Assemblea Nazionale della Compagnie delle Opere

Sabato 28, ore 11

Relatori:

Giuseppe Nazzaro

Alfredo Picchioni

Joseph M’Ervaki

Fiorenzo Priuli

Krzysztof Prokop

Moderatore:

Giancarlo Cesana

 

Cesana: La Compagnia delle Opere è un’associazione di solidarietà tra persone e imprese, laddove la parola solidarietà, che significa aiuto, sostegno, non riguarda solo gli interessi umani ed economici, ma soprattutto il più grande interesse dell’uomo, che è la ragione del vivere, il motivo per cui si vive e per cui si agisce. La Compagnia delle Opere è un aiuto allo scopo dell’impresa, dell’azione. L’incontro di oggi sarà proprio su questo aspetto, cioè sullo scopo, sulla comunicazione dell’ideale che anima molti fra di noi in ciò che fanno. E quindi, sull’aspetto missionario della creazione di opere, della proposta di opere. I personaggi che abbiamo qui testimonieranno la forza di questo ideale che agisce. Le loro esperienze sono tutte avvenute all’estero e fanno quindi vedere la dilatazione di rapporti e di nessi che la Compagnia delle Opere sta avendo negli ultimi anni.

Padre Giuseppe Nazzaro, dell’ordine dei Frati Minori francescani, è stato segretario della Custodia della Terra Santa dal 1986 al 1992; durante questi ultimi anni, ha avuto occasione di trattare con le autorità religiose e civili di Israele. E’ stato eletto Custode di Terra Santa e, dopo la conferma data dalla Santa Sede, è stato istituito, nominato e dichiarato Ministro Generale nell’aprile del ‘92

Nazzaro: E’ da secoli che noi francescani ci troviamo in Terra Santa, terra che è stata sempre di conflittualità. Le ragioni religiose si sono confuse con le ragioni politiche o sono diventate ragioni puramente politiche e così questa terra è stata sempre contesa da cristiani, musulmani, crociati, arabi, turchi; ora da palestinesi da una parte e da ebrei dall’altra, mentre le nazioni non stanno certo a guardare, ma fiutano la direzione del vento dei propri tornaconti. Contesa con le armi o contesa con le ideologie, o con le une e le altre insieme.

Noi francescani siamo arrivati in Terra Santa nel momento della contesa crociata. Tutto il mondo sa con quale spirito venne in Terra Santa San Francesco, proprio tra i fuochi incrociati dell’esercito cristiano e di quello dell’Islam. Francesco ci inviò in questa terra quando decise di dividere il suo giovane ordine in provincie nel 1217. Ci visitò durante il suo celebre viaggio ecumenico fra il 1219 e il 1220, e ci radicò con quel suo spirito in questa terra. Dovevamo essere uomini di pace, al di sopra di ogni sospetto, se quando i reali di Napoli riscattarono il Santo Sepolcro e il Santo Cenacolo (1333), pensarono di poterne affidare la Custodia e l’officiatura a noi Francescani. E accettammo tale responsabilità in nome e per conto di tutta la cristianità. Un Papa, Clemente VI, ce ne diede il mandato (1342).

Uomini di pace, ma tuttavia, senza nascondere la nostra identità cristiana: in circa otto secoli di presenza, ci hanno ammazzato a centinaia, a causa di questa identità. Oggi ci troviamo ancora, come sempre, tra fuochi incrociati, fra la causa palestinese e la causa ebraica. La nostra posizione di uomini di pace non ci lascia certo estranei o indifferenti nella contesa. Ci rendiamo ben conto delle sofferenze del popolo arabo da quando è nato lo stato di Israele, e nella sua successiva attività espansionistica, affermatasi con le armi e nella fatale logica della guerra. Nessuna guerra è santa. E ogni logica di guerra crea solo soprusi, ingiustizie, sofferenze e barbarie. La Custodia di Terra Santa ha sempre condiviso sin dall’inizio, sin da quando si cominciò a parlare di uno stato di Israele da creare sullo smembramento della Palestina, la facile profezia delle drammatiche conseguenze che tale fatto avrebbe avuto: l’esodo del popolo palestinese. Era la profezia della sede apostolica, delle chiese locali, cattoliche e non cattoliche, e della stessa gente. Oggi la vicenda è già storia. E sembra abbia raggiunto posizioni sostanzialmente irreversibili. Le nazioni ne prendono atto, in qualche misura lo stesso popolo palestinese.

In questa situazione noi vogliamo stare da Francescani: siamo in qualche modo come quelle squadre di soldati senz’armi che nella tregua tra una battaglia e l’altra, raccolgono i morti e curano i feriti. Siamo testimoni attivi della sofferenza di un popolo. La situazione dei palestinesi è nota; nei territori occupati, e specialmente nella striscia di Gaza, l’occupante israeliano fa sentire la sua presenza in modo sempre più duro. Espropriazione di terre, espulsioni, aumento degli insediamenti, arresti, interdizione dell’attività politica, limiti imposti alla costruzione di case: un dramma purtroppo sempre più vivo da quarant’anni. Quasi un milione di arabi è stato costretto ad abbandonare la propria terra, per ridursi alle condizioni subumane dei campi di profughi dei paesi arabi confinanti. Ormai non si deve parlare più di ebreo errante, ma del palestinese errante. L’esodo continua, soprattutto dopo l’"intifada" che ormai dura da sei anni, tanto da indurre alcuni alla previsione che fra trent’anni non ci saranno più cristiani in Medio-Oriente.

