Sussidiarietà in sanità: esperienze profit e non profit
Giovedì 27, ore 16.30
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Relatori:
Ann L. Prestipino, Vice Presidente Amministrativo Massachusetts General Hospital Harvard University Boston
Mario Zanetti, Direttore Generale dell’Agenzia Sanitaria della Regione Emilia-Romagna e Docente di Programmazione e Organizzazione dei Servizi Sanitari presso l’Università degli Studi di Bologna
Rosario Bifulco, Amministratore Delegato Istituto Clinico Humanitas
Pierluigi Marchesi, Responsabile del Centro Studi e Formazione, Consigliere Provinciale della Provincia Lombardo-Veneta dell’Ordine Ospedaliero San Giovanni di Dio-Fatebenefratelli
?? Borsani, Assessore
Prestipino: Il Massachusetts General Hospital di Boston è un esempio di ospedale universitario non profit degli Stati Uniti. Vorrei passare in rassegna brevemente sia la storia sia l’attuale situazione del sistema sanitario degli Stati Uniti, in modo da contestualizzare anche l’attività del Massachusetts General Hospital.
La sanità negli Stati Uniti si è sviluppata in maniera conforme alla struttura politica e governativa del paese e quindi come parte integrante di un libero mercato improntato alla democrazia; i cittadini statunitensi hanno sempre ritenuto fondamentale che ci fosse accesso alle strutture e alle prestazioni sanitarie per tutti e che questa fosse un’importante missione della società civile. Negli Stati Uniti il sistema sanitario è complesso, diversificato e in continua evoluzione. Sia nel modo di erogare la prestazione sanitaria che nel modo di finanziarla, il sistema si è molto sviluppato, trasformandosi da un’industria limitata su scala ridotta, quasi a gestione familiare, ad un grandissimo business. Si è passati dal cosiddetto controllo a livello della fornitura, il supply side, al controllo sul lato della domanda, il demand side; inoltre, le forze del mercato negli Stati Uniti hanno portato alla creazione di meccanismi alternativi per finanziare e rendere possibile l’accesso diretto alla prestazione sanitaria, quello che si chiama il sistema di sanità gestita.
Attualmente però le tendenze di mercato vanno verso la riduzione del volume dei pazienti e l’accrescimento della concorrenza per aggiudicarsi questi pazienti. Per tradizione i cittadini statunitensi hanno sempre avuto la possibilità di acquisire una qualche forma di assicurazione sanitaria attraverso il proprio datore di lavoro; gli anziani e certi gruppi di cittadini particolarmente bisognosi hanno potuto godere di una copertura sanitaria fornita attraverso un programma istituito dal governo federale, così come i più indigenti hanno avuto accesso a una copertura sanitaria che è fornita da un sistema costituito a livello statale, quindi federale. Esistono infine degli ospedali non profit che hanno reso disponibile a determinati gruppi particolarmente indigenti, quindi non in grado di sostenere le spese per la sanità, una serie di prestazioni sanitarie gratuite. In genere alcuni ospedali universitari, come l’ospedale che io rappresento, sono riusciti ad ottenere coperture di determinate spese grazie a contributi aggiuntivi derivanti dalle compagnie assicurative che pagavano su base di prestazione. Inoltre in alcuni Stati vengono dati una serie di contributi per rendere possibile sia l’istruzione post-laurea del personale medico che l’adempimento di una serie di importanti missioni sociali da parte di questi istituti, come la ricerca, l’assistenza specializzata e tutta una serie di servizi, oltre ai costi aggiuntivi associati a particolari patologie.
Il finanziamento del sistema sanitario è cambiato molto: si è passati da un sistema basato fondamentalmente sul rimborso dei costi sia per gli ospedali sia per i medici, ad un sistema di rimborso unitario o per caso in base ai ricoveri. Esiste anche un sistema di pagamento per la prestazione per il medico che viene utilizzato sulla base di determinati tipi di scala. Gli ospedali e i medici quindi devono diventare sempre più efficienti e sono stati istituiti degli incentivi in questo tipo di struttura proprio allo scopo di ridurre i costi per ricovero o prestazione o visita. Tuttavia non esistevano degli incentivi atti a contribuire e a ridurre il volume delle prestazioni sanitarie. Negli anni Novanta è stato istituito il sistema così detto a quota capitaria che contribuisce a incentivare la riduzione dei costi, la riduzione o la limitazione del volume delle prestazioni. In questo sistema i finanziamenti pro capite mensili vengono erogati sia agli istituti ospedalieri che ai medici responsabili di fornire tutte quelle prestazioni sanitarie necessarie ai pazienti registrati in base a questo particolare programma.
