Martedì 23 agosto, ore 15

ARTE FRA MEMORIA E INFINITO

Partecipano:

Carmine Benincasa

critico d'arte e docente di letteratura artistica presso la Facoltà di Architettura della prima Università di Roma

Edouard Maunick

scrittore, incaricato dell'UNESCO per la valorizzazione del patrimonio letterario mondiale

Arthur Joseph Quinn

critico letterario e saggista, docente di Retorica nell'Università di California.

Conduce l'incontro:

Giulio Boscagli.

La condizione dell'arte è quella di camminare nelle tenebre e cercare la luce, nel tentativo continuo di braccare l'infinito. Solo da un riconoscimento, privo di possesso, della realtà, può nascere l'arte.

C. Benincasa:

In una città della Cina, Tanchi (300 chilometri da Pekino) un antico imperatore cinese decise di avere le finanze sufficienti per poter affrescare l'ala centrale del suo palazzo e così chiamò i migliori pittori greci e tutti i pittori cinesi: ai pittori cinesi affidò l'ala destra e quella di fronte l'affidò ai pittori greci. Lui sarebbe tornato dopo un anno. L'ansia, l'orgoglio, l'onore con cui i pittori cinesi dipinsero, decorarono, affrescarono tutta la parete era straordinaria: il mondo era più bello del mondo, le montagne più intense delle montagne reali, l'azzurro del mare e del cielo era un mondo che non si trovava nella realtà. L'imperatore aveva messo fra i due gruppi un diaframma, un velo, affinché non copiassero i soggetti. Quando, dopo un anno ritornò, l'imperatore vide questa pittura così piccola, esatta, compiuta e si commosse. Non c'era nulla di più bello, neppure il mondo: la pittura sostituiva il mondo. Tolse il velo vide la pittura dei greci. Questi, nel tentativo di preparare l'affresco, avevano consumato un anno con la pigrizia tipica dei mediterranei a lastricare il fondo della parete e non avevano fatto nulla., Togliendo il velo l'imperatore vide riflesso in questa parete, che ormai era diventata uno specchio, la pittura dei cinesi, ma essa era impalpabile, più leggere della pittura dei cinesi, si vedeva appena una traccia, un segno, richiamava e alludeva ed era più bella di quella dei cinesi. Questa è la condizione dell'arte: essere l'immagine speculare di una realtà, di una presenza e non contenere nulla, prepararsi a raccogliere un mistero e rimanere con le mani vuote, rispecchiare intensamente una chiamata, una presenza, una invocazione, fare esplodere dalle sue viscere ciò che essa ricerca: il mistero e l'infinito. Questo strano destino impone subito una correzione. Il titolo è "fra memoria ed infinito" ma la memoria per la cultura greca e per noi cattolici che veniamo da questo grembo greco semitico (l'anamnesi è solo un grido, invocazione, una supplica, preghiera, una struggente nostalgia e soltanto quando questa memoria, questa anamnesi diventa "signum significans", cioè diventa un segno storico che allude, significa e ripete il segno della grazia fra di noi, solo nel mistero eucaristico, soltanto allora quando ripete un gesto che Dio ha compiuto fra gli uomini, nelle cose e nel mondo, la memoria e l'anamnesi diventa al contempo evento, storia, carne e presenza). L'arte, però, non è un "signum significans", l'arte non è un sacramento dunque è soltanto un segno che certifica con ogni ebbrezza e con ogni vorticosa speranza progettuale, significa soltanto la condizione dell'uomo che tenta il grido, che lo rimanda alla sua impotenza. L'uomo tenta di rispondere alla chiamata di ciò che è indecifrabile ma che non è incomprensibile nella sua coscienza ed è per questo che i suoi segni si moltiplicano nell'indecifrabilità di segno e di scarabocchio. L'arte, dunque, non è un segno che significa e non è una nostalgia, l'arte piuttosto è un evento nel tempo, nel presente dell'uomo, di condizione in condizione: in ogni stagione l'arte è un fatto, una storia che certifica una perdita certo, ma un tentativo per avere il possesso la cui condizione e il cui esito è la perdita, il vuoto, la ferita, l'assenza. Per questo, in uno dei suoi libri, don Luigi Giussani diceva che l'arte è il tentativo più tentante dell'impotenza dell'uomo: se non è memoria l'arte appartiene, deborda sulle soglie e sulla prossimità di quest'altro burrone, quest'altro abisso che è l'infinito. L'arte, questo balbettio, il pronunciamento di questo nuovo alfabeto ha, anche se non decifrabile (anche all'artista stesso, l'artista che manipola la materia) questo grande e strano destino della