Nel nostro piccolo, cerchiamo di smentire la triste previsione e di frenare questo esodo, con la nostra attività, la Caritas evangelica. Tutta la nostra attività pastorale, intesa come servizio diretto all’uomo e al povero, mira evidentemente a rendere vivibile la vita delle nostre comunità e ad aiutarle a voler restare fedeli alle proprie radici. Ciò non solo limitatamente alla Terra Santa, ma in tutta l’area geografica in cui la Custodia opera: Israele, Giordania, Egitto, Siria, Libano, Cipro, Rodi, attività che vede impegnati oltre 250 francescani, provenienti da ventidue nazioni. Questo nostro servizio è svolta mediante una vasta gamma di strutture pastorali: quaranta parrocchie fra Israele, Egitto, Siria, Libano, scuole e collegi, case per studenti: circoli parrocchiali e poi orfanatrofi, doposcuola, laboratori femminili, ambulatori... Potremmo chiamare tutto questo pastorale di intervento sociale, ma preferiamo chiamarla Caritas che nasce dal Vangelo di Cristo. I pellegrini che vanno in Terra Santa incontrano i francescani quasi esclusivamente nei santuari, e non sempre si rendono conto della loro presenza in campo pastorale e meno ancora, del loro impegno per le fasce sociali più povere della popolazione cristiana e non cristiana. Farò qualche esempio. Nel settore dell’infanzia povera, la Custodia è impegnata con gli orfanotrofi, i due femminili e maschili di Gerusalemme, attivi da circa un secolo. Nel campo dell’assistenza agli anziani abbiamo il Rest Home di Larnaga, a Cipro e la casa degli anziani nella Collina del tremore a Nazareth. L’assistenza e cura degli ammalati vede presente la Custodia con i suoi molti dispensari, in cui si avvale della collaborazione di medici, infermieri e religiose; questa opera è particolarmente fiorente in Egitto, Siria e Cipro. In Egitto l’opera orientale ha anche aperto un centro per bimbi poliomelitici. La Custodia ha istituito e sostiene da qualche secolo l’opera delle case e degli affitti, allo scopo di aiutare i più poveri, contribuendo alla soluzione del problema fondamentale della casa. Nelle condizioni particolari della Terra Santa, l’opera intende consolidare le comunità cristiane dei luoghi santi ed impedirne l’esodo cui costringe in misura crescente la situazione politica della Palestina, ed in particolare di Gerusalemme. La Custodia offre, nella sola Gerusalemme, 357 alloggi, per i quali gli inquilini non pagano alcun affitto, o danno solo una cifra simbolica per riconoscerne la proprietà. Altri 35 alloggi sono presi in affitto dalla Custodia, e offerti gratis ai poveri. Recentemente, la Custodia ha costruito 42 appartamenti in un quartiere a nord di Gerusalemme, e li ha dati a famiglie cristiane che pagano 1/3 dell’affitto normale. Progetti del genere sono in preparazione a Nazareth, in Betania. Nella assegnazione degli alloggi, si prescinde dal rito di appartenenza di chi ne fa richiesta.

Un impegno che vede la Custodia aperta alla opzione per i poveri, e nello stesso tempo alla formazione culturale dei giovani cristiani è quello delle borse di studio. Le borse di studio sono concesse dalla Custodia a giovani qualificati di ambo i sessi che intendono proseguire gli studi superiori, in istituti universitari nel Medio-Oriente. L’assistenza è completa se fatta a giovani le cui famiglie non sono in grado di concorrere in alcun modo alle spese di studio; parziale, se le famiglie possono agevolmente contribuire in qualche misura. Fedele al suo passato che l’ha vista presente nel campo dell’attività pedagogica, la Custodia di Terra Santa dispone ancora oggi di scuole e collegi efficenti e richiesti. Sono aperti a tutti i ragazzi senza alcuna distinzione di religione, nazionalità e razza. Le diverse condizioni socio-politiche della vasta area di pertinenza della Custodia ne determinano una densità diversa da nazione a nazione. L’impegno in questo campo esige uno sforzo notevole sia sul piano organizzativo che su quello finanziario. Le possibilità degli alunni sono sempre ridotte: molti appartengono a famiglie indigenti, e sono accolti gratuitamente anche nei corsi successivi alla scuola d’obbligo. Le scuole della Custodia sono in Israele, Giordania, Cipro, Egitto, Libano; complessivamente 15 con un totale complessivo di oltre 10.000 alunni tra cattolici latini, greci armeni, siriani, copti, maroniti, caldei e non cattolici, non cristiani. Approssimativamente si può indicare una percentuale del 60% di cristiani. La presenza di varie denominazioni di cristiani fa capire quanto spazio e quanto impegno si offra alla Custodia di Terra Santa, per l’attività della evangelizzazione: è la nostra scelta. Il servizio sociale, della carità, il servizio alla persona vista nel suo immediato e concreto presente, è il nostro percorso privilegiato sul quale passa il nostro contributo alla pace. La caritas evangelica è per noi l’intenzione pura per raggiungere un traguardo di altrettanto pura origine evangelica in una vita vivibile, lo svelenimento degli animi, per liberarli dalla disperazione che porta alla violenza, fonte di altre sofferenze per tutti, e pretesto ad altri muri che rendono la via della pace un vicolo sempre più cieco.

