Domenica 23 agosto 1981

LE STAGIONI CHE HANNO FATTO L’EUROPA

Partecipano:

Prof. Léo Moulin

Membro dei Comitato Esecutivo dell’istituto Internazionale di Filosofia Politica;

Prof. Raymond Oursel

Studioso ed esperto della civiltà romanica (il relatore, impossibilitato a partecipare all’incontro, ha inviato il testo scritto della sua relazione);

Prof. Georges Chantraine,

Docente presso la Facoltà di Studi Teologici di Bruxelles.

Moderatore:

Prof. Francesco Ricci.

F. Ricci

Prima di dare la parola agli illustri partecipanti a questa tavola rotonda sulle "Stagioni che hanno fatto l'Europa", i signori prof. Léo Moulin e George Chantraine - mentre il prof. R. Oursel, assente, presenta la sua relazione attraverso la lettura che ne farà Sandro Chierici - vorrei ricordare le parole con cui Christopher Dawson inizia il suo saggio sulla nascita dell'Europa. "Noi siamo talmente avvezzi a fondare la nostra visione del mondo e l'intera nostra concezione della storia sull'idea dell'Europa che ci riesce difficile renderci conto dell’esatta natura di quest’idea; l'Europa non è un'unità naturale come l'Australia o l'Africa, essa è il risultato di un lungo processo d’evoluzione storica e di sviluppo spirituale". Dal punto di vista geografico, l'Europa è semplicemente il prolungamento nordoccidentale dell'Asia e possiede una minore unità fisica dell'india, della Cina o della Siberia. Antropologicamente è un miscuglio di razze e il tipo dell'uomo europeo rappresenta un'unità piuttosto sociale che razziale; anche nella cultura l'unità dell'Europa non è la base e il punto di partenza della storia europea, ma il fine ultimo e irraggiungibile verso cui questa ha mirato per più di mille anni. Se dunque esiste l'Europa e se la sua esistenza ha un significato, ciò non è accaduto e non accade per la via della natura ma per la via della decisione dell'uomo è della coscienza dell'uomo, cioè per la via della storia e della cultura. Europa vuole dunque indicare, prima di tutto, un ethos che ha il suo inizio e la sua crescita nella libertà dell'uomo, nella sua decisione morale e nelle conseguenze di questa decisione. La peculiarità dei continente Europa sta allora in questo: che esso esiste non per ragione della natura, ma perché la libera decisione degli uomini ha costruito nel bene e nel male, in queste parti dei mondo, un ethos in cui l'uomo cresce e si sviluppa secondo una peculiare via della cultura e della storia. E' questo il motivo per cui l'uomo europeo è così profondamente legato nel suo destino alla memoria delle proprie origini e delle stagioni della propria crescita, legato nel bene e nel male. E', infatti, dalla fedeltà alle proprie origini e alla propria storia, o dal loro tradimento, che dipende se il presente dell'uomo europeo è vissuto nella verità o nella menzogna. Gli oratori che ora avranno la parola, ci presenteranno alcuni momenti di questa storia, momenti che s’identificano con alcune decisioni umane. Comincerà il prof. Moulin, parlandoci di Benedetto, un caso in cui una decisione umana decide dell’esistenza e dello sviluppo d’un. ethos per l'uomo europeo. Continuerà Chierici con la sua lettura dei testo del prof. Oursel che rievocherà un momento altamente drammatico nella storia dell'ethos dell'uomo europeo: la grande crisi dell'anno 1000, il passaggio dal primo al secondo millennio della nostra storia. Proseguirà il prof. Chantraine presentando un altro momento assai critico: quello della crisi dei quindicesimo e sedicesimo secolo, centrando la sua relazione soprattutto su Lutero e mostrando quanto la decisione umana di Lutero incide sulle forme dello sviluppo dell'ethos dell'uomo europeo. Nel presentare il prof. Moulin che ha ora la parola, mi permetto, avvalendomi di un'autorizzazione concessami dal professore, di ricordare a voi che il prof. Moulin è agnostico, che la testimonianza che egli renderà a Benedetto e all'opera di Benedetto è una testimonianza che si arricchisce d’autenticità e di verità, per il fatto che non viene da un'intenzione apologetica, ma viene da un riconoscimento serio, ragionato, pensato, della validità universale della testimonianza e dell'opera dei grande costruttore dell'Europa. Ha la parola il prof. Moulin.

