strada dell’autentico sviluppo.

Pistorio: Dall’angolo del settore in cui lavoro, vorrei fare ancora qualche osservazione. Noi lavoriamo in un mondo globale. I capitali si spostano dove vengono remunerati, non si attirano con le leggi, si attirano creando le condizioni di investimento che possono remunerare il capitale. Noi viviamo in un mondo globale dominato, nel nostro settore, dalla rapidità di risposta con cambiamenti sempre più celeri. Ho già detto dove come paese siamo competitivi: nella disponibilità, nel costo del cervello, nella competitività della risorsa umana.

I settori in cui l’Italia può migliorare, sono tre: flessibilità, risposta burocratica veloce – non si possono aspettare dei mesi o dei trimestri, bisogna rispondere velocemente – e certezza che qualsiasi programma agisca in un quadro prevedibile.

L’Italia può anche migliorare le infrastrutture; il Nord non è inferiore in infrastrutture al resto dell’Europa, a differenza del Sud, dove quello delle infrastrutture è ancora un grosso problema. Qui tocchiamo un altro punto di possibile miglioramento: il Sud. Per lo sviluppo del Sud, il governo le pre-condizioni che il governo deve considerare sono: una continua lotta alla criminalità, la appena citate infrastrutturre e la flessibilità del costo del lavoro.

Colaninno: Vorrei toccare tre punti sulla ricerca e sull’innovazione: istituzioni pubbliche, scuola e lavoro.

Il dubbio che le grandi istituzioni finanziarie avevano sulla riuscita della OPA sulla Telecom era dovuto proprio alla prima questione, cioè al peso delle istituzioni pubbliche: la legislazione, il rapporto con la politica, la burocrazia… Nel caso in questione, il rapporto con il governo è stato presente ed equilibrato, così come è stato assente se doveva restare assente; non c’è stato alcun momento di attrito, non c’è stato un momento di discorsi che potevano far pensare a trame particolari.

Per quanto riguarda la scuola, è ormai chiaro che bisogna portare i giovani ad una cultura diversa dal punto di vista della innovazione, della tecnologia e della ricerca. Bisogna dunque innovare l’università e la scuola.

Infine, per quanto riguarda il mondo del lavoro, è chiaro che tutti a parole sono per il futuro e per lo sviluppo; ma per fare questo occorre una volontà da parte di tutti di innovare tutto quello che sta intorno all’innovazione stessa. In Omnitel e Infostrada, ad esempio, abbiamo sperimentato un nuovo modo di lavorare dovuto forse all’età media dei lavoratori, che oscillava tra i 25 e i 26 anni. L’assenteismo era quasi zero, non abbiamo dovuto fare nessun accordo sindacale in tema di flessibilità, in tema di durata di lavoro, in tema di turnazione. I turni erano di quattro ore, si lavorava il sabato, la domenica, di giorno, di notte, non c’è mai stato un attimo di frizione; questo nuovo modo di lavorare, questo nuovo modo di porsi tra cliente e lavoratore, ha dimostrato a cosa possano portare le novità. Certo occorre coraggio, anzitutto da parte dei sindacati, occorre il coraggio di rompere certe strutture; l’esperienza ha dato i suoi frutti; Omnitel e Infostrada, in tre anni, hanno assunto direttamente circa 8000 persone nel Nord e nel Sud, 8000 persone giovani tra diplomati e laureati.

Carraro: L’immagine del nostro paese non è un’immagine buona: la risposta che l’ingegnere Colaninno ha avuto dal governo, dalla burocrazia dello Stato è sicuramente lodevole, ma vorrei che gli stessi elogi li potessero fare i piccoli industriali.

Sul problema della scuola, vorrei scendere nel concreto: non basta dire innoviamo, occorre porre i target di questa innovazione. Non è più ammissibile che le università laureino i ragazzi a 27, 28 anni: abbiamo bisogno che le lauree siano lauree giovani e portino elementi di dinamismo all’esterno. Abbiamo bisogno di dare un preciso disegno politico alla modernizzazione del paese, all’interno di un quadro ben preciso.

Vorrei fare riferimento ad una trasformazione dello Stato molto importante: il federalismo. Io credo che questa forma di governo sia importante non soltanto per le regioni del Nord, ma anche per quelle del Sud. Già don Sturzo e Salvemini, nei primi anni del Novecento, dicevano: "Dal federalismo partirà il riscatto del Sud", ed è questa la grande sfida. In questo grande progetto possiamo recuperare l’immagine di un paese che è già forte ma che manca di contatti internazionali.

Bersani: Abbiamo un compito enorme nel determinare condizioni favorevoli a tutto il sistema industriale italiano, un sistema fatto di milioni di piccoli imprenditori o piccolissimi, e che deve quindi anche selezionarsi verso le nuove avventure avendo un contesto ancora più favorevole di quello di oggi.

Vorrei ribadire i punti di una politica economica e industriale, che non sia una politica statalista, ma che sia una politica delle condizioni prossime allo sviluppo e all’impresa.

Il primo punto consiste nel creare condizioni normative, tramite gli strumenti del trasferimento di capitale e del capitale di rischio. Questo significa lo sviluppo del mercato borsistico, del mercato dei capitali, lo sviluppo dei fondi pensione; le banche da parte loro devono mettersi in rete, avere strumenti nuovi, specializzati, avere più fiducia nelle possibilità dell’imprenditore, legarsi di più alle sue avventure.

Il secondo punto riguarda il fisco: l’assetto fiscale deve orientarsi ancora di più a sostenere chi ci prova. L’evoluzione normativa è ancora nebulosa nella comprensione di tanti. Io sono convinto che questa normativa, via via, si dimostrerà capace di incoraggiare l’investimento. Noi abbiamo, come altri paesi europei, una pressione fiscale troppo rilevante. Dobbiamo quindi recuperare margini per una progressiva riduzione del carico fiscale.

Per quanto riguarda le flessibilità, anche io sono convinto che noi dobbiamo perseguire, discutendo con i sindacati, i passi della flessibilità. Alcuni sono stati fatti; ora dovremmo scegliere una strada da seguire. L’esperienza olandese è da questo punto di vista molto interessante. È una flessibilizzazione del mercato del lavoro, non è la creazione di 10.000 mercati di lavoro; in nome della flessibilità infatti occorre stare attenti a non incoraggiare una regressione qualitativa del nostro apparato produttivo. La flessibilità deve sostenere l’innovazione, le nuove organizzazioni, in un mercato del lavoro complessivamente più evoluto. Le liberalizzazioni, le privatizzazioni: sono i terreni sui quali possiamo creare occasioni di sviluppo industriale.

L’ultima osservazione riguarda i nuovi settori, già più volte citati: questi settori hanno bisogno di sostegno, anzitutto di sostegno alle tecnologie. Settori come l’aeronautica, la microelettronica, le biotecnologie, occupano una posizione strategica nel mercato e nell’espansione industriale dei paesi; dobbiamo fare dei passi avanti anzitutto in questi settori.