Il nostro servizio in Terra Santa si sviluppa anche su altri percorsi: l’attività ecumenica, l’attività scientifica, ma l’opzione più direttamente umanitaria è quella più congeniale a noi francescani, quindi è il nostro percorso preferenziale. E’ il meno clamoroso: salire sulle barricate della protesta o del sostegno ideologico della violenza, ci metterebbe più in vista, ma probabilmente ridurrebbe anche le nostre possibilità di tenere queste posizioni di servizio alle comunità. Anche noi del resto, sentiamo in molti modi la presenza dell’occupante, e soprattutto non godiamo di nessun privilegio né di particolari simpatie. Quando è stato necessario, abbiamo levato anche noi la nostra voce, in piena comunione con il nostro Patriarca, e con le altre chiese cristiane di Gerusalemme, specialmente in alcune giornate particolarmente drammatiche dell’intifada. E comprendiamo anche come possano nascere le scelte della protesta e della stessa violenza. Riteniamo la nostra operosità pacifica, congeniale allo spirito di S. Francesco, e alla pax francescana di cui troviamo la eco in uno dei testi più interpretativi del nostro progetto di vita: "Non provocate nessuno all’ira o allo scandalo, ma tutti siano attirati dalla vostra mitezza". Questa è la nostra vocazione: curare le ferite, fasciare le fratture. Francesco voleva che abbondassimo di opere buone. Altri, possono fare altre scelte, ognuno secondo la missione che gli è affidata dall’alto; noi restiamo fedeli alla nostra.

Padre Alfredo Picchioni, salesiano, sacerdote missionario nel Medio-Oriente da oltre 51 anni, dal 1984 è padre provinciale dei salesiani della regione del Medio Oriente, ed è responsabile, oltre che dei salesiani, di una ventina di opere, scuole, centri giovanili per i giovani dei vari paesi di tre continenti: Europa, Asia, Africa, e in nove nazioni: Iran Turchia, Israele, Siria, Libano, zona occupata palestinese, Egitto, Etiopia, Eritrea

Picchioni: Parto dalla parola di Dio: "Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati, colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Animati tuttavia da questo stesso spirito di fede, di cui sta scritto: "Ho creduto e perciò ho parlato" (Sal 115,10), anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a Lui insieme con Voi" (II Cor. 4,5-18).

E’ questo l’ambiente e la situazione ed il clima in cui si situa la mia testimonianza sui Salesiani di Don Bosco e delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che da 100 anni operano nel Medio-Oriente. E’ l’atmosfera e l’ambiente di ieri, dei tempi di Gesù, degli apostoli, di Paolo e della Chiesa nascente, ed è l’ambiente di oggi, della Chiesa che è nel Medio-Oriente, e di noi che vi lavoriamo. "Accade qualche cosa da Oriente", oggi come ieri. E’ la grande novità, la sola novità, la novità del Cristo che ci salva e che continua il suo cammino per mezzo della Chiesa, dei missionari, e degli uomini di buona volontà. Ambiente e atmosfera di lotta, di guerra, di persecuzione, di stato di precarietà e di instabilità, di difficile coabitazione tra i vari gruppi etnico-religiosi, di incontro e scontro di ideologie e di interessi contrastanti, e nello stesso tempo di "gran voglia" di accedere alla propria autonomia economica, culturale e tecnologica. Duecentocinquanta milioni di abitanti, sparsi su cinque milioni di chilometri quadrati di territorio, diversi per nazionalità (11 stati: Iran, Turchia, Siria, Libano, Giordania, Cisgiordania, Israele, Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea), per cultura e lingua: araba, turca, persiana, ebraica, aramaica, francese, inglese, con un forte tasso di analfabetismo, che va dall’87% in Etiopia e Sudan, al 21% in Libano, e di presenze rurali: 120 milioni, ovvero circa il 50%, per religione; nel Medio-Oriente convivono sette grandi gruppi religiosi: i musulmani (170 milioni, l’80%), i cristiani (36 milioni, il 16%), gli ebrei (5 milioni, il 3%) a cui aggiungiamo piccoli gruppi come Drusi, Zoroastriani, Bahaiti, Animisti.