condizione dell'uomo. Questa è la chiamata e la risposta alla chiamata dell'infinito, ed è la certificazione, al contempo ineluttabile, del suo tentativo anche se l'esito di questa sua risposta sarà pur sempre scacco, fallimento, scommessa, volo, rischio ma pur sempre incompiutezza perché la condizione dell'uomo è la finitudine, è il limite. L'infinito chiama, il finito risponde: l'infinito ingoia e invoca, il finito precipita nella coscienza del limite e nell'abisso dell'amore, questo è il cammino e il sentiero che attende qualunque risposta che viene tentata dai brusii molteplici del cammino dell'arte. Basta ricordare il cap. VII della lettera ai Romani di S. Paolo con i commenti relativi di Lutero o di Karl Barth o della più moderna teologia cattolica dove qualunque tentativo dell'uomo non ottiene mai il si perché non è la condizione di merito che ottiene la compiacenza dell'amore di Dio e si trova di fronte a questa schiacciante impotenza e del no, del rifiuto. È soltanto il si della grazia che rende l'uomo giusto. E questa giustizia che non giudica gli uomini ma rende giusto ciò che guarda, ciò che ama, la condizione dell'arte: tentare fallendo, rischiare con la certezza che l'esito è lo smacco, e, scrive E. Maunik, "Viene come sempre la morte a contrariare il cielo, viene sempre la fine nonostante si tenti e si cerchi la non fine". In questo tentativo di braccare l'infinito, l'arte edifica ininterrottamente in un unico poema (la cui fine è la torre di babele, un poema lacerato, frantumato, fratturato, ma i cui cocci saranno pur sempre davanti allo sguardo dell'eterno, dell'infinito, saranno pur sempre cocci della storia di coloro che hanno tentato e diventeranno mosaico la cui unità è ancora più bella del vaso non rotto). t un grido l'arte: da quello del bambino a quello dell'artista il cui peso finanziario conosciamo bene nel mondo attuale, ma sempre un grido che invoca la voragine della vertigine e che ha termine soltanto nello strozzante, soffocante urlo del "lama sabactani". L'artista si ritrova pur sempre il limite di una tela o la faccia di una materia opaca di creta che deve risplendere, e non risuona e non rifulge, non è luce, ed è per questo che il suo urlo finale è pur sempre "Eli Eli lama sabactani". D'altra parte potremmo chiederci perché è così amato il destino dell'uomo: ma non è pur sempre vero che la mano della gloria occulta per misericordia? Per evitare l'accecamento la mano della gloria copre lo sguardo dell'uomo. Quando la si può guardare essa è già passata, dice il libro dell'Esodo e la si vede di schiena. Il destino dell'arte, dunque, è di guardare l'infinito di schiena, di braccarlo, di non guardarlo in faccia, come dice nella Lettera ai Filippesi S. Paolo, (Egli non ritenne motivo di vanto e di onore di essere simile a Dio ma si fece in tutto simile alla degradazione della nostra condizione umana), Solo con Cristo l'arte ha guardato in faccia la luce, dunque l'arte è la contemplazione dell'infinito nell'accovacciamento e nel rannicchiamento, tra le cose del mondo, presso di noi, qui vicino a noi, accanto a noi e non fuori di noi. Ogni arte che fugga dal mondo è menzogna per questo è molto mobile, è molto fragile la soglia dell'arte: è prossima alla verità ma rosicchia la menzogna, è prossima alla vertigine della speranza ma è sempre sentinella di un sepolcro di morte. Al limite, quando raggiunge il culmine, quando finalmente l'arte comprende che la luce non è verso l'altrove ma qui, e quando l'infinito è nell'impotenza di questa esaltante condizione della dignità dell'uomo l'arte può soltanto diventare quest'ultimo grido "Maranatà", vieni, ritorna Signore e in questo senso ancora una volta l'arte si fa racconto di cronaca, di storia, si fa evento. In questo la storia dell'arte compie, ma è soltanto una feconda e generante attesa di sapere che la risposta ci sarà, c'è la risposta, ma per vederla nei segni dell'arte, in questi piccoli scarabocchi, in queste chiazze di materia, di colore, è necessario quello che nel Vangelo di Marco viene chiamato "Metanoia": cambiate i vostri occhi, cambiate mentalità perché il Regno di Dio è qui fra di voi. La riconferma di questa lacerante tensione dell'arte come una testimonianza sospesa sui bordi dell'evento, sulla storia presente di cui la coscienza nel momento in cui risponde è attenta interprete e protagonista, è il fatto che l'arte, gli artisti, coloro a cui è affidato