L. Moulin

Cari amici, nell'anno stesso in cui S. Benedetto muore, gli Ostrogoti hanno espugnato la città di Roma: ormai è un impero che crolla, è una civiltà che si spegne e, nell'anno 568, i Longobardi entrano in Italia. E questo l'evo delle tenebre che ormai si schiudono sull'intera Europa; sopravvivono in questo caos spaventoso qualche isola di romanità, qualche tradizione imperiale e soprattutto il Cristianesimo, unica forza viva dell'epoca. Sopravvive la Chiesa che durante il V, Vi secolo, e riuscita a creare più di cento sedi episcopali e soprattutto i discepoli di San Benedetto. Egli è morto nel 547, la sua regola e stata scritta fra il 525 ed il 535, un minuscolo volume di cinquemila parole con 73 capitoli, e sono i rari uomini ispirati dal suo verbo e raggruppati prima della sua morte attorno a lui che riusciranno a salvare l'Europa e che certo meriteranno il termine e l'appellativo di Padri dell'Europa. Gli specialisti sono concordi nel ritenere che essi hanno avuto un ruolo decisivo nella ricivilizzazione dell'Europa. Io voglio crederlo, dopo aver studiato il problema per anni e anni; questa parte che hanno avuto i benedettini e i monaci, in genere nella elaborazione dell'Europa è assai importante. Si tratta di una sequenza di motivi dapprima naturali: vogliono veramente isolarsi dalle città o da ciò che rimane delle città, da tutto ciò che è stato annientato e che non rappresenta più un focolare di civiltà; vogliono creare una civiltà dei Monastero, un'economia basata sul monastero e questo per motivi di fede principalmente. Si ha qui un rovesciamento della tesi marxista; nel caso dei benedettini, infatti, la struttura è religiosa, la sovrastruttura è conseguenza socioeconomica. C'è poi una certa dispersione di questi monaci nell'Europa intera, dal fiume Vistola fino al Guadalquivir, dal Nord della Scozia fino al Sud, fino alla Sicilia e persino in Siria. Questa distribuzione avviene per trasmettere, per inculcare una serie di valori, di tecniche, d’esperienze, di regole di condotta, d’innovazioni, d’insegnamenti religiosi, artistici, morali, intellettuali e persino il modo di comportarsi a tavola, il galateo, che ormai sono diventati un'abitudine comune. In fin dei conti i monaci benedettini costituiscono un'assistenza tecnica efficace, efficiente, super-razionale, gratuita nei confronti dei contadini che sono la stragrande maggioranza della popolazione dell'epoca. Il modo di vivere dei frati benedettini, l'ascetismo, il lavoro, l'ora et labora, che diventerà il loro motto, aiuterà, impressionerà, una nuova civiltà dell'Europa intera. Proviamo un attimo ad immaginare come si può produrre questo ciclo di nuova civiltà. Pensiamo ad un Monastero, un'Abbazia con 25-40 membri: un certo numero di questi emigrano a due, tre, quattro giornate di cammino o persino di più, e là dove si impianteranno questi insediamenti, dureranno per sempre fedeli al loro ruolo e alla loro dimensione di stabilità. Cosa fanno? Pregano innanzi tutto, pregano perché San Benedetto dice: "nulla deve essere fatto prima dei servizio di Dio" - e per obbedire a questa regola, ovviamente si deve vivere, quindi costruiscono; vivere per costruire, costruire questa fantastica preghiera di pietra che sono i Monasteri dei benedettini nel mondo intero. Due secoli, e in due secoli una serie di capolavori architettonici che ancora oggi ci sconvolgono, le cucine, le cantine, il dormitorio; tutto è bello, tutto è segnato dal sigillo della bellezza. Devono nutrirsi, alimentarsi - tanti monaci sono morti di fame, bastava che la messe fosse andata male ed era la condanna a quell'epoca; quindi lavorano nei campi, creano praterie per il bestiame, lavorano i vivai, praticano l'apicoltura, perché ci vuole parecchia cera per dare un po' di luce nella chiesa e nella casa di Dio. Procedono ad uno sfruttamento intelligente delle foreste, talmente importanti come materia prima nel Medioevo, lavorano anche