In questo mondo così complesso, variegato e difficile, da cento anni operano i Salesiani di Don Bosco con le suore Figlie di Maria Ausiliatrice. Con un rapido sguardo retrospettivo, facciamo breve memoria del passato e contempliamo la meravigliosa storia di una realtà attuale per guardare profeticamente al futuro come messaggio e programma di speranza di vita.

I Salesiani e le Suore di Maria Ausiliatrice, chiamati dal canonico Belloni, zelante sacerdote del Patriarcato latino di Gerusalemme, soprannominato Abul Yatama (Padre degli orfani), arrivarono in Terra Santa, a Betlemme, nel 1891. Erano 25 Salesiani e 5 figlie di Maria Ausiliatrice, destinati ad occuparsi principalmente degli orfani e della gioventù, maschile e femminile, povera ed abbandonata. Era l’inizio umile, timido e silenzioso di una esaltante avventura, che verrà ad inserirsi nella storia dello sviluppo di quell’avvenimento, la novità che è alla base della nostra fede: la lieta novella di Cristo Salvatore. E’ qualche cosa di nuovo che accade in Oriente, che avrà come protagonisti i Salesiani di Don Bosco e di Madre Masarella.

Fedeli a Don Bosco, al suo carisma, al suo spirito, solidali col mondo medio-orientale e la sua storia, con fede, con ardore e con tanta speranza, si misero subito al lavoro, per educare ed evangelizzare, secondo un progetto di promozione integrale dell’uomo e della donna orientato a Cristo. Ciò comportava una speciale scelta educativa e pastorale: lavorare in ambienti popolari e per i poveri; educarli alle responsabilità morali, professionali e sociali, collaborando con loro; contribuire alla promozione del gruppo e dell’ambiente; partecipare in qualità di religiosi alla testimonianza e all’impegno della Chiesa per la giustizia e la pace, rimanendo indipendenti da ogni ideologia e politica di partito (cosa non facile in Oriente, specie per i religiosi del paese), rifiutare tutto ciò che favorisce la miseria, l’ingiustizia e la violenza, e cooperare con quanti costruiscono una società più degna dell’uomo. Non furono poche le difficoltà degli inizi: la lingua, la mentalità, l’essere stranieri, la novità; ma a poco a poco il progetto decollò e furono aperte otto presenze, quattro delle figlie di Maria Ausiliatrice, quattro dei Salesiani (Betlemme, Beit Genal, Cremisan e Nazareth). Il seme gettato cominciava a crescere, a produrre buoni frutti. Le richieste dai vicini stati cominciarono ad arrivare, ed in pochi anni iniziò l’esodo dalla Terra Santa verso l’Egitto, la Turchia, il Libano, la Siria fino a oggi, in undici paesi.

Il cammino non fu facile né breve, né privo di gravi sofferenze. Vinse solo la fede dei primi missionari, la loro tenacia, il loro spirito di sacrificio ed il grande amore per la salvezza dei giovani. Per cui oggi possiamo con ammirazione e con riconoscenza, contemplare le meraviglie che ci hanno lasciato.

Veniamo ora alla storia di una realtà attuale. I Salesiani oggi, a cent’anni di distanza, sono 160 nel Medio Oriente, di 17 nazionalità. Operano in 9 stati con 21 presenze: 2 in Iran, 2 in Turchia, 4 in Siria, 1 in Libano, 2 in Cisgiordania, 2 in Israele, 3 in Egitto, e 4 in Etiopia e prossimamente anche in Eritrea.

Il più consistente apporto educativo è dato dalle presenze scolastiche: 5 scuole primarie, 8 secondarie, 5 professionali e 4 di addestramento al lavoro. Sono circa 2.000 i giovani diplomati che escono dalle nostre scuole ogni anno. Particolarmente apprezzate, sia dalle autorità civili e governative, sia dalle famiglie cristiane e non cristiane, sono le scuole professionali. Potremmo considerarle un po’ come il fiore all’occhiello per l’immediato aiuto che ne riportano i giovani stessi, che non possono accedere all’università; sono molto ricercati e possono trovare subito lavoro e guadagnarsi da vivere. Non va dimenticata la preziosa opera degli oratori e centri giovanili. Sono 17. Svolgono un ottimo lavoro formativo sociale, di convivenza mista (musulmani e cristiani, ragazzi e ragazze), di inserimento nel territorio e nella Chiesa locale e di attività di gruppi, di catechesi e di occupazione del tempo libero. L’oratorio è un’espressione apostolica che può cambiare la città se ben sfruttato e organizzato.

Preziosa è pure l’opera di assistenza agli emigrati, agli sfollati, ai rifugiati; l’assistenza sociale per gli orfani, le famiglie povere, gli studenti più bisognosi, l’alfabetizzazione per adulti e giovani.

Accanto ed insieme a noi Salesiani, lavorano le Figlie di Maria Ausiliatrice, impegnate nell’educazione e formazione della gioventù femminile e nella promozione della donna. Attualmente sono 130, presenti in 5 nazioni (Israele, Giordania, Siria, Libano, Egitto), con 15 opere delle quali 12 scuole, giardini di infanzia, scuole primarie e secondarie, con migliaia di allieve, 13 oratori e centri giovanili, 7 centri di promozione della donna con laboratori di taglio-cucito, ricamo, igiene familiare, dattilo-computeristica, centri di alfabetizzazione e centro ospedaliero molto apprezzato.