il mandato, il compito, il carisma, anche se fossero guardiani di porci furono chiamati, le loro labbra furono bruciate e furono mandati a fare i profeti. Questo atteggiamento lo si trova in tutta la grande speranza progettuale dell'arte del XX secolo o in quella che è stata la lucidità più eclatante di Michelangelo prima che Braghettone vergognosamente e lussuriosamente lo coprisse dinanzi al giudizio universale: dipinge la condizione di uguaglianza di Dio, di tutti dinanzi a Dio nella colpa, nella condizione della nudità. Ma è proprio questo gioco tra perdita, scommessa, fallimento e scacco che rende l'arte molto simile al destino teologico della teologia della croce, che rende l'arte anche molto simile al Regno di Dio, molto prossimo, molto omologo al Regno di Dio. Le immagini che voi andrete a raccoglie dai primi del '900, alla morte di Cézanne, da quando la ragione dell'uomo pretende di vedere nel sezionamento ciò che non si vede nella realtà, da queste briciole di immagine che si contorcono in questa tempesta della coscienza del ventesimo secolo (è importante avere gli occhi che vedono e gli orecchi che ascoltano perché il tessuto dell'arte è un tessuto senza cuciture non ci sono toppe per poterlo coprire se lo si ferisce) l'arte dunque accoglie l'infinito nella sua tenda innalzata sopra questi grumi della condizione dell'uomo, grumi di errori, di tradimenti, di incertitudini, di limite. La verità è che il limite è la dignità dell'uomo e il fatto che l'arte precipiti pur sempre nella contraddizione di ciò che ricerca, il non avere tra le mani ciò che essa vorrebbe ovattare o accarezzare è la dignità della condizione dell'arte; il fallire, l'errore è il perimetro che edifica il tempio della speranza dell'arte, poiché i segni e le schegge che l'arte lascia nella storia del tempo galleggiano su una zattera alla deriva ma si avviano verso il lido della grazia la cui impotenza come dice il V cantico del Magnificat è più forte della potenza dell'uomo. Questo grande mosaico che è l'arte lungo i secoli, questo ininterminabile poema lacerato, sfregiato chiazzato di miserie e di sordide polluzioni partorite dall'ambigua opacità della coscienza nel tempo, è per noi il grande vanto, il grande urlo, la grande voglia di altro (non voler essere che ciò che siamo e poiché siamo ciò che siamo noi godiamo di questo volto benedetto delle nostre miserie, parafrasando il mercoledì delle ceneri di Eliot). Soltanto perché l'arte cerca la luce della sproporzione della materia, perché ricerca lo spirito nella dismisura della carne, la profezia nella forsennata geografia delle colpe e ricerca la verità nella scacchiera labirintica della tenebra e la luce nella infida alcova della notte, solo così è possibile balbettare il grido di libertà anche nella sinagoga della legge poiché vedere la gloria faccia a faccia condurrà pur sempre a questo enigma confuso di un tempo arido che ci dona soltanto lo specchio, questo gelido abbraccio dello specchio che è terribilmente folgorante in "Il Parlamento degli uccelli" di Natar. Una sera gli uccelli che stavano cercando il loro re si riposano e vengono disturbati mentre stanno per addormentarsi. Dopo una giornata di uragani, di grandi lotte e di stanchezze infinite arriva il pipistrello fresco che incomincia la sua giornata e dice: "Su su andiamo a cercare il sole, andiamo a cercare la luce". La colomba gli risponde: "Lasciami in pace" e l'upupa: "Ma tu sei pazza, il sole è appena andato via". Il pipistrello non capiva, rumoreggiava con le ali, giocava, li sollecitava e poi, visto che non riusciva ad ottenere nessun risultato, dice: "Begli stronzi, dormite pure io vado a cercare nella notte il sole". Questa è la condizione dell'arte, andare nella tenebra a cercare la luce. Perché non affidare al segno, al colore, anche l'arte? Affidiamola alla terra come Eliot affida la parola alla terra, affidiamo l'arte alla terra, all'aria, all'acqua, al fuoco, al mondo e anche l'arte non marcirà e in questo sarà sempre il bordo traboccante della vita e diventerà richiamo infinito di speranza perché su questo tessuto dell'arte si proietterà l'ombra della vita, dell'infinito, di questo cammino che tramuta la morte in tempo di resurrezione. L'arte bracca l'infinito soltanto continuando a tessere la trama di sempre ed è per questo che essa si soffermerà soltanto lì, in un punto, quello che Eliot chiama il punto fermo del mondo che ruota.