nell'ambito della vigneticoltura, ne sono i primi diffusori in Francia, in Inghilterra, in Belgio, in Germania; forse un po' meno in Italia. Diffondono la coltura della vigna non perché, come dicono le malelingue, amano la tavola, ma perché il vino è necessario per celebrare la messa. I monaci sono agenti di diffusione della tecnologia; possediamo un testo dei decimo secolo, dove i frati decidono di impiantare un mulino ad acqua e il motivo è molto bello, molto attuale direi, per avere più tempo da dedicare alla preghiera. La tecnica è al servizio dell'uomo. Un altro aspetto bellissimo si trova nella regola di San Benedetto; dopo che io ho riletto tante volte la regola, dopo tanti anni, sono capitato su questa frase: "conservare ad ognuno e ad ogni momento il controllo degli atti propri". - Si ha qui la creazione dell'uomo moderno: non si può essere distratti, non si può essere assenti nei confronti di se stessi; ognuno deve essere un uomo ancorato, radicato nella realtà attuale e il monaco è punito se si distrae. Altro aspetto importante, e mi sono interessato a questo aspetto perché mi interesso alla sociologia della alimentazione, è che i monaci benedettini sono anche all'origine della moderna dietetica e persino della gastronomia; perché essi praticano una vita di povertà anzi di mortificazione, digiuni, astinenza di ogni tipo e lavorano, quindi si costituiscono delle provviste, delle riserve, cose che non si trovano mai nel contadino o nel signorotto dei luogo. Con il latte fanno i formaggi, i grandi grossi formaggi francesi sono di origine benedettina; con il miele si fa l'idromelo, una bevanda; con i cereali sì fa la birra, la cervesia; con la frutta il cedro, oppure liquori a base di frutta, con il vino si fa anche il vermut. Sono loro i primi che hanno avuto l'idea di introdurre nel vino - come lo faceva l'intero Medioevo di loro - le erbe più importanti, come l'assenzio che in tedesco in origine si chiama vermut e che ha dato il nome al liquore; c'è persino stato un Ordine, un Ordine Veneto, i Gesuati, che si chiamava gloriosamente "padri acquavite", cosa abbastanza simpatica. E conoscete tutti la famosa "Chartreuse"; sono loro poi che hanno sfruttato per primi le piante medicinali per farsi delle provviste di acquavite; non era una leccornia a quell'epoca, bensì un atto di carità, una cosa medicinale. Anche il buon vivere a tavola è stato creato dai benedettini; l'idea di mangiare sul tavolo con una tovaglia era un atto straordinario nel Medioevo, praticamente la si trova soltanto da loro, dai monaci, l'idea dei mangiare, intesa non soltanto come nutrimento ma anche come un atto di comunione, di ringraziamento. L'idea che si deve mangiare in modo più umano e più pulito è un'idea dei benedettini; essa si trova nei testi di San Benedetto. Ho ritrovato una frase dell'817, quindi in piena epoca Carolingia, che dice: "ognuno (l'abate in questo caso) nel refettorio sia prova di umanità", cioè deve comportarsi come un uomo, per mangiare e per bere; la coppa è presa con ambedue le mani e poi tutto va raccolto (è un'usanza ancora attuale tra i frati).Con queste briciole si faceva una specie di pappa il sabato, con un po' di miele e latte, che doveva assomigliare a una specie di budino liquido, perché andava mangiato con un cucchiaio. C'è pure il lavoro intellettuale, che è più conosciuto; sappiamo tutti che copiavano e ricopiavano manoscritti, che tutto ciò che possediamo oggi di opere dell'evo antico ci è stato tramandato dai lavoro dei monaci, in condizioni di cui oggi non possiamo nemmeno avere un'idea. La maggior parte infatti dei Monasteri dell'epoca non aveva nessun modo di riscaldarsi se non in cucina dove era permesso entrare non per scaldarsi ma per sciogliere l'inchiostro gelato. I libri erano la grande preoccupazione dei monaco. Nel corso di un incendio di un Monastero di Certosini, il padre priore ha avuto soltanto una preoccupazione, ha urlato: "ad