Obbedienza e follia: Paolo servo di Cristo, apostolo per vocazione
Presentazione della mostra
Domenica 22, ore 18.30
Relatori:
Gianluca Attanasio,
in rappresentanza di Mons. Massimo Camisasca,
Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari
San Carlo Borromeo di Roma
Paolo Prosperi,
Fraternità Sacerdotale dei Missionari San Carlo Borromeo
di Roma
Marco Bona Castellotti,
Docente di Storia dell’Arte presso l’Università degli Studi di Brescia
Attanasio: Monsignor Massimo Camisasca – impossibilitato ad essere qui di persona – mi ha incaricato di leggere il seguente testo, scritto per questa presentazione.
In uno dei suoi ultimi anni di vita, il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, Paolo IV che del convertito di Tarso aveva voluto prendere il nome, rivelò all’angelus che ogni tanto andava a leggersi le pagine del Vangelo che raccontano di san Pietro, per trovare nelle debolezze del principe degli apostoli conforto alle proprie. È così anche per me, e posso fare senza arrossire riferimento a quelle immani figure perché penso che così possa e debba essere per ogni cristiano. Ci sono delle sere in cui il peso delle cose fatte o non fatte, in cui tra tristezza del male proprio o altrui, in cui la complessità della responsabilità sembra schiattarci e impedirci di dormire; preferiamo allora nella notte una luce, una spiegazione, un conforto. Io spesso prendo le lettere di san Paolo, dove trovo meravigliosamente espresse le infinite sfumature dell’animo umano suscitate dalle infinite circostanze della vita. Lo scopo di questa mia riflessione non è fare l’indice di un trattato di psicologia – benché a tal riguardo le lettere di Paolo aprano al lettore attento e interessato la rivelazione di un animo a cui non è mancata nessuna corda espressiva, comprese le più estreme –, vorrei invece soffermarmi su un’altra questione di gran lunga più importante per me: chi è l’uomo preso da Dio? che cosa accade in lui ad ogni livello del suo essere a causa di questa prigionia? che ne è della sua libertà e della creatività e dei limiti, dei peccati, delle smagliature del proprio essere? Tutto è cancellato, si è sopra-vestiti senza che ce ne accorgiamo, oppure tutto rimane come prima illudendoci come visionari che qualcosa in noi sia mutato?
Innanzitutto dunque: chi è l’uomo preso da Cristo?
Anche Paolo si è definito prigioniero di Cristo, ma nell’esperienza della prigionia fisica, vissuta prima in Oriente e dopo a Roma, ha scoperto la differenza tra le due situazioni, tra la semplice prigionia fisica e la prigionia per Cristo. Il prigioniero di Cristo ha accettato tale condizione perché propriamente convinto che sia la strada per la sua libertà, l’unica strada possibile: infatti è l’abbandono ad un altro che ci conosce più di noi stessi. Quando Paolo vicino a Damasco senti quella voce chiamarlo "Saulo", percepì di essere scoperto e scrutato da Uno che sapeva di lui più di quanto lui stesso ne sapesse. "Intimior", intimo mio, dirà sant’Agostino; sia lui che san Paolo hanno in mente il salmo: "Tu mi scruti e mi conosci perché sei Colui che mi ha tessuto nel seno di mia madre, ricamato nelle profondità della terra".
La prigionia di Gesù non è un atto di annientamento dell’io neppure nelle più grandi esperienze mistiche, come quelle di alcuni santi spagnoli dove tutto sembra, per amore dell’assolutezza che contraddistingue quel popolo, essere piegato al volere di un altro: "moro porché non moro". Rimane paradigmatica l’esperienza di Gesù, l’umanità è unita alla divinità senza che l’una oscuri o sacrifichi l’altra. Quello che i mistici chiamano annientamento è l’espressione letteraria di un amore assoluto. Ogni amore brama l’identità dell’amante con l’amato ("amada e nell’amado trasformata", diceva san Giovanni della Croce). Ma anche tale ardente desiderio è l’ambito di una passione, non la morte dell’io. La tua volontà sia fatta ma attraverso le condizioni storiche, materiali, psicologiche, temperamentali della mia. Il mio io non viene cancellato ma riceve in tutte le sue fibre, in tutte le sue stratificazioni una nuova finalizzazione.