E. Maunick:

Devo ringraziarvi per il fatto che mi trovo per la terza volta qui a Rimini (83, 85 e 88). Ciò mi richiama in ciò che normalmente nella nostra vita quotidiana chiamiamo il tempo: ed eccoci in pieno nel tema. Se non temessi di essere alquanto insolente, se non credessi di potere sollevare uno scandalo, direi che avrei scelto uno dei due termini ma non tutti e due perché per me la memoria è l'infinito e l'infinito è la memoria. Vi ricordo un attimo le mie origini. Sono figlio di tre civiltà: son un po’ africano, un po’ occidentale, un po’ asiatico e infine totalmente e completamente un uomo. Ricordo quando andavo al collegio, un giorno entrai in classe (all'epoca si studiava il Macbeth di Shakespeare) con la fame e la sete di sapere e di capire: un bambino di 15 anni impara come una grande mente. Un grande spirito, un grande scrittore ha narrato, che la vita non vale nulla è una specie di scena dove l'attore va e tiene una recita, è una storia piena di rumore, di furore ma che non sta a significare nulla. Il Signor Shakespeare afferma che la vita è una commedia, che non vale nulla: così è nata la mia ribellione. Noi ci ribelliamo perché, come dice il tema del Meeting, siamo dei cercatori di infinito e dei costruttori di storia. Cari amici io non cerco l'infinito, sono l'infinito. Certo potrà sembrare qualcosa di roboante, potrò apparire come un millantatore, al contrario in Africa, per esempio, dato che vi parlerò della parte africana dell'uomo Maunick, non c'è bisogno di cercare l'infinito perché l'infinito è attorno a noi, e in noi . Noi portiamo l'infinito, creiamo l'infinito, lo inventiamo, lo viviamo, lo uccidiamo, lo facciamo vivere, perché non siamo il primo essere vivente al mondo, veniamo da qualche parte, abbiamo una memoria, abbiamo e facciamo parte dell'infinito. Una cosa ho imparato: non ho inizio e non avrò fine, cari amici. Io che vi parlo ho visto l'eternità nel vedere un bambino in Africa che mi guardava, mi riconosceva come un africano, nei suoi occhi c'era l'amicizia, l'incontro: era un momento di eternità. La prima volta che guardai un albero nella mia isola, che capii che l'albero era un essere vivente, che potevo prenderlo, stringerlo appoggiare l'orecchio contro l'albero e sentirlo, che le radici crescevano sotto terra, che queste trattenevano la terra, che il tronco saliva, creava rami e che sui rami c’erano le foglie e c'era la frutta e una volta maturo il frutto scoppiava, cadeva a terra e a sua volta faceva crescere un altro albero. Nel mio paese c'è un albero che si chiama "il moltiplicante" i cui rami sono delle liane: non appena questo tocca il suolo ridiventa a sua volta un altro albero che può avere Km. di circonferenza. Non è forse questa l'eternità? In Africa non abbiamo bisogno di porci domande sull'eternità anche perché la vita non è una linea retta, è un cerchio e chi può dire dove inizia un cerchio? Chi può dire dove finisce? La memoria non ha ne inizio né fine, perché nella memoria c'è ciò