Il Massachussets General Hospital è stato costituito nel 1811, ed è divenuto operativo nel 1821; si tratta della terza clinica universitaria più antica degli Stati Uniti, un ospedale privato universitario non profit che costituisce un istituto indipendente dall’Harvard Medical School, con la quale ha stretti legami e che serve come centro universitario fondamentale collegato con la facoltà di medicina di Harvard. Che il mio ospedale sia un ente privato non profit significa che esso risulta esente dalla imposizione fiscale federale, e che tutti coloro che fanno delle donazioni all’ospedale possono ritenerle deducibili dal proprio livello di imposizione, quindi dalla tassazione federale. Una organizzazione esente dalle imposte come la nostra, quindi esentasse, può partecipare a tutta una serie di attività che non sono direttamente correlate con l’oggetto dell’esenzione fiscale, purché queste attività trovino una giustificazione contabile, vengano assoggettate a normale tassazione e non risultino essere l’obiettivo principale della complessiva attività dell’ospedale. L’ospedale è gestito da un consiglio di amministrazione di cui fa parte sempre d’ufficio il presidente del Massachussets General Hospital. La casa madre gestisce sia il policlinico, che è un istituto di riabilitazione, un ospedale psichiatrico e un istituto di formazione. Tutti questi istituti nel loro insieme costituiscono la famiglia del Massachusset General Hospital.
Nel corso del tempo il nostro ospedale è divenuto uno degli ospedali non profit universitari più importanti degli Stati Uniti. La nostra missione è di fornire un servizio sanitario della massima qualità possibile sia al singolo paziente che alla comunità nel suo insieme, offrire una prestazione di massimo livello di eccellenza grazie alla ricerca biomedica e fornire tutte le strutture formative necessarie a coloro che si occuperanno sia a livello pratico che accademico della professione medica.
Attualmente il policlinico fornisce 819 posti letto per un totale di 34.000 ricoveri all’anno. La durata media del ricovero è in genere di 6,6 giorni. Sono oltre un milione all’anno le visite a livello ambulatoriale e gli interventi di pronto soccorso che noi forniamo, sia a livello ospedaliero che nei vari presidi presenti sul territorio e affiliati al nostro ospedale. Sono complessivamente 27.800 gli interventi chirurgici svolti ogni anno, interventi svolti da 17 servizi clinici; i pazienti arrivano da noi da tutte le parti del paese, anche dal resto del mondo. I programmi clinici più importanti esistenti nel nostro ospedale riguardano la cardiologia, la oncologia, la ortopedia e le neuroscienze. Come parte della propria missione accademica il nostro ospedale tutti gli anni fornisce dei programmi di formazione clinica a oltre 500 studenti della facoltà di medicina di Harvard, e a oltre 100 studenti di altre facoltà di medicina di tutto il mondo. Abbiamo oltre 570 specializzandi nei 21 programmi di specializzazione disponibili e 290 partecipanti a 81 programmi di fellowship, programmi per l’acquisizione delle super specializzazioni, ovvero le specializzazioni successive alla specializzazione.
Il nostro istituto ha un programma di ricerche estremamente attivo, al primo posto rispetto a qualunque altro centro sia ospedaliero che medico. Il nostro ospedale ha un fatturato annuo di quasi un miliardo di dollari, con un reddito annuo di 888 milioni di dollari provenienti da tutta una serie di programmi assicurativi. Le spese annue complessive del nostro ospedale sono circa 860 milioni di dollari. A differenza degli ospedali a scopo di lucro, il cui obbiettivo è quello di riuscire a generare degli utili per gli azionisti della società, nel nostro caso gli utili derivanti devono essere utilizzati a scopo di beneficenza, vale dire per rendere disponibile una serie di prestazioni sanitarie gratuite e per incrementare lo sviluppo e il miglioramento dei programmi esistenti. La qualità dell’assistenza sanitaria è un elemento estremamente importante nella missione del nostro ospedale e rappresenta un enorme vantaggio competitivo. Gli ospedali degli Stati Uniti devono essere accreditati da una commissione che si occupa dell’accreditamento delle organizzazioni sanitarie per poter avere diritto ai finanziamenti.