libro", cioè i monaci dovevano salvare i libri. Anche quando è arrivato l'evo della stampa i monaci sono stati tra i promotori della previdenza sociale nel Medioevo. Hanno creato Ospedali, le Ladronies, dove si rifugiavano gli ammalati e i lebbrosari. Vorrei, per concludere, indicarvi un altro aspetto della vita dei Monastero che, certo, è meno conosciuta. Sono loro ad avere inventato, gettato le basi, dello spirito democratico. Ogni volta che un problema importante va studiato - dice San Benedetto - l'abate deve consultare la comunità ed è la comunità a decidere, a dare il parere perché sta alla base decidere. Il Capitolo generale di Citeaux è praticamente un primo abbozzo perfetto, nato un secolo prima, della Magna Charta inglese, che e alla base dei regime parlamentare europee) Altri principi sono ancora alla base della mentalità democratica, l'idea che ciò che riguarda tutti deve essere dibattuto, discusso da tutti. Un altro principio sempre applicato, almeno fino a che il mondo civile, quello dei principi, dei re, degli abati, dei vescovi non è intervenuto nella vita privata delle Abbazie, era il principio secondo cui alla testa dell'Abbazia deve trovarsi colui che è stato eletto dai monaci, i quali poi gli sono sottomessi. Le tecniche oratorie e deliberative, lo scrutinio, il ballottaggio, lo scrutinio segreto, il voto a maggioranza semplice, a maggioranza assoluta, il voto con i due terzi dei voti - tra il V e VI° secolo fino al XIII secolo - sono state un'invenzione esclusiva della Chiesa e, più particolarmente, degli Ordini religiosi e dei benedettini che dovevano regolarmente eleggere l'abate, oppure decidere su cose fondamentali. Quindi, quelle che io chiamo tecniche elettorali, sono di origine monastica e non di origine romana; ormai erano secoli che Roma non aveva più utilizzato queste tecniche elettorali, e la Grecia era praticamente sconosciuta. Per quanto riguarda i Comuni, in Italia o in Fiandra, essi sono venuti dopo, e le tecniche comunali che ho potuto enucleare sono assai primitive, quindi dobbiamo attribuire l'uso di tecniche deliberative agli Ordini religiosi, in particolar modo ai Benedettini che praticamente erano gli unici esistenti tra il Vi ed il XIII secolo, data di apparizione degli ordini mendicanti. Dobbiamo ascrivere a loro l'apparire di un Ordine sanamente e prettamente democratico. Tutta questa vita si svolge in un ambiente molto civilizzato; in fondo - ciò che oggi stupisce è che gli unici ad essere veramente civili e ad avere rapporti fraterni gli uni con gli altri, sono i monaci. Ciò spiega come tanti cavalieri che sognavano di battaglie gloriose, fermandosi per caso in un'Abbazia, finiscono coi rimanere fino alla fine della loro vita. Le esigenze più radicali della fede si univano alla dolcezza di vivere con i monaci. C'è tutta una serie di regole e di raccomandazioni di San Benedetto, che sono le più attuali, le più belle che si possano immaginare; ad esempio - amare i giovani -, San Benedetto spesso ritorna su questo tema, amare i giovani, ascoltare i giovani, perché Dio spesso parla con la bocca dei più giovane. Bisogna venerare i vecchi, gli avi, praticare la carità fraterna, cercare di aiutarsi gli uni e gli altri (cap. 72), obbedirsi a vicenda e poi: "rientrare in pace prima dei crepuscolo, vivere in un ambiente cortese, educato, dove regna la dolcezza, una spiritualità profonda, una vita di preghiera, di meditazione, una vita equilibrata, una vita di lavoro". In fondo, quindici secoli orsono, San Benedetto aveva già stabilito quell'equilibrio che troviamo oggi nella nostalgia dell'uomo moderno, il quale nella casa di campagna cerca la pace dei cuore, un po' di lavoro manuale, un cibo sano, il silenzio, un albero, un uccello che canta. Credo obiettivamente, scientificamente, che da un punto di vista sociale ed economico, e da un punto di vista religioso a maggior ragione, i benedettini siano stati i padri dell'Europa.