che noi chiamiamo la storia e la storia non esisterebbe se non fossimo qui per farla. Dopo gli anni 60', dopo le epoche dell'indipendenza, come la chiamiamo noi, cosa ha scoperto l'Occidente? Ha scoperto che l'Africa esisteva prima che i bianchi venissero in Africa, che l'Africa aveva una sua storia, una civiltà, le sue danze, riti, canti, un modo di mangiare, di bere, di vivere. Oggi l'Occidente si pone delle domande sulla memoria e sull'infinito. Bene, dico. Benissimo. Porsi queste domande però, in quei paesi lontani, cosiddetti sottosviluppati, è già porre l'inizio della risposta. C'è solo un pericolo: che quegli stessi paesi sono minacciati di perdere anima e storia. Questa mattina raccontavo a dei miei amici che un saggio africano, un mio carissimo amico, dice che bisogna stare attenti a ciò che viene chiamato "sviluppo": "In Africa non avevamo l'orologio, avevamo il tempo, oggi con lo sviluppo abbiamo tutti l'orologio e nessuno più ha tempo, lo abbiamo perso". Non è saggezza? Io non voglio qui costruire un'Africa, un'Asia o l'America Latina o l'Europa, per erigergli degli esempi. Non c'è differenza tra voi e me perché abbiamo un destino comune: come voi sono nato un giorno, come voi morirò. Questa comunità tra di noi è l'unico motivo per voi e per me di cercare di guardarci, non soltanto di guardarci, ma di vederci e la necessità per noi tutti di ascoltarci a vicenda, ma non di ascoltare noi stessi, ma di udire ciò che dice l'altro. A questo punto scopriremo che tutti noi facciamo parte della memoria planetaria. A 11 anni uscendo da un cinema andai a lavarmi le mani. L'acqua scendeva in una canalina, c'era una tipica pioggia torrenziale, quella dei tropici, e vidi l'acqua che scorreva sopra un tronco di legna: era un'acqua nera, piena di fango e quando quest'acqua nera fangosa arrivava contro un tronco di legno si formava la schiuma e la schiuma era bianca. Da dove veniva questa schiuma bianca? Avevo allora il anni: ho scritto la mia prima poesia "I cavalli bianchi della pioggia". Ora ho 57 anni, ne sono trascorsi 46 e se io dovessi vedere questa cosa oggi scriverei con le stesse parole, mi stupirei allo stesso modo, cercherei di capire come un'acqua nera fangosa, carica di fango, può dare una schiuma bianca. Se fossi al posto del signor Shakespeare non direi che la vita è un nulla, ma da questo nulla cercherei di far nascere qualcosa: ecco l'unica ricerca valida nel bianco, nel nero, nel giallo e nel rosso. Abbiamo tutti ragione perché tutti abbiamo bisogno di eternità. La parte di memoria e di infinito che portate in voi, che ognuno di noi porta in sé, è ciò che fa il cielo ed è ciò che noi cerchiamo: voi a modo vostro, io a modo mio, voi nel vostro credo io guardando gli alberi, toccandoli, attraversando il vento, attraversando il deserto e soprattutto incontrando l'uomo. Nonostante tutto il rispetto che io debbo al signor Jean Paul Sartre non sono d’accordo con lui: l'inferno non sono gli altri o l'altro, è il Paradiso l'altro.