Per chi di noi opera in ospedali universitari non a scopo di lucro è molto importante riuscire a mantenerci sempre ligi alla nostra missione di fondo. Si tratta di un’importante missione sociale: gli istituti come il nostro che si occupano di formazione, di ricerca e di programmi innovativi anche a livello assistenziale, devono essere aiutati e protetti nel loro lavoro. A tal fine noi ci impegneremo a far fronte a tutte le sfide che continueranno a sorgere in futuro nel perseguimento dei nostri obiettivi.
Zanetti: Credo sia difficile paragonare un qualunque sistema sanitario europeo al sistema sanitario degli Stati Uniti, trattandosi di due mondi completamente diversi. Vorrei invece portare l’attenzione sulla realtà del nostro paese, cercando di capire che cosa sta avvenendo nel nostro paese ed anche in Europa per quanto riguarda la sanità.
Il sistema sanitario italiano sta passando un momento di grande e notevole crisi: non è solo una crisi economica, come qualcuno molto spesso cerca di sottolineare, ma è un problema organizzativo ed anche un problema di formazione.
Dal punto di vista economico, spendiamo complessivamente una cifra fra pubblico e privato che è superiore al servizio sanitario inglese, albanese, spagnolo; la triste diagnosi è che rispetto alla situazione di spesa complessiva di 150 mila miliardi, il livello di soddisfazione dei cittadini per il servizio sanitario - premesso che in nessun paese del mondo si supera il 60% medio di soddisfazione -, secondo le inchieste più recenti dell’Organizzazione Mondiale della sanità, se il servizio nello Stato del Quebec arriva al 65%, nello Stato italiano arriva poco oltre il 20%. Questo vuol dire che nel nostro paese spendiamo male i soldi: presumibilmente infatti una cifra complessiva di 150 mila miliardi potrebbe dare ottimi risultati, se ben programmata e politicamente governata.
Per quanto invece riguarda i problemi organizzativi, il governo Amato e i susseguenti hanno messo in moto o avrebbe dovuto mettere in moto un’operazione molto coraggiosa, quella di una reale aziendalizzazione del sistema sanitario. Questo non vuol dire un’impresa del sistema sanitario: tra azienda e impresa c’è un enorme differenza, tecnicamente infatti "azienda" è un’organizzazione corretta, efficiente e di qualità di un servizio, "impresa" invece è qualcosa che pone come fine il profitto. Eppure, l’aziendalizzazione non va avanti; aziendalizzazione vorrebbe dire autonomia, vorrebbe dire fuggire dalla mano dell’autorità politica che ha sofferto di perdere gran parte del potere nella gestione diretta del sistema. Andare fino in fondo nella organizzazione aziendale vorrebbe dire definire veramente un modello corretto di azienda. Nella logica della regionalizzazione spinta un vero modello aziendale non è stato proposto, ognuno ha tentato di copiarlo o di farlo proprio con i modelli alternativi. Il tipo di aziende sanitario è così molto vario in funzione delle diverse regioni, e ha risentito enormemente delle spinte dei campanili e dei diversi rapporti politici nei diversi consigli regionali.
Il livello di organizzazione cui dobbiamo tendere deve innanzitutto realizzare una separazione fra produttori e fornitori; per fare questo bisognerebbe che le regioni fossero pronte ad agire come una holding regionale, perché fino a quando le regione non realizzano un controllo della massa di denaro che viene spesa, la separazione tra produttori e fornitori può solo essere rischiosa. Bisognerebbe arrivare ad avere delle aziende USL che comprano e che hanno una notevolissima dimensione territoriale -intorno ai minimo 500 mila o un milione di abitanti - e accanto delle aziende ospedaliere a rete e non autonome, ognuna che fornisce i servizi e che sia anche in competizione con le altre. Questo è a mio avviso il livello di organizzazione cui dobbiamo tendere, se pensiamo di andare verso quello che non è un libero mercato ma un mercato controllato o un mercato gestito; è impensabile arrivare al libero mercato, perché il libero mercato risponde a delle regole che non saranno mai presenti in sanità, se non altro perché è l’unico mercato al mondo che ha saturazione nel consumo e un tetto di bilancio inevitabile fissato ogni anno dalla legge finanziaria, ed anche perché è un mercato nel quale si distribuisce un bene che non viene comprato in funzione delle possibilità ma in funzione delle necessità. Queste necessità non si programmano, perché sono superiori nelle popolazioni più povere rispetto alle popolazioni più ricche: chi ha meno ricchezze, chi ha meno cultura, muore prima e si ammala di più.
