Fondazione Populorum Progressio al servizio dei poveri dell’America Latina

Mercoledì 26, ore 15

Relatori:

Roger Etchegaray

Virgilio Resi

Roger Etchegaray sacerdote dal 1947, è stato arcivescovo di Marsiglia dal 1970 all’84. Creato cardinale da Papa Giovanni Paolo II nel 1979, dal 1984 è Presidente del Pontificio Consiglio "Iustitia et Pax" e del Pontificio Consiglio "Cor Unum" incaricato del coordinamento delle opere di carità nella Chiesa).

Etchegaray: Se l’Africa è considerata il continente della fame e l’Asia il continente della sovrappopolazione, l’America Latina può essere considerata il continente dei contrasti.

Come ha scritto Giovanni Paolo II nella lettera di costituzione, la Fondazione Populorum Progressio al servizio dei poveri dell’America Latina vuole essere un gesto di amore solidale nei confronti dei più indigenti, degli abbandonati, di coloro che abbisognano di maggior protezione, le popolazioni indigene meticce e afro-americane.

La fondazione riprende un’idea di Paolo VI maturata dopo l’incontro con i campesinos, a Bogotà, il 23 agosto 1968. Essa ha tratto il nome da un’enciclica che il Papa aveva scritto un anno prima. Questa fondazione, col passare degli anni, è stata trascurata. Giovanni Paolo II dando lo stesso nome all’organismo attuale, ha sottolineato l’attenzione che bisogna prestare a questi poveri, testimoniando altresì il suo impegno con i viaggi in ventitrè Paesi dell’America Latina. Si tratta di una Fondazione caratterizzata dal decentramento: il Presidente del Consiglio pontificio gestirà tutto, ma le singole Chiese decideranno il da farsi.

In sei paesi dell’America Latina c’è il numero maggiore di poveri indios campesinos: Bolivia, Brasile, Guatemala, Messico, Perù, Haiti. I campesinos rappresentano ancora oggi una percentuale molto elevata della popolazione; nell’ambito del processo di urbanizzazione e di industrializzazione del continente, i contadini spesso costituiscono una massa emarginata, senza protezione. Tra di loro, in certi Paesi si incontrano numerosi indios, discendenti diretti o meticci dei popoli precolombiani, e gruppi consistenti di afro-americani discendenti di coloro che sono stati strappati dall’Africa all’epoca dello schiavismo. Gli indios sono circa quaranta milioni, parlano quattrocento lingue diverse. I Paesi che ne ospitano la percentuale maggiore sono i seguenti: prima di tutto la Bolivia, la cui popolazione è composta per il 71% da indios, il Guatemala (66%), il Perù (47%), l’Ecuador (43%).

Uno dei problemi maggiori per gli indios è il problema della terra: dieci milioni di contadini senza terra nel solo Brasile, dove il 58% delle terre coltivate, è concentrato nelle mani del 2% delle aziende agricole. Il dramma è che tutti i tentativi di riforma agraria condotti in America Latina sono falliti nonostante le dichiarazioni coraggiose dell’Episcopato e del Papa stesso.

La concentrazione maggiore della popolazione afro-americana si trova, invece, nei Caraibi, dove molte isole contano il 90% di negri, o, se si aggiungono i mulatti, il 100%. L’isola della Giamaica, con due milioni di abitanti, ha una concentrazione di negri pari al 90% ed oltre. Haiti ha una popolazione di negri pari al 94% e il 5% dei mulatti, mentre la parte dell’isola costituita dalla Repubblica dominicana ha una percentuale pari al 6% di negri e al 70 % di mulatti. Tutta l’America Latina ha presente nel suo territorio la popolazione nera: la Colombia ne conta il 6% e il 23% di mulatti; il Brasile ha una percentuale pari all’11% di negri e al 22% di mulatti. La pratica della tratta degli schiavi non era nuova quando è stata scoperta l’America; già nell’antichità essa era praticata dalle regioni subsahariane verso le regioni del Mediterraneo. Prima della scoperta dell’America, Spagna e Portogallo avevano già i loro schiavi negri, ma il trapianto di esseri umani non ha mai avuto tanta incidenza e tali dimensioni se non dopo. Dalla fine del XV secolo fino all’anno 1888, anno in cui il Brasile, per ultimo, abolì lo schiavismo, sono stati deportati dagli 11 ai 15 milioni di abitanti dell’Africa, ma ora i negri, come gli indios nell’America Latina, stanno prendendo coscienza della propria identità.