Per questo i grandi santi sono stati sempre grandi uomini: Paolo, Benedetto, Basilio, Ambrogio, Agostino, Francesco, Domenico, Ignazio, Giovanni della Croce, Teresa d’Avila, Caterina da Siena, Vincenzo de Paoli, Camillo de Lellis, Teresa di Calcutta… Ciascuno di loro potrebbe essere per la sua vita umanamente affascinante, e costituire il tema di più romanzi, di molti film, senza dovere inventare nulla. Per questo Gesù quando vuole fare qualcosa di grande che segni epoche intere sceglie uomini e donne che avrebbero potuto guidare Stati, immense imprese di bene o di male; ci sono, è vero, anche piccoli santi con piccoli carismi, che avranno un grande peso per la santità di molti, ma che non hanno potuto portare al regno di Dio sulla Terra quella svolta oggettiva che le grandi personalità hanno realizzato. La dimensione di una personalità non dipende dai chilometri percorsi come sarà per san Paolo, dalle parole dette come sarà per Agostino, dalle opere create come sarà per Vincenzo, Camillo, Teresa di Calcutta, dipende interamente dal modo con cui ha percepito l’umanità propria dentro l’abbraccio di Cristo; così è stato per Teresa di Lisieux, che, nell’ultimo secolo di questo millennio, ha portato tutta l’essenza umana alla semplificazione assoluta del dialogo tra una bambina e il suo creatore.
"Se non ti imprigiono non sarai mai libero", sembra dire Gesù a questi grandi uomini e donne che ho citato. La libertà si manifesta così come l’esperienza di una progressiva liberazione, come liberazione dalle catene della legge per arrendersi a Colui che si è fatto annientare perché noi potessimo essere liberi. È il cuore dell’esperienza personale di Paolo quello che lui chiama con ardimento spropositato "il mio Vangelo". Questa liberazione totale come il dono germinale che è dentro di noi, è progressiva, e talvolta procede in modo spasmodicamente lento come esperienza: da qui la contraddizione che ogni uomo segnato da Cristo vive quotidianamente sulla sua pelle, ed è proprio qui nel punto di una possibile crepa nella vicenda di ciascuno che si manifesta la forza totalizzante della fede di Paolo e della sua stessa sintesi. Lo stesso sarà per Agostino, che preferirà correre il rischio del predestinazionismo piuttosto che cancellare l’"etiam peccata", piuttosto che escludere i peccati dal piano di Dio. Così sono nate quello lunghe autobiografiche elencazioni di prove subite da Paolo, e raccontate a più riprese nelle lettere da differenti angolature: colpiti ma non uccisi, in tutte le prove siamo super vincitori perché nulla ci separerà dall’atto con cui Cristo ci ama. E non solo la prova ha un senso, ma anche la debolezza, la sconfitta. Paolo inventa qui una frase che resta nella storia di tutti i tempi: "Poiché la tua potenza si manifesta nella mia debolezza, è quando sono debole che sono forte". Nulla dunque è magicamente cancellato, nulla censurato ma tutto assume un nuovo peso e una luce nuova, anche il peccato.
Così la realtà personale di colui che è segregato da Cristo per una missione, vive una letizia piena di vigilanza, e il segregato è lieto perché conosce l’irreversibilità di ciò che è accaduto, ma è anche saggiamente nel timore perché non conosce dove la misura, che non può essere misurata da lui, lo porterà, a quali esperienze del limite lo sottoporrà. "Sovrabbondo di gioia nelle mie tribolazioni": è questa forse l’espressione più sconvolgente dell’equilibrio cristiano, il punto più alto dell’esperienza dell’uomo nuovo che Paolo ha illustrato con la sua vita e i suoi scritti. "Le sue fatiche – ha scritto Rossano – sono state paragonabili solo a quelle di Alessandro Magno e di Giulio Cesare, le sue lettere per la bellezza della lingua all’Apologia di Socrate e di Platone o al discorso per la corona di Demostene, ma esse aprono all’uomo prospettive che né Platone, né Demostene potevano immaginare".