Il terzo aspetto del problema è la cultura e la formazione: un ribaltamento totale del sistema è molto pericoloso senza fare modificazioni culturali e modificazioni della formazione dei dirigenti. Non c’è stato alcuno sforzo di cambiamento nella formazione, non è stata fatta alcuna operazione di formazione dei dirigenti e soprattutto dei quadri intermedi.
Che fare rispetto a questi problemi? La sussidiarietà è importante, ma occorre intendersi sulla parola. "Sussidiarietà" non significa che lo Stato non deve fare tutto, significa piuttosto un atteggiamento realmente competitivo nella organizzazione. Bisogna però avere il coraggio di andare fino in fondo in questo atteggiamento, bisogna accettare che tutto il personale del servizio sanitario nazionale passi da dipendente di lavoro pubblico a dipendente di lavoro privato. Sussidiarietà vuol dire non assicurazioni, ma mutue: le mutue sono meglio delle assicurazioni, perché aumentano del 12% le spese di transazione nelle assicurazioni. Le mutue possono essere sostitutive, integrative o complementari; quelle della sanità dovrebbero essere complementari. Le mutue sostitutive sono criticabili, perché significano che un cittadino paga un servizio due volte. Le mutue integrative invece sono quelle assicurazioni e mutue che pagano le differenze, come la camera di lusso e altri costi aggiuntivi. Le mutue complementari sono quelle che sulla carta si intravedono nel piano sanitario nazionale: per fare le mutue cosiddette complementari bisogna che lo Stato fissi quali sono i livelli essenziali di assistenza a cui tutti i cittadini hanno diritto in funzione del versamento fiscale che fanno sotto ogni altra attività.
Se non si riesce a fare questo, il piano sanitario nazionale diventerà l’ennesimo libro dei sogni: la sussidiarietà ha diritto di esistenza nella competizione di un mercato controllato e con un privato che sia integrato e non integrativo nella programmazione dello Stato e delle regioni.
Bifulco: La globalizzazione dell’economia e lo sviluppo della interdipendenza a livello europeo sottopongono in questo momento tutti i sistemi sanitari nazionali a una forte pressione competitiva e quindi introducono degli importanti vincoli, anche di bilancio; l’Italia si trova ad affrontare questa difficoltà, una difficoltà oggettiva che vivono anche altri paesi. È chiaro che per questo il nostro sistema di welfare e in particolare il nostro sistema sanitario si trovano sotto pressione: la sfida di quest’epoca si sintetizza a mio parere nella capacità di cooptare tutti gli sforzi per cercare di risolvere questo nodo della sanità, a cui in realtà si dedica non sufficiente energia da parte delle forze politiche, soprattutto quelle interessate esclusivamente ai fenomeni economici.
La nostra esperienza si colloca in questo contesto: negli anni Novanta a Milano, un gruppo di imprenditori e di assicuratori hanno voluto un ospedale policlinico di alta specialità, con un investimento superiore a 200 miliardi. Da qui è nato Humanitas, che è stato costruito in tre anni - questo dà l’idea di come potrebbero essere risolti in Italia i problemi della sanità... -, un ospedale di alta specialità che include tutte le specialità importanti dalla neurochirurgia alla cardiochirurgia, e che prossimamente aprirà un pronto soccorso di alta specialità. È un ospedale universitario, in cui l’Università di Milano e le università lombarde fanno affluire gli studenti per specialità. È un ospedale che noi, che veniamo dal settore industriale, un settore completamente diverso, abbiamo curato particolarmente, confrontandoci continuamente con le esperienze internazionali. In un anno Humanitas ha avuto un certo successo: con l’investimento iniziale autofinanziato di 250 miliardi in pochissimo tempo siamo riusciti a creare un ospedale di eccellenza. Abbiamo chiamato questa realtà Humanitas perché abbiamo posto al centro dell’attenzione il paziente.