 

R. Oursel:

Vi sarà allora tribolazione grande, quale non vi fu mai dal principio dei mondo fino ad ora, ne mai vi sarà... Sorgeranno falsi Cristi e falsi profeti e daranno segni così grandi e prodigi da sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti... Come la folgore guizza ad Oriente e riluce fino ad Occidente, così sarà la venuta dei Figlio dell'Uomo. Là dove sarà il cadavere, si raduneranno le aquile. Ora, subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo chiarore, cadranno dal cielo le stelle e le potenze dei cieli saranno sconvolte. E allora apparirà nel cielo il segno dei Figlio dell'Uomo e tutte le Nazioni della Terra si batteranno il petto; e vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi dei cielo con grande potenza e gloria e manderà gli Angeli suoi che con potente squillo di tromba chiameranno a raccolta i suoi eletti dai quattro venti, dall'uno all'altro estremo dei cieli... In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute. Passeranno il cielo e la terra: le mie parole non passeranno". (Mt. 24,21-35: passim). Nel capitolo 20 dell'Apocalisse si leggono queste parole: ..."E l'angelo ... afferrò il drago; il serpente antico, che è il diavolo, Satana. Lo legò per mille anni; lo precipitò nell'abisso, e lo chiuse e pose un sigillo su di lui perché più non seducesse le genti, fino a che siano compiuti i mille anni. Dopo questi, dovrà essere sciolto per un po' di tempo ... e quando saranno compiuti i mille anni, Satana verrà liberato dal suo carcere, ed uscirà a sedurre le genti ai quattro punti della Terra, Gog e Magog per adunarle alla guerra: il loro numero è come la sabbia dei mare ... ma scese un fuoco dal cielo e li divorò. E il diavolo, loro seduttore, fu gettato nel lago di fuoco e di zolfo, dove c'è anche la Bestia ed il falso profeta (l'Anticristo); e saranno tormentati giorno e notte nei secoli dei secoli". (Ap. 20,1-10 passim). Legioni di commentatori, a partire dai primi tempi della Chiesa ed attraverso tutte le epoche, si sono sforzati di dare una spiegazione a queste immagini da incubo, di interpretarne le inusitate e terribili predizioni e di sciogliere il legame che unisce le une alle altre. In particolare, essi hanno tentato di tradurre in termini chiari e concreti le minacce celate dalle folgoranti allegorie sia del testo evangelico che della rivelazione apocalittica, minacce che restano l'ossessione delle nazioni per i secoli dei secoli. Si è anche tentato di assegnare al compimento degli sconvolgimenti predetti dal testo sacro una data più precisa dei mille anni che sono un semplice simbolo per mezzo dei quale l'Apostolo visionario intende solo indicare un tempo assai lungo - avrebbe potuto dire 20, 100…36 .", ma non determinato. Questa angoscia della fine dei tempi, che, a suo modo, è anche una speranza, attraversa tutta la vita della Chiesa. Il Medio Evo Cristiano visse in familiarità con l'Apocalisse, di cui il suo genio sapeva decifrare e trascrivere le gesta misteriose. Ancor oggi il testo apocalittico ispira il messianismo delle numerose sette che, come uccelli sperduti, volteggiano prive d orizzonti intorno alle Chiese costituite. In certe epoche questo fenomeno raggiunge l'ossessione morbosa senza che si riesca a trovarne altra motivazione all'infuori dello sconvolgimento della storia, dello smarrimento delle culture, dello sgretolarsi della fede che sono terreno sempre propizio per le più cupe fantasie. E noto che i primi cristiani, e San Paolo per primo, hanno creduto imminente la