Prosperi: In questa mostra abbiamo anzitutto voluto porre una sfida, una sfida a noi stessi: la sfida di riuscire a cogliere e a fare emergere dai testi che Paolo ha lasciato una persona viva, una persona presente, un’esistenza reale. Per questo, la mostra è tutta costruita su citazioni (accompagnate da commenti) tratte o dalle lettere di san Paolo o dagli Atti degli apostoli, che sono le testimonianze dirette su san Paolo che noi abbiamo. La scelta delle citazioni non è stata generica, bensì precisa e puntuale: abbiamo cercato di soffermarci di più, di trattenerci di più sui passi da cui emergeva più direttamente la sua persona, la sua intimità, il suo temperamento, un temperamento molto complesso, sfaccettato capace degli accenti più estremi.
Questa è stata la scommessa della mostra; in questo senso si capisce anche il significato del logo, dell’immagine guida della mostra. Si tratta di un particolare di un quadro del Greco, Entierro del conde d’Orgaz, una delle pochissime rappresentazioni non stilizzate di san Paolo, raffigurato con gli occhi sgranati, sbigottiti, che fissa Cristo; Cristo però non si vede, è come fuori campo. Abbiamo scelto questo quadro perché si tratta di un uomo vivo, un uomo come noi, a cui accade qualcosa di completamente spiazzante e imprevedibile che gli capovolgerà letteralmente la vita.
Il titolo della mostra può sembrare sibillino e strano, dato che accosta due concetti che sembrano contraddittori, obbedienza e follia; eppure forse queste due parole insieme alle due citate prima, prigionia e libertà definiscono esaurientemente la personalità drammatica e sempre in lotta di quest’uomo. Per questo la parola obbedienza è forse quella che si adatta meglio per definire il rapporto personale, così come è sentito da Paolo, nei confronti di Cristo. Cristo è sempre il Signore per Paolo: quando si legge Paolo sarebbe bello andare al significato originale che hanno le parole per lui. Signore significa padrone, kurios in greco, e per Paolo Cristo è padrone innanzitutto a partire dall’esperienza della sua vita, di quello che gli è successo.
La prima sezione della mostra, che si intitola "Sulla via di Damasco", riguarda appunto l’avvenimento della conversione. Paolo sta andando a Damasco per stanare i cristiani che sta perseguitando e viene improvvisamente sbalzato da cavallo da Cristo, che gli appare; quando racconta questo fatto è significativo che Paolo usi proprio questi termini, "sono stato sconfitto, conquistato da Cristo": è come una guerra in atto, e questa è la percezione che Paolo avrà sempre di ciò che gli è accaduto e di ciò che significa il fatto cristiano. Nessuno come lui o pochi come lui avevano addirittura odiato Cristo, perché Cristo per un fariseo convinto, radicale come lui, era lo scandalo, la contraddizione più grande che ci potesse essere all’idea di Messia, l’idea del Messia re, trionfatore, Messia conquistatore. Infatti Paolo dirà "scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani". Eppure proprio lui viene scelto, in un certo senso si più dire che Cristo sembra fare un’eccezione nel suo caso; lui stesso dirà nella prima ai Corinzi "non sono nemmeno degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Cristo". Cristo entra nella sua vita quasi con violenza, senza preavviso; Paolo dirà "infine è apparso anche a me come a un aborto", dove con la parola "aborto" vuole proprio indicare che è come se fosse stato strappato prematuramente, senza preavviso, rispetto agli altri apostoli che hanno vissuto tre anni con Gesù, che sono stati preparati, mentre invece per Paolo l’incontro è qualcosa di completamente sconvolgente, in un certo senso irripetibile.
Ma proprio qui sta il grande paradosso che è al centro dell’esperienza di Paolo e che accende in lui una gratitudine sterminata: tutte le volte che Paolo racconta della sua conversione sembra quasi incredulo di fronte alla predilezione che Cristo ha avuto per lui, totalmente immeritata. Per questo abbiamo scelto proprio il quadro del Greco come logo della mostra, perché Paolo ha la bocca spalancata e gli occhi spalancati come di fronte a qualcosa di inconcepibile, come se avesse subito un urto; ma questa apparente violenza è il segno di una misericordia inimmaginabile. Il primo dei peccatori scelto per il compito più vasto e più grande tra tutti gli apostoli. Questo sarà il cuore bruciante dell’esperienza di Paolo, e arriverà a determinare anche il suo modo di guardare e di sentire l’evento di Cristo. Infatti la parola che meglio descrive la percezione dell’avvenimento cristiano di Paolo e proprio la parola "caris", che in greco significa grazia. La grazia per Paolo è proprio questo darsi totale di Cristo. Le prime due sezioni, che fanno un blocco unico nella mostra, testimoniano questo, attraverso i contrasti tipici di Paolo: la personalità di Paolo non viene annullata ma viene trapassata dalla presenza di Cristo.