Perché l’esperienza di Humanitas o una sua parte potrebbero essere una risposta al problema della sanità in Italia? Sono ancora sorpreso della lentezza con cui si approccia questo problema: c’è poca attenzione su di esso, da parte soprattutto dei ministri economici, che probabilmente considerano la sanità un argomento o di poco interesse o di troppo interesse e quindi di pericolosità. Il problema e la sua risoluzione vengono così demandati al ministro della sanità, che non ha neanche tutte le leve per poter risolvere la situazione. Humanitas nasce dalla considerazione che lo Stato e il sistema sanitario pubblico hanno quattro tipi di problemi. Il primo sono le scarse risorse: il finanziamento che viene fatto in questo momento, le tariffe - le più basse che ci siano - e la somma di 1.600.000 pro capite non sono sufficienti. Il secondo problema sono gli investimenti, che risultano molto scarsi - siamo primi solo rispetto alla Grecia... -: gli investimenti però significano migliorare l’efficienza, quindi non è bene che siano così scarsi. In terzo luogo, ci sono degli sprechi e una scarsa efficienza nella gestione, concentrati soprattutto negli ospedali metropolitani. Infine, c’è una cultura manageriale ancora all’inizio, anche perché, a differenza di altri settori in cui il pubblico è presente, nel settore sanitario c’è una grande parcellizzazione, e trovare risorse di qualità per tante strutture non è facile.
La risposta che abbiamo pensato di dare o che potremmo dare nel futuro riguarda questi aspetti. Il primo aspetto riguarda il finanziamento: come azionisti, abbiamo degli assicuratori, che guardano con interesse alla mutualità: si può discutere se essa debba essere complementare, integrativa o sostitutiva, ma il problema di fondo è che ci sono 50 mila miliardi che vengono spesi male, con delle grandissime sperequazioni e con una grande banalizzazione delle risorse più deboli, che in realtà non sono gestite. I soldi vanno a vantaggio di alcune figure ma non sicuramente a vantaggio del nostro sistema: occorre recuperare 50 mila miliardi, che siano a mutualità integrativa, assicurativa, complementare. Sulla gestione e sugli investimenti, abbiamo dimostrato che esisterebbe la possibilità del project financing, ovvero di autofinanziare un investimento da 200 miliardi: in un tempo breve abbiamo recuperato l’investimento. Un meccanismo del genere potrebbe funzionare almeno per parti delle strutture pubbliche, dove chiaramente le risorse sono scarse e anche il gestirle implica una serie di vincoli. Una gestione del genere aiuterebbe anche ad evitare gli sprechi. L’ultimo tema è quello della scarsa cultura manageriale: occorrono tante risorse economiche anche in questo senso, trattandosi di numerose strutture e essendo la complessità manageriale di un ospedale non da meno di quella di una qualsiasi altra struttura; alcuni americani sostengono addirittura che sia il massimo della complessità gestionale, e che quindi occorrerebbero dei manager di altissima qualità.
Noi siamo una struttura profit: il nostro ultimo intendimento è quello di raccogliere degli investimenti, dei capitali per finanziare questi investimenti. Per poter far si che il capitale possa entrare in questo settore, occorre garantire o mostrare una certa remunerazione. Noi prevediamo nel futuro la possibilità di arrivare in borsa, di arrivare a livelli di trasparenza massima: il problema di fondo è anche in questo senso la qualità, che implica l’essere in grado di far affluire capitali per poter finanziare la macchina della sanità, una macchina da 150 mila miliardi.
Marchesi: Non ho cattedre da presentare e non sono un dirigente: posso solo presentare la storia del mio ordine, i Fatebenefratelli. Da 500 anni siamo vicini all’uomo: in tutto questo groviglio di problemi importantissimi che il nostro paese sta vivendo nell’evoluzione della sanità, mi pare che molte volte manchi proprio l’uomo. I Fatebenefratelli sono un ordine religioso laico che ha un voto in più per assistere esclusivamente i malati, ed è un ordine oggi presente nel mondo in 43 paesi e con 213 opere sanitarie.