seconda venuta dei Signore ed il Giudizio Finale, interpretando alla lettera l'avvertimento: "Non passera questa generazione". Vedendo che nulla accadeva, tuttavia, fin dalla fine del primo secolo pare che avessero rinunciato a questa aspettativa e, contrariamente a quanto si pretende, non fu certamente l'attesa di una fine immediata, sia pur procrastinata di poco, a spingere i martiri lionesi dei 177 a presentare le loro gole al boia. Pressoché parallelamente, i Giudei dei primo secolo che avevano rifiutato il Figlio dell'uomo, credettero di riconoscere in diversi falsi profeti, il Messia predetto dai veri, confermando in tal modo la predizione dei Cristo; questo messianismo si esacerbò negli anni immediatamente precedenti la guerra romana e la rovina di Gerusalemme, quando avvenimenti di gravità eccezionale riferiti sia da Tacito che da Flavio Giuseppe, annunciavano l'imminenza delle catastrofi in cui sarebbe naufragato Israele: "una cometa dalla forma di una spada" restò ferma per un anno intero sul cielo di Gerusalemme. La pesante porta di bronzo dei Tempio una notte si aprì da sola; il cozzare d'armi invisibili più volte fu udito o ancora furono visti carri da guerra rotolare e armate marciare alla battaglia attraverso il cielo".Infine, a Pentecoste, i sacerdoti entrati nel Tempio per compiervi i sacrifici notturni, udirono un rumore di passi come d'una moltitudine che si allontana e voci che ripetevano: "Allontaniamoci da qui" (Histoire Sainte, par un professeur de Séminaire, Tours-Paris, 1924, p. 753).Alla fine dell'undicesimo secolo ancora, "al tempo in cui Enrico IV regnava su Roma ed Alessio Comneno in Costantinopoli", quando s'innalzava la Basilica di Cluny ed il chiostro di Moissac, l'Annalista sassone riferisce che "secondo la predizione evangelica, gli uomini insorsero gli uni contro gli altri, le famiglie contro le famiglie, le nazioni contro le nazioni. Grandi terremoti si verificarono ovunque; si moltiplicarono pesti, carestie, presagi e segni funesti nel cielo. E mentre l'angelica tromba annunciava a tutte le Nazioni la venuta del Giusto Giudice, ovunque la cristianità scorgeva segni profetici" (Monumenta Germaniae, tomo VI).Il notissimo mito dei "terrori dell'anno mille", è dal canto suo, "di invenzione molto recente"; l’erudito Jules Roy, che si è sforzato di scoprirne l'origine, lo ricollega al XVI secolo nel quale, secondo A. Réville, i progressi compiuti nelle scienze bibliche riproposero interpretazioni messianiche alle quali, in seguito, i "profeti" delle Cevenne e gli "eletti, convulsionari" conferirono l’eco. Il primo storiografo "archeologo" che dedusse dalla relazione di Raoul le Giabre che la ricostruzione delle Basiliche nei primi anni del XI secolo avrebbe manifestato il sollievo dei popoli cristiani per essere sfuggiti alla fine del mondo, è Le Vasseur, i cui "Annales de l'Eglise de Noyon", furono pubblicati nel 1633.Poiché questa menzogna (l’apparizione dell’Anticristo) era stata diffusa in tutte le Gallie, predicata a Parigi, seminata per l’Universo, considerata come articolo di fede dalle coscienze semplici e timorate, nessuno si preoccupava d'altro che di ben morire e di prepararsi a sostenere coraggiosamente gli assalti di questo nemico dei cielo (pag. 328).Lo stesso Autore, sempre citato da Jules Roy, applica la relazione di questo grande movimento precisamente alla Cattedrale di Noyon, posteriore in realtà di oltre un secolo: "almeno, concede prudentemente, gli esperti credono che opere e manufatti siano di quel tempo!". Un