Non mancano tentativi di apostolato fatti insieme, per ragazzi e ragazze, musulmani e cristiani, con buoni risultati, anche se si deve andare ancora con gradualità per non suscitare invidie, gelosie e reazioni da parte sia dei musulmani come dei non cattolici.

Ma "La carità di Cristo ci sollecita", ci spinge, il "Da mihi animas" di Don Bosco ci spinge... il sogno e l’avventura, iniziata cento anni fa, deve continuare. Occorrerà affrontare con coraggio le nuove sfide che ci provengono dai giovani stessi e dai vari territori dove operiamo, ‘le nuove povertà‘ ed i ‘nuovi bisogni’, le ‘nuove emergenze’ per un intervento massiccio ed efficace. E’ quello che ci proponiamo di fare nell’immediato futuro, confidando innanzitutto, come Paolo, nella presenza e nell’aiuto dello Spirito, e come Don Bosco, nell’assistenza materna di Maria Ausiliatrice.

Ai Salesiani però e alle Figlie di Maria Ausiliatrice, e a quanti come noi, religiosi e laici, sono impegnati nel lavoro missionario nel Medio-Oriente, vorei lanciare un accorato e fraterno appello. Lo sento necessario ed urgente. No alla paura che frena, paralizza e scoraggia; no all’abbandono, all’ammaina bandiera, segno di sconfitta; no all’ingiustizia, alla violenza, e alla violazione dei diritti dell’uomo, da chiunque venga, no ad ogni forma di discriminazione razziale, religiosa e sociale; no ad ogni forma di integralismo e di oltranzismo ideologico, religioso e politico. Invece: sì allo sforzo di accettazione reciproca; sì all’impegno di apertura e di dialogo, sì alla convivenza pacifica; sì alla pace fra i popoli.

Joseph M’Ervaki, studente, è docente presso la scuola tecnica di S. Kizito di Eldoret in Kenya

M’Ervaki: Il lavoro è un modo di esprimere l’umanità. Nell’ambiente in cui vivo, ci sono molte persone che hanno bisogno di lavoro, ma non sono lavoratori, perché manca loro la professionalità, il "know-how" del lavoro. A Nairobi, la capitale del Kenya, la disoccupazione è un problema grave per gli studenti che escono dalle scuole primarie e secondarie, dopo aver completato gli studi. Il problema è più acuto per coloro che vivono nelle parti più povere della città. Queste persone sono incapaci di affrontare i bisogni fondamentali della vita. Il problema della disoccupazione è dovuto alla mancanza di conoscenze pratiche e tecniche. La Chiesa cattolica di Nairobi è particolarmente sensibile a questo problema. Per rispondere a questo problema, il Card. Maurice Otunga ha chiesto ai volontari dell’AVSI di preparare un progetto e istituire una scuola tecnica a Nairobi. Dopo aver considerato seriamente la proposta del Cardinale, siamo giunti alla costituzione del Centro di Formazione Professionale di S. Kizito. Il centro intende offrire i seguenti corsi: tecnologia della stampa e data processing – per esempio operatore di computer – fabbro, officina meccanica, arti tradizionali africane, impianti elettrici ed altre fonti alternative di energia, falegnameria e muratura. Il centro intende avere un "Centro sviluppo delle opportunità di lavoro" che tenterà di aiutare gli apprendisti ed altri giovani a trovare un lavoro adeguato o ad organizzare attività in proprio. Questi corsi tecnici sono molto importanti, ed aiuteranno a risolvere il problema della disoccupazione. Quello che mi ha colpito molto è il fatto che le persone addestrate al centro hanno una buona preparazione nel settore della falegnameria, delle installazioni elettriche e della meccanica di officina. Le persone del Kenya che lavorano qui hanno imparato a lavorare in un modo nuovo. Questo è stato possibile grazie all’esperienza cristiana proposta dai volontari. Lavoriamo in un modo nuovo e migliore, grazie alla corrispondenza tra il nostro lavoro e la nostra vita come cristiani. L’esperienza cristiana deve essere vissuta nel lavoro, perché in questo modo produce amore per quello che stiamo facendo.

La proposta cristiana nell’ambiente di lavoro ha fatto sì che gli altri lavoratori potessero apprezzare ed amare il proprio lavoro. Le persone ora lavorano assieme in squadra, e svolgono il loro lavoro con serietà e passione. Questo è un fatto che mi colpisce, perché negli altri luoghi di lavoro in cui questa nuova umanità non è presente, le persone considerano il loro lavoro un peso. A S. Kizito noi seguiamo le regole imprenditoriali a partire dall’amore per il lavoro.