A.J. Quinn:

L'anno scorso in questi giorni mi trovavo nel deserto dell'Arizona nel sud ovest degli USA, non era il momento migliore per essere li con temperature di + 36/37 gradi (e a volte a 40°). I burocrati avevano deciso che il fatto di discutere l'Iliade o l'Odissea nel deserto nel corso della estate avrebbe rappresentato quello che essi definivano una esperienza epica. Il deserto mi riservava le sue particolari sorprese o, piuttosto, le persone che vi vive vano sembravano avere un elevato senso estetico (non soltanto gli intellettuali o gli artisti ma tutti) e mi sono domandato il perché di questo. La bellezza del deserto non era sufficiente per spiegare questo fenomeno; anche in California, dove vivo, il paesaggio è altrettanto bello, (la baia di S. Francisco, la costa dalla California, le foreste di sequoie, le bellissime vallate), tuttavia questa bellezza non sembrava produrre lo stesso effetto sulle persone che vi vivevano o perlomeno non allo stesso livello. La bellezza dell'Arizona era fine a se stessa: possiamo fare della vela nella baia di S. Francisco, possiamo pescarvi, possiamo usare le foreste di sequoie per trarne legno, possiamo piantare vigneti, cioè il nostro paesaggio, per quanto bello, deve almeno per una buona parte del tempo, essere visto in modo strumentale: veniamo distratti dalla sua bellezza, dal pensiero di come possiamo utilizzarlo per raggiungere i nostri fini personali. La bellezza del deserto dell'Arizona è di un tipo ben più austero: cactus invece di sequoie, aride pianure invece di fertili, il deserto non esiste per un nostro possesso, per un nostro uso o per un nostro consumo, esiste in quanto tale, per se stesso e l'esperienza estetica è un semplice "si" detto a questa esistenza, un riconoscimento istintivo che è buono in se stesso, un riconoscimento che è privo di egocentrismo e che è spiritualmente purificante. Ho così capito perché spesso, dei movimenti di rinnovamento spirituale sono venuti alla civiltà dal deserto. In un paesaggio visto strumentalmente è il movimento che predomina, i cambiamenti da operarvi per raggiungere i nostri scopi mentre in un paesaggio visto esteticamente le tonalità e non il movimento è quanto predomina, ed è la funzione più importante di un artista quella di portarci a questi momenti di contemplazione. Oggi vorrei mostrarvi come questa visione vecchia maniera, questa visione spirituale dell'arte può essere rilevante per la nostra età moderna; vorrei tracciare la storia di un artista molto importante della nostra età e come egli è arrivato a questa idea, come ha iniziato la sua carriera artistica pensando che il finito fosse sufficiente per la sua arte e come invece si è trovato ad un incontro con la stona del XX secolo che lo ha spinto a mutare la sua idea. Questo artista è il poeta, lo scrittore e saggista polacco premio Nobel della letteratura nell'80 Milosz. Le sue prime poesie sono state scritte nella Lituania negli anni '30 e si possono capire nel modo migliore come celebrazioni del panteismo. Milosz è stato membro di un piccolo gruppo che si chiamava Zagari questa è la parola lituana che significa arbusti. In Milosz questa parola aveva acquisito un significato ben più specifico: Zagari significava oggetti secchi, ramoscelli semicarbonizzati dal fuoco, ma tuttavia ancora luminosi, ed in questa immagine è implicita una intera poetica. Gli esseri umani non sono altro che fruscelli, arbusti; nello schema cosmico delle cose esistiamo per scomparire un attimo dopo, tuttavia nella conflagrazione che ci riduce a ceneri ardenti, mentre svaniamo nel nulla, possiamo ancora ruotare per emettere una scintilla di luce, una luce che è il nostro solo modo per affermare la bontà del processo stesso che ci consuma. Questa oscura ma bella luce è emessa da sofferenti braci umane ed è questo che noi chiamiamo poesia. Molte delle poesie di Milosz sono delle celebrazioni del rinnovarsi della terra divina; per esempio nella poesia del '34 Anno", egli loda la terra che ben presto avrebbe dimenticato la sua presenza come se egli non l'avesse mai abitata. Dice la poesia: "Correte fiumi e levate le vostre mani città, io fedele figlio della nera terra tornerò nella terra come se la mia vita non fosse mai stata". Malgrado il riconoscimento della sua caducità Milosz è e vuole insegnarci a divenire un fedele figlio della nera terra, soltanto allora egli e noi attraverso egli, potremo rivolgerci alla natura con un inno, soltanto allora egli sarà in grado di poter vedere la fugacità umana con serenità. Tuttavia quando Milosz stesso ha rivisto la transitorietà umana in una scala ben più vasta, nel corso dell'occupazione nazista di Varsavia ha scoperto che non poteva accettare con