po' meno di cent'anni dopo, lo storiografo Sauval rincarerà la dose nelle sue "Histoire et recherches des Antiquités de Paris" (1724), facendo di Notre-Dame di Parigi una delle testimonianze dei rinnovamento descritto da Raoul. Ma il testo più conosciuto sul quale questo mito si è venuto costruendo è certamente il brano di Raoul le Giabre che descrive la rinascita dell'architettura religiosa alle soglie dell'anno 1.000. Dice questo monaco che scrive a metà dei XII secolo: "Dunque, all'avvicinarsi dei terzo anno successivo al millennio (dalla nascita di Cristo), accadde che su quasi tutta la superficie della terra, ma soprattutto in Italia e in Gallia, furono nuovamente costruite Chiese Basilicali. E quantunque la maggior parte di esse, decorosamente edificate, non abbisognasse di nulla, una grande emulazione animò tutti i popoli cristiani spingendoli a desiderare edifici più belli degli altri. Era come se il mondo scuotendosi esso stesso e rigettando la propria vecchiezza, gareggiasse nel rivestirsi d'un bianco ornamento di Chiesa. Allora infine, tutti i fedeli abbellirono quasi tutte le chiese di sedi episcopali, gli altri monasteri dei diversi Santi e persino i piccoli santuari di villaggi e borgate" (Histoires, livre II, cap. 4). E' invece Jules Quicherat, alla cui confutazione Jules Roy consacra il suo opuscolo, che avrebbe dato credito alla tesi, compiacentemente riprodotta da allora in poi, più o meno sfumata dagli storiografi dei nostri giorni, ma potentemente radicata nella opinione comune, secondo cui "se le popolazioni, all'inizio del XI secolo, rivaleggiarono fra loro nell’ardore per coprire la terra dei manti bianchi delle Chiese", è "perché dopo aver paventato la distruzione di tutte le cose, erano invece felici di vedere prolungarsi la loro esistenza e volevano immortalare la loro riconoscenza nei confronti dei Creatore" (cit. da Jules Roy, op. cit., p. IV). Per fare il punto su questa asserzione apodittica, non c’è niente di meglio che ricorrere alla fonte da cui proviene, cioè al testo originale di Raoul le Giabre. Osserviamo anzitutto che gli storici che hanno riportato da questo curioso monaco scrittore una delle più sorprendenti evocazioni di tutta la storia, non si sono contentati di presentarlo, spesso con eccessi, come uno degli adepti delle più nebulose interpretazioni millenariste dei non meno oscuro capitolo dell’Apocalisse. Secondo tali interpretazioni, questo fatale anno mille, tutto carico di presagi, avrebbe ispirato alle generazioni schiave di superstizioni un’angoscia di fine dei mondo. Ma nel contempo, gli stessi storici, che non si sono trattenuti dal maltrattare abbondantemente il medesimo monaco scrittore, con una certa illogicità lo accettano come il cantore privilegiato, veridico e praticamente esclusivo di questa apprensione cosmica. Sdegnosamente dice di lui M. Marcel Pacaut: "Un chiacchierone". Secondo altri, un ingenuo, credulone come un bambino, e in più scrittore mediocre, sconnesso, disordinato, incoerente. Fra tante gentilezze, ci si è forse dimenticati con troppa facilità, che uno degli spiriti superiori di quel tempo ed esperto di uomini, Guillaume de Volpiano - abate di San Benigno di Digione - non aveva rifiutato di aggregarlo a sé stabilmente e di farsene consigliere. Successivamente, un altro maestro d'anime, Odilon de Mercoeur, abate di Cluny, l'accolse nel suo Monastero per consentirgli di terminare un'opera letteraria di cui lo stesso Odilon, meno parziale della scienza universitaria odierna, stimava