La seconda parte riguarda invece l’esito, il frutto di questa elezione. L’elezione è sempre per il compito, e quanto più esclusiva, come nel caso irripetibile di Paolo, tanto più è per il mondo, tanto più è per tutti, come lui stesso dirà in un modo lapidario: "mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare ad ogni costo qualcuno". Di qui i due caratteri che abbiamo voluto più mettere in evidenza: anzitutto un’apertura a 360 gradi, indomabile verso ogni tipo di cultura, tale che, storicamente, se non ci fosse stato Paolo, il Vangelo alle Genti – ai pagani – non sarebbe arrivato con l’immediatezza e la forza con cui è arrivato. Paolo era cittadino romano e sapeva il greco benissimo: aveva tutti i requisiti, tutte le conoscenze culturali e anche l’apertura mentale, essendo cresciuto a Tarso, città cosmopolita, per incontrare ogni tipo di persona. L’altro aspetto è il fortissimo e particolarissimo senso della comunità e dell’amicizia che ha Paolo, tanto che l’immagine da lui spesso usata è quella della paternità e della maternità.
Gli ultimi due pannelli, che sembrano a parte rispetto alla mostra, in realtà ne sintetizzano il significato. Il penultimo si intitola "Cristo mio tutto": qui abbiamo voluto riassumere il fatto che al centro di questa personalità così esplosiva, così varia e anche così contraddittoria nelle sue manifestazioni, ci sia un amore personale per quell’uomo che lo ha scaraventato giù da cavallo. In quest’ottica concreta, esistenziale, va letto il famoso brano del dilemma di San Paolo: "Siccome per me vivere è Cristo, morire è un guadagno, se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto non so davvero cosa scegliere, sono messo alle strette tra queste due cose, da una parte il desiderio di essere sciolto per essere con Cristo il che sarebbe assai meglio, d’altra parte è più necessario per voi che io rimanga nella carne, per conto mio sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti per il progresso e la gioia della vostra fede". Quindi è tale l’amore per Cristo che Paolo vorrebbe morire per star sempre con lui. L’ultimo paradosso e proprio questo, se restare significa spendersi per Lui, spendersi come Lui per gli uomini, allora restare è la possibilità più grande.
L’ultimo pannello è una citazione di una frase che Giussani ha detto alla Fraternità San Carlo, citazione che abbiamo voluto mettere a chiusura della mostra perché dice lo spirito e l’intento con cui abbiamo fatto questa mostra: "Strappiamo via la missione, cosa resterebbe di noi? Non resterebbe niente, nel senso che quello siamo non ci sarebbe più, perché l’uomo è la sa vocazione". La mostra è una provocazione alla nostra persona: guardare Paolo per noi è guardare forse l’esempio più grandioso ed emblematico nella storia del cristianesimo di quello a cui siamo chiamati, di quello a cui ognuno di noi è chiamato, a cui ogni cristiano è chiamato.
Bona Castellotti: Allestendo la mostra su san Paolo, ci siamo accorti di non poter giocare sull’iconografia, perché è un’iconografia molto fissa: infatti, a partire dal III secolo, san Paolo ha un volto molto preciso che è quello del filosofo Plotino, volto che viene preso a prestito e messo a disposizione di questa immagine cristiana e rimane costante. È un volto piuttosto scavato, allungato, con una barba piuttosto fluente e a pizzo, i peli piuttosto radi.
Il percorso della mostra ha dei significati simbolici elementari che sono quelli che scandiscono il percorso anche concettualmente, di per sé molto semplice: il pregio essenziale di questa mostra è quello di aver mantenuto un certo rigore di forme. È quel tipo di linearità, di classicità, di forme, che consente una lettura molto semplice della realtà che si ha di fronte.