Oggi sentiamo parlare molto di aziendalizzazione: non demonizzo la parola, però sento fare poche volte un’analisi del prodotto delle nostre aziende sanitarie. Vorrei solo mettere in guardia da una riduzione: i servizi sanitari non sono per le mode, nelle nostre aziende si nasce e si muore, nelle nostre aziende c’è la parola dolore. È giusto questo processo di aziendalizzazione per provare percorsi innovativi, ma vorrei ricordare prima dell’aziendalizzazione tutte le famiglie religiose - le famose suore degli ospedali che oggi purtroppo non ci sono più - e tutti coloro che han dato la vita per la sussidiarietà nella sanità, senza timbrare un cartellino al mattino o alla sera. Nelle nostre famiglie religiose della sanità abbiamo introdotto la parola "umanizzazione", che ci è costata anche tante critiche da chi diceva che una famiglia religiosa deve evangelizzare e non umanizzare. Oggi siamo orgogliosi di sentire dire che la nuova evangelizzazione si farà se l’uomo ha uno spazio di vita: se non avremo la capacità di una non evoluzione ma rivoluzione culturale nella formazione universitaria, nella formazione della scuola degli infermieri, non potremo avere questo spazio di vita.
È vero che il governo e lo Stato devono fare le veci e occuparsi della salute, perché l’Italia è un paese che spende male, spende poco e fa meno medicina preventiva di molti altri paesi: ma se è vero questo è altrettanto vero che il governo e il legislatore debbano fare le leggi e cercare di farle osservare, ma non devono gestire. La gestione va fatta da chi è capace di gestire; la vocazione politica non è un dono dello Spirito Santo, occorre veramente insegnare la managerialità sanitaria. Chi si accosta a queste aziende deve sapere prima di tutto qual è il prodotto che questa azienda deve dare, indipendentemente dal legame che la politica ha con l’ospedale.
La mia speranza è che questo processo della qualità che oggi si sta immettendo non si traduca solo in accreditamento e certificazione, perché una qualità vera si può avere solo se ci sarà al suo interno un contenuto culturale nuovo ispirato da un etica generale, non necessariamente un’etica cristiana, bensì dei principi etici veri che governino l’ospedale.
Se la vita non è un sogno credo però che tutti abbiamo il diritto di sognare che nelle nostre aziende sanitarie ci sia un porto nuovo di amore e di amicizia.
Borsani: Credo che l’aziendalizzazione voglia dire azienda, e non solo vivere e morire, ma anche cercare di far guarire i pazienti. Dobbiamo cercare di offrire una struttura a coloro che la devono gestire, che non debbono essere più i politici, proprio perché il cittadino, l’uomo abbia finalmente una risposta seria ai propri bisogni sanitari.
Il confronto con la realtà degli Stati Uniti ci offre degli elementi molto importanti: strutture nuove, milioni di dollari per la ricerca all’anno, 40% di spesa per il personale... questi tre elementi devono essere esaminati bene per il futuro della sanità. La realtà italiana è ben diversa: il 48% degli ospedali italiani sono stati fatti prima della seconda guerra mondiale - non basta sistemare qualcosa ogni anno, si tratta comunque di strutture vecchie -, mentre la popolazione italiana non solo sta andando verso il 30% di anziani ma si tratta di anziani sempre più esigenti. Si vive meglio, si vive di più, anche per gli interventi sanitari come i trapianti e per le tecnologie sempre più all’avanguardia: per questo, non si può pretendere di affrontare la sanità con i tagli. Bisogna invece avere il coraggio di cambiare, di investire di più in sanità, perché investire di più in sanità vuol dire far girare un indotto tale da creare nuovi posti di lavoro, vuol dire far funzionare l’edilizia, vuol dire far funzionare l’informatica, vuol dire far funzionare la ricerca, vuol dire far funzionare anche, ma non solo, la ricerca tecnologica, la farmaceutica.
La globalizzazione di cui si è già parlato, è una realtà che noi dobbiamo affrontare con i politici: se l’Italia non sarà preparata a misurarsi con le altre nazioni europee sarà un paese del terzo mondo, se noi non inizieremo a sfruttare la ricerca per essere proprietari noi della tecnologia, del know-how, saremo espulsi dal resto del consesso dell’euro e diventeremo soltanto terra colonizzata da coloro che avranno la tecnologia. Bisogna investire, chiedere più soldi; sicuramente questo dipende soprattutto dal fatto che sono stati spesi male i soldi per anni, gli anni nei quali i soldi della sanità sono stati buttati nel calderone dove ciascun deputato faceva un ospedalino nel proprio collegio elettorale per essere eletto a vita, ospedalini che non servono più a niente.