La proposta cristiana porta una nuova umanità. Questo è il luogo in cui ogni cosa fatta ha una nuova dimensione ed è guardata in modo diverso. Il lavoro in officina è visto come modalità per rendere migliore la propria vita e quella della società. E’ cresciuta l’unità tra le persone che lavorano al centro, e ha fatto nascere diverse iniziative sia all’interno che fuori dal luogo di lavoro.

Nel luogo di lavoro abbiamo l’"Associazione S. Kizito per il benessere". Lo scopo dell’associazione è quello di approfondire l’esperienza cristiana e rispondere ai bisogni dei singoli membri. I membri dell’associazione versano una certa somma di denaro del loro stipendio ogni mese. E’ questo contributo che serve ad aiutare loro stessi. Ogni signolo membro dell’associazione ha la possibilità di ricevere da essa un prestito. A causa del problema dell’inflazione esistente in Kenya, i lavoratori, non solo quelli del S. Kizito, ma anche gli altri, non dispongono di un salario sufficiente per far fronte alla vita quotidiana. Grazie al prestito che possono ottenere dall’associazione, possono acquistare case o terreni, e sostenere spese relative ai problemi sanitari in generale, e onorari ospedalieri.

Per me, questo tipo di educazione è stata ed è molto importante perché davvero insegna la vita, risponde ai bisogni umani. Sapere che ci sono persone che si prendono cura di me, mi dà speranza e certezza nel mio lavoro, ed in tutto quello che faccio. Attraverso questo ho scoperto il significato della mia vita come persona. Ho capito che attraverso la proposta cristiana possiamo avere un mondo migliore. Così ho capito la necessità di proporre questo nuovo metodo di lavoro alle altre persone che mi circondano. Quelli che vivono con noi sono contenti, ed apprezzano il lavoro, anche se talvolta questo implica molta fatica. Il lavoro svolto come modalità per esprimere umanità, è fonte di gioia, gioia che è già motivo per migliorare l’efficienza del lavoro.

Per ora, il centro di formazione professionale di S. Kizito è finanziato dall’AVSI e da altre organizzazioni. In futuro, per la continuità del centro, ci sono progetti per sviluppare la produzione di mobili su larga scala per il mercato locale e per l’esportazione. Il centro produce mobili di alta qualità e opere d’arte. Per vendere i nostri prodotti, è stata allestita una esposizione a Nairobi. L’alta qualità della mobilia è possibile grazie al personale altamente qualificato istruito al centro e dall’Istituto Tecnico degli Apostoli di Gesù, anch’esso gestito dai volontari italiani. Speriamo che dalla vendita dei mobili e degli altri prodotti, sia possibile continuare il centro senza l’aiuto di donazioni straniere.

Siamo grati all’AVSI ed ai suoi volontari per il lavoro che hanno fatto e stanno portando avanti in Kenya. Essi continuano ad essere un grande aiuto per insegnare alla gente non solo il lavoro, ma anche un nuovo modo cristiano di vivere sul posto di lavoro e nell’ambiente dove vive.

Fiorenzo Priuli, dell’ordine dei Fatebenefratelli, missionario in Africa dal 1969. Attualmente è dirigente dell’ospedale di Taubieta nel Benin

Priuli: Nella mia vita constato che il Signore mi conduce là dove Lui vuole, giorno dopo giorno e per vie apparentemente assai strambe. Quando mi ha fatto intravedere la chiamata alla vita missionaria, ho avuto la fortuna di vivere una esperienza molto arricchente per la mia vocazione di Fatebenefratello, e preparatoria all’impegno missionario che vivo da ormai 24 anni. Fu a Marsiglia nel 1968, quando, per frequentare il corso di malattie tropicali, presi alloggio in un’opera dell’ordine che si occupava dei barboni che a migliaia popolano questa città di mare. In questa casa, posta in una viuzza vicino al porto, una comunità di quattro confratelli aveva, ed ha tutt’oggi, l’impegno di accogliere, di aiutare, curare e quando è possibile recuperare questi "clochard" divenuti tali per mille motivi diversi. Tra i trecentocinquanta che potevamo accogliere ogni sera, c’erano poveri, mendicanti, emigrati in cerca di lavoro, ragazzi scappati di famiglia, drogati, ed è stato lì che ho incontrato per la prima volta un cospicuo numero di africani, specialmente provenienti dal bacino del Mediterraneo. Il nostro impegno era non solo dare loro un piatto di minestra ed un letto, ma anche e soprattutto aiutarli a riprendere coraggio nella vita, a rientrare nelle loro famiglie che avevano fuggito, a volte per incidenti o coincidenze, aiutarli a trovare un lavoro, aiutarli a ritornare nella loro patria. Mentre io andavo all’università, i miei confratelli andavano per la città, chi per procurare il necessario per preparare il pasto serale, chi per visitare gli ospiti che avevamo dovuto mandare in ospedale, chi per cercare soluzioni migliori per quanti fossero suscettibili di un recupero familiare o sociale. Si cercavano soprattutto posti di lavoro, la maniera di rintracciare le famiglie che avevano fuggito, o le soluzioni in comunità protette. Di ritorno dall’università, giusto al momento dell’entrata degli ospiti, passavo a volte delle ore in una infermeria, ad occuparmi di quanti si lamentavano per febbri, ferite, e non di rado ero obbligato a chiamare l’ambulanza, per mandare all’ospedale malati gravi. Lì ho dovuto imparare anche a fare il parrucchiere, per mettere in ordine quanti, il giorno dopo, si sarebbero dovuti presentare a dei datori di lavoro che ci avevano assicurato di poterli accogliere nelle loro attività. Poi, nella notte, spesso si passavano ore ed ore ad ascoltarli, perché questi nostri fratelli emarginati, che non sanno dove sbattere la testa, hanno soprattutto bisogno di poter parlare, di raccontare i loro problemi, di trovare qualcuno che non hanno trovato altrove, che dia loro fiducia e che gli voglia bene.