Molto spesso questi afro-americani sono stati emarginati, tanto che si è deformata la loro mentalità; per esempio, dopo la fine dello schiavismo, in Brasile, soltanto lo 0,8 degli schiavi era sposato, perché la famiglia era un’istituzione loro rifiutata.

Ora i discendenti degli schiavi hanno un’eredità pesante da portare. Non dimenticate i bisogni dei poveri fra i più poveri! Non conosciamo abbastanza la ricchezza umana e spirituale delle popolazioni indigena e afro-americana, non conosciamo abbastanza le dichiarazioni coraggiose dei vescovi dell’America Latina, ai quali Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno apportato il loro sostegno costante.

Il 22 febbraio scorso, in Senegal, il Papa ha ascoltato più volte quello che lui stesso ha chiamato "il grido dei secoli", il grido delle generazioni di schiavi.

La Populorum Progressio vuole associarsi a tutto ciò che già esiste nell’ambito della Chiesa e delle Organizzazioni internazionali; a tutto ciò che è teso a promuovere i diritti di queste popolazioni.

Come ha detto il Papa, la Fondazione vuole essere un segno, una testimonianza di solidarietà. Ed ora tocca a noi rendere questo segno una vera testimonianza, renderlo più efficace.

Virgilio Resi, sacerdote, è da 11 anni missionario in Brasile dove è responsabile nazionale di Comunione e Liberazione.

Resi: Il Brasile è un continente dentro il continente e i contrasti sono proprio le cose più evidenti che tutti i giorni siamo chiamati a vivere.

Un racconto di Dino Campana ambientato in Russia, narra di un uomo che, nel mezzo dell’inverno, sta nella sua casa riscaldata, ha da mangiare, ha da bere, ha il caldo, ma comincia a pensare a tutti i poveri in giro per la steppa in mezzo alla neve, senza mangiare, senza bere, al freddo. Comincia a preoccuparsi, allora decide: "Basta, vado fuori, vado a cercare tutti questi uomini; posso portarli nella mia casa, dove c’è il caldo, dove c’è da mangiare e da bere". Così, esce di casa, chiude la porta e gira tutta la notte nella neve, nel ghiaccio, e quando ritorna, trova alla porta chiusa un uomo morto di freddo e di fame. Per la disperazione egli si spara.

Mi ritornava in mente questo racconto nell’ascoltare le parole del Cardinale perché il rischio, di fronte ad un’esigenza così grande, è che la risposta non sia adeguata, che sia triste e tragica, come in questo racconto.

Sempre, da quando sono in Brasile, a contatto quotidiano con la gente delle favelas, con i problemi della terra e della violenza, con i problemi dei bambini abbandonati mi chiedo: "Perché io ho avuto fortuna e loro no, perché io ho avuto tutto e loro niente?".

Come non farsi questa domanda? Però la risposta è rischiosa, perché non può nascere da una disperazione o da una reazione rabbiosa. E’ rischiosa, perché la domanda è parziale: l’ideale della vita non può essere l’ideale borghese, la vita non è solo benessere, pancia piena, casa e macchina, buoni rapporti con la gente o una bella famiglia. Non si tratta di riproporre il materialismo e la vita borghese, o la reazione a questo, o ancora, qualcosa tra lo spirituale o l’affettivo.