serenità questo evento, ha scoperto che il suo panteismo era impossibile da sostenere. Milozs ha scritto una serie di poesie per celebrare quell'aspetto dell'esistenza naturale che ancora adorava, che porta come titolo "Il mondo", scritto un po’ come il libro di lettura di un bambino (Milosz stesso lo chiama uno dei libri più sereni della letteratura moderna polacca): "Su un seme di papavero vi è una piccola casetta e dentro persone, un gatto e un topo fuori nel cortile, un cane abbaia alla luna poi nel suo proprio mondo dorme fino a mezzogiorno". Per difendersi dalla disperazione totale è necessario esser capaci di trovare il mondo in un seme di papavero o in un granello di sabbia: la semplicità di questi poemi come una maschera. Questi poemi, queste poesie sono un opuscolo metafisico nella realtà, un opuscolo che egli vedeva completamente in termini teologici tradizionali, come l'ultimo poema della serie "Il sole". All'inizio sembra essere d'accordo a prendere le parti dell'artista che celebra la natura come un tutto e "tutti i colori sono fatti di sole e il sole li contiene tutti, così alla fonte stessa del colore il sole stesso non ha più colore ma la terra diversa è come una poesia individuale o un immagine, con il sole come emblema dell'artista del tutto". Tuttavia una volta che abbiamo capito, Milosz si aspetta da noi che riconosciamo che il sole rappresenta Dio, allora la poesia diventa una mediazione sul rapporto fra il creatore e le sue creature, fra l'unità dell'essere e la pluralità del divenire, fra l'infinito e il finito. Come creature non possiamo assumerci il ruolo di occhi di Dio, una visione divina del mondo è del tutto al di là delle nostre capacità e quindi il solo modo in cui possiamo capire tutto e arrivare a Dio è proprio attraverso questi piccoli dettagli che ci circondano, e il poema conclude: "Lasciate che si inginocchi, che prema la guancia sull'erba e che guardi finche non vedrà il raggio della terra che si riflette verso l'altro, allora ritroverà tutti i nostri tesori perduti e dimenticati". Stelle e rose, il colore, il sorgere del sole, Milosz può continuare ad adorare la nera terra perché riflette un essere trascendente ed è per questo che comincia anche a scoprire la cristianità all'interno del suo panteismo. Dopo la conclusione della II guerra mondiale la stessa vita di Milosz era stranamente tumultuosa. Ha cercato di lavorare con il nuovo governo polacco come diplomatico poi, quando questo è stato reso impossibile dallo stalinismo, ha preferito l'esilio in Francia; la pressione era talmente forte che all’inizio non ha potuto assolutamente scrivere poesie, poi, ha scoperto uno scrittore che lo ha aiutato a capire gli avvenimenti spirituali e le sue difficoltà spirituali. Nel '38 cinque anni prima della sua morte, all'età di 34 anni, Simone Veil aveva avuto una esperienza mistica. Tutta la sua vita era stata - usando le sue parole - "catturata da Cristo" ma questa esperienza mistica non l'aveva portata ad abbandonare il suo ateismo necessità che governa il mondo mentre il bene che governa i nostri ideali: una contraddizione estremamente forte mentre è per Veil la leva della trascendenza". Contemplando questa contraddizione i crea tura giunge a riconoscere che non è sola. Non è un illusione, la sicurezza per Veil di tipo estetico: nella contemplazione della necessità della natura noi capiamo che vi è una manifestazione indiretta di qualcosa di infinitamente maggiore, più grande. Nel trovare la bellezza e negli eventi tragici inseparabili dall'esistenza umana noi amiamo colui che è assente. Milosz ha cercato di esprimere la visione spirituale dell'arte nel romanzo che ha scritto nel suo esilio, la ricostruzione di un mondo stalinista che sarebbe stato distrutto dalla collettivizzazione stalinista stessa, (il titolo è "Presa di potere"). Prendiamo, per esempio, uno dei suoi personaggi, il prof. Gill con le sue lamentazioni post-guerra che rappresentano l'inizio e la fine del romanzo. Gill ha perso tutto nel corso della guerra: la moglie, il figlio, ha perso il posto ma continua a sopravvivere traducendo le storie e di brani di Tucidide che parla proprio delle stesse distruzioni attraverso cui è dovuto passare, ma la mano che traduce si rende conto che non ha il potere di salvare Atene, così come non ha avuto il potere di salvare la sua famiglia. La sua capacità, il suo potere è il potere dell'immaginazione, della memoria collettiva ed è così che cerca di ricreare i gesti di una donna ateniese che soffre. Gill conosce questi personaggi e si sente riscaldato dal loro respiro e dalla comunione con essi riceve la pace: l'aspirazione di Gill è anche l'aspirazione dell'arte più matura di Milosz.