Ma quello che più mi ha marcato in questa esperienza, che è durata un po’ meno di un anno, è stato la constatazione che quando si ha fiducia nella provvidenza, questa non delude mai. La nostra casa era poverissima: la comunità non aveva niente, non c’era una vettura, non c’era un conto in banca, eppure, tutti i giorni c’era il necessario per poter continuare non solo a vivere noi, ma a far vivere ed ad aiutare centinaia di persone. Mi ricordo che il mio priore, che era una persona che non aveva nessuna cultura, faceva dei debiti enormi, contro il parere della comunità spesso, dicendo che questi poveri non erano i suoi, per cui non era un problema per lui fare debiti, perché chi glieli aveva affidati, li avrebbe pagati. Una volta rischiavamo di andare in Tribunale; proprio la sera prima, qualcuno ha bussato alla porta ed abbiamo trovato nella cassetta esattamente quello che ci serviva per pagare i 40 materassi nuovi che avevamo sostituito con quelli marci.

Ma perché la provvidenza possa fare la sua parte, è necessario che da parte nostra ci sia una disponibilità, fatta di fede, di povertà vissuta veramente, e di generosa apertura a chi soffre. Sono queste caratteristiche che ho scoperto in queste comunità di religiosi, spesso poco colti ed anzianotti, che mi hanno aiutato a tener duro in momenti difficili, e mi hanno incoraggiato a continuare, a dire di sì alla chiamata del Signore. Rinforzato da questa esperienza, ho proseguito per la vita missionaria.

Divenuto medico, grazie ad una tubercolosi gravissima che sembrava la disgrazia più grande e un ostacolo insormontabile alla prosecuzione della mia vita missionaria in Africa, il Padre generale che era passato per visitarmi, temendo che di lì a poco morissi, accettò di farmi fare gli studi di medicina, sicuro che non li avrei mai fatti, solo per non traviarmi e perché la mia malattia non si aggravasse. Da ormai 24 anni ho la fortuna di esercitare, insieme ad altri confratelli europei ed africani, in due opere ospedaliere dell’Africa Occidentale e più precisamente nel Togo e nel Benin. Opere che sono state realizzate negli anni sessanta, dalla provincia lombardo-veneta dei Fatebenefratelli, che erano delle piccole opere, dei piccoli ospedali rurali, che poi per le esigenze della popolazione, sono stati completati con l’aiuto di benefattori e di organizzazioni non governative. Questi due ospedali sono situati in due regioni tra le più povere e sprovviste di presidi sanitari di questi paesi, e distano uno dall’altro circa settecento chilometri. In questa zona, la presenza cristiana è minima; i cristiani, non sono che il 10-11%, e il feticismo è ancora la religioni fondamentale: il Vu-du ha la sua culla proprio qui, e da qui, con gli schiavi è stato poi trasferito soprattutto nelle Americhe. I due complessi ospedalieri, pur essendo lontani dai grandi centri, dispongono di strutture capaci di far fronte a tutte le patologie, e sono il perno attorno al quale gravitano numerosi centri periferici nei villaggi e tutte le attività che realizzano una buona copertura sanitaria nella regione. Alla realizzazione di questa rete sanitaria, hanno collaborato attivamente organismi di volontariato italiani e stranieri, tra cui alcuni volontari anche di Rimini, il cui apporto è stato e continua ad essere determinante.

E’ grazie ad un enorme e costante impegno nella prevenzione (vaccinazioni e educazione igenico-sanitaria), che ora diminuiscono progressivamente le grandi epidemie di morbillo, meningite, di colera e di poliomelite che decimavano queste popolazioni sino a pochi anni fa. Pensate che in soli quattro mesi, nell’80, in una zona di circa 90.000 abitanti, abbiamo avuto più di 5.000 morti di morbillo. E durante questo tempo è stato meraviglioso, il lavoro che è stato fatto, non solo da noi, ma direi quasi soprattutto da tutti i missionari della regione che hanno praticamente abbandonato quella che era l’evangelizzazione classica, la catechesi e non hanno fatto altro che visitare tutti i villaggi per trasportare giorno e notte, con i loro due cavalli, bambini gravi, e per portar via bambini morti dall’ospedale. La notte di Natale, uno di questi missionari ha saltato la Messa: tutti i cristiani erano alla Messa di mezzanotte, in un villaggio a quaranta chilometri dall’ospedale, e proprio all’inizio della Messa sono venuti a dirgli che c’erano due bambini gravissimi di una famiglia che ne aveva già persi otto in una settimana, e allora ha detto al catechista: "Tu continui a fare la preghiera questa notte, io vado a portare i bambini all’ospedale". Penso sia un modo di evangelizzare.