La domanda da porsi è più vera, più drammatica, e può aiutarci a vivere; può darci l’energia per affrontare il problema. La domanda più completa è: "Perché io sono stato toccato dall’avvenimento di Cristo che mi cambia e cambia il mondo, perché Gesù Cristo ha scelto me e non lui?".

Se guardo la mia vita riconosco che la grande fortuna non è stata avere una bella famiglia o tutto il resto; il vero bene e la vera grandezza sono stati l’aver incontrato l’avvenimento di Gesù Cristo; quello che di più buono mi è successo nella vita è proprio la sua persona. Impostare così la situazione permette di non cadere nella disperazione o in una reazione rabbiosa; ci fa vivere liberi e felici anche dentro la contraddizione. Liberi e felici in forza di questo avvenimento, con la coscienza di essere stati toccati e scelti da Colui che ha fatto il mondo, da Colui che ha un piano buono di salvezza per me, ma anche per tutti coloro che hanno la vita piena di disgrazie, per i borghesi, come per i poveri, gli indios, i negri e tutte le persone.

L’esperienza di questi anni è stata riconoscere questo. Ciò impedisce la rabbia, la disperazione o la fuga. L’essere stato mandato dalla Chiesa in missione come tanti altri amici, per me si basa su questo presupposto: il cristiano, in forza della presenza di Cristo, non può non essere sensibile al problema dell’uomo.

La vita in Cristo e la vita nella Chiesa, se sono vere, non possono non suscitare in noi una passione smisurata per tutti gli uomini, per la dignità di ognuno, perché ciascun uomo possa incontrare una salvezza piena, integrale, che riempia la sete di significato, che possa saziare tutte le fami e tutte le seti.

"Perché io?". E’ una responsabilità, una risposta personale.

Siamo stati scelti e mandati con un compito: la vita che ci è stata donata attraverso di noi deve arrivare a tutti.

Ma, allora, come evitare quella tristezza, quell’amarezza, quel destino che sembra ingiusto, assurdo o bizzarro?

Esiste un metodo per non cadere nella stessa tragedia del racconto, quello che ci ha insegnato Gesù Cristo, l’unità, un’amicizia con tutti coloro che sono stati chiamati alla stessa cosa, un’amicizia che diventa subito feconda, operativa.

Cristo vive nell’unità, non nella genialità o nella capacità eroica di sacrificarsi, o in tutte le altre capacità che abbiamo di rispondere alle sfide e alle contraddizioni! Questa unità diventa solidarietà quotidiana con quelli che si incontrano e che Dio pone sulla nostra strada, con il prossimo, come dice il Vangelo, non con quelli che scegli tu. Il russo del racconto andava a cercare di notte quelli con cui voleva essere solidale e non si accorgeva di chi moriva sulla porta di casa. Occorre una solidarietà con chi Dio ti mette al fianco, altrimenti è ideologia. Non scegli, ma sei scelto.

Da questa esperienza nasce una possibilità, una fecondità: cose, iniziative per rispondere alle necessità di tutti i giorni.

Così nascono le Opere, la scuola di Manaus, per rispondere alla necessità dell’educazione degli indios; le cooperative per rispondere al bisogno del lavoro o iniziative più grandi, come quelle dell’AVSI, dell’urbanizzazione delle favelas, dei progetti rurali per fermare l’esodo verso le grandi città.

Opere che nascono da questa sensibilità e che vanno avanti dentro un’esperienza di amicizia, dentro l’esperienza di una vocazione, e che hanno bisogno di un appoggio. Tutte queste iniziative sono una goccia davanti alle spaventose situazioni; sono l’inizio di un mondo nuovo.

La cosa più grande, però, è quell’io che prende coscienza; sa di essere stato toccato e diventa capace di essere protagonista sensibile e operativo: protagonista della sua storia e della vita del mondo.

E’ un pezzetto di umanità rinnovato dalla presenza di Cristo che, per questo, diventa seme di cambiamento della persona, del mondo, di tutto.