C. Benincasa:

La capacità di stupire e di percuoterci di Maunick ci disperde e ci raggruma, ci frantuma e ci inebria, ci fa vedere l'infinito qui di fronte, in faccia a noi, nello sguardo stupito di un bambino, nell'albero che mette radici. La sua parola mi richiama molto a quel versetto dell'Ecclesiaste quando dice "l’abisso invoca l'abisso", o alla parola del profeta Geremia quando dice: "Sono stato mandato per sradicare. Volenti o nolenti, ha detto Maunick, noi facciamo parte dell'infinito. Quando il nostro cuore, il nostro sguardo si accorge che questo infinito non è un mistero ma ha una voce, dei piedi sporchi, sudati, è insofferente, ha bisogno di qualche cosa, ha paura della morte, supplica che il calice venga portato via, quando questo infinito e questo mistero è diventato un incontro, una presenza, da quel giorno quello sguardo per noi è diventato un dialogo noi non facciamo più parte dell'infinito, l'infinito abita fra noi. Da quel giorno è cominciata per noi una grande avventura di un rapporto di amore: abbiamo tutti bisogno dell'eternità, stati conficcati da sempre nell'eternità. Soltanto una piccolissima citazione di questa grandissima scrittrice francese Margherite Jurcenar: "I cristiani pregano davanti alla croce, se la portano alle labbra, si accontentano di quel pezzo di legno anche se più nessun salvatore oggi vi è attaccato".