Krysztof Prokop è esponente della Prosvi-polska

Prokop: La Prosvi-polska è una società italo polacca nata nel 1990, come tentativo di rispondere ai bisogni ed alle sfide che sono sorte dopo la svolta dell’89. All’inizio è stato un timido tentativo, ma poi abbiamo capito che invece era necessario un forte sviluppo di questa nostra iniziativa. La risposta dei vari operatori economici, sia in Polonia che in Italia, è stata così forte che all’inizio avevamo soltanto due persone, adesso siamo più di dieci. Oltre a questa dozzina di persone che lavora stabilmente, abbiamo un’altra dozzina di collaboratori esterni, provenienti da tutta la Polonia.

La Prosvi-polska, si occupa soprattutto di indagini di mercato e ricerca partner per investitori italiani in Polonia. Inoltre, realizza programmi di formazione di quadri, di manager, e si occupa di programmi di ristrutturazione industriale. Collabora con i ministeri, con le regioni, con le camere di commercio e con le associazioni di imprenditori. Per far capire il lavoro svolto finora, voglio ricordare che uno dei più grossi investitori stranieri in Polonia, il gruppo Lucchini, è assistito da noi. Abbiamo anche realizzato un programma CEE, riguardante la ristrutturazione di tre regioni della Polonia. Questo è sufficente per descrivere dal punto di vista tecnico la nostra ditta: ma voglio ora spiegare perché è nata questa società.

L’esperienza di cui vivo io ed altri amici polacchi, l’esperienza cristiana di Comunione e Liberazione, ci ha spinti nello spazio dell’ambiente economico, per portare la stessa proposta che noi abbiamo incontrato. Naturalmente la nostra società non sarebbe uno strumento efficace se dal punto di vista professionale non eseguisse bene il proprio lavoro. La lista dei clienti che abbiamo, sia italiani che polacchi, conferma il fatto che i servizi da noi offerti sono professionalmente ad alto livello. Ogni incontro con imprenditori è per noi una grande occasione, perché la società è uno strumento missionario, grazie al quale molte persone si sono incontrate per la prima volta faccia a faccia con l’esperienza religiosa.

Vorrei parlare ora dei problemi che affrontiamo in Polonia, e affrontando i quali proponiamo l’esperienza della quale viviamo. La ristrutturazione e le trasformazioni in corso in Polonia, implicano il problema della disoccupazione: per questo, abbiamo organizzato un corso di formazione per manager. Ma non siamo in grado, da soli, di rispondere ad un problema così grande come quello della disoccupazione; per questo, siamo molto felici della collaborazione iniziata con l’associazione Avsi e dell’appoggio continuo, del sostegno della Compagnia delle Opere. Per quanto riguarda il mondo universitario, siamo sensibili al problema di mantenersi agli studi e di trovare un posto dove abitare. Abbiamo anche dato una possibilità di lavoro, nell’ambito della nostra società, ad un gruppo di studenti universitari, e da questo è nata l’idea – che stiamo realizzando – di costituire una cooperativa universitaria.

Tutte le settimane nella sede della ditta ci sono incontri in cui affrontiamo problematiche sociali e politiche con tutti coloro che hanno risposto al nostro invito. E’ l’occasione per dare un giudizio comune su tutti i problemi di cui ognuno dei partecipanti, gente del mondo del business e della politica, vive.

Vorrei concludere con le parole che il Papa (che conosce l’esperienza di cui viviamo e l’attività che abbiamo iniziato) ci ha detto nell’incontro che abbiamo avuto nel ‘91 a Varsavia: "C’è bisogno in Polonia di un’esperienza così, abbiate coraggio e andate avanti".

Cesana: In un ambito come questo della Compagnia delle Opere, di persone che in un modo o nell’altro sono dedicati ad un’impresa, vorrei ringraziare tutti gli sponsor del Meeting, ed in particolare i tre che più si sono esposti: il cavalier Tanzi, il presidente della Parmalat, i fratelli Merloni, presenti al Meeting con il marchio Ariston, e l’ingegner Alfio Marchini, presidente del gruppo Marchini. Li ringrazio perché sostenendo il Meeting quest’anno hanno fatto un’opera che non gode certo di popolarità: per questo dobbiamo esser loro grati, perché questa settimana, non solo ha dimostrato un fattore di riunificazione di tutta la realtà, cattolica, cristiana e italiana – come abbiamo visto dai giornali e da ciò che si è succeduto – ma soprattutto ha indicato in un paese così provato, un punto positivo di costruzione. Abbiamo potuto dare questo messaggio anche grazie a loro.