il merito. L’opera contiene, fra parentesi, una delle più belle pagine d'elogio che sia mai stata scritta per la grande Abbazia borgognona e romana: cosa che, specie in quest'epoca precedente il grande apogeo cluniacense, non ci parla certo di uno spirito mediocre e superficiale. Alla base di tale controsenso letterario e storico sta la straordinaria evocazione (che, in generale è bene accetta a storici e archeologi) dei "rinnovamento delle Basiliche" che, di poco posteriore all'anno fatidico, è unanimemente accolta quale momento dell’avvento dell'architettura romanica. Questa celebre pagina, venti volte riprodotta, non cessa di profondere i suoi profumi né di suscitare problemi. Non si può fare a meno di citarla ancora una volta per esteso, per puro piacere, non senza avere constatato che l’ampiezza magistrale e la stupenda prospettiva della sua visione, è forse la prima responsabile delle interpretazioni abusive ed aberranti che ne sono scaturite a profusione. Come premessa agli innumerevoli commenti cui questa densa immagine si presta, è necessario sottolineare (cosa che non hanno fatto questi sapienti esegeti) fino a che punto la fioritura di nuove chiese di cui si parla sia, secondo la stessa testimonianza dell’autore, gratuita e spontanea. Non l’impone alcuna necessità di devastazione o rovina, ma solo un’emulazione in magnificenza, che va ben oltre la semplice manifestazione, in qualche modo fisica, dei sollievo di essere sopravvissuti, di cui l’autore si guarda bene dallo spiegare le cause, per il semplice fatto che le ignora. Inoltre, l’anno esatto che egli assegna, al fenomeno e che appare certo insufficiente a contenerlo da solo, ha ai suoi occhi piuttosto il valore simbolico dei numero perfetto; quello della Trinità. Tutti gli ambiti ed i gradi della costruzione religiosa sono via via conquistati dal pio ed entusiasta agonismo: non ne hanno il monopolio i ricchi Vescovadi o le Abbazie principesche; persino le mille campagne (minora) si coprono delle "bianche messe", il che non è opera dei soli mecenati, ma anche dei popolo tutto intero dei cristiani, di cui si può ora salutare la prima apparizione come fattore attivo e volontario di rinascita. Ed è proprio lì che, secondo il Monaco osservatore, sta il grande prodigio. Egli lo inserisce volutamente fra il terzo e il quarto libro delle sue "Storie" che, nell’incoerenza dei foro episodi, appaiono centrate sull’unico tema dei millennio, non solo dell'incarnazione di Cristo, ma di tutta la vita dei Dio fatto uomo, fino alla Passione ed alla Resurrezione (grosso modo, quindi, il periodo che va dall’anno 1000 fino al 1033). L’argomento, appena nascosto dal proliferare d’aneddoti, è semplicissimo: l’evento trentennale, che ha capovolto la storia umana, rappresenta la pienezza della storia stessa. Affrontandosi vita e morte in un titanico conflitto, la morte è schiacciata dal signore della vita: "Dux Vitae mortuus Regnat vivus" dice la Sequenza Gregoriana. Come, questi fatti, alla ricorrenza dei loro primo millenario, non avrebbero generato di nuovo i prodigi e i segni simbolici in tutto il mondo cristiano attento, diviso fra l'angoscia e la speranza? Il monaco Raoul mescola in una sintesi epica, brulicante di vita e di dramma, le sue impressioni immaginifiche e le riconnette alle coincidenze delle Scritture. Le apparizioni meravigliose, le calamità, i segni nel cielo, nelle stelle, nella luna, nel sole e sulla terra, si intensificano senza dubbio all'avvicinarsi non tanto dell'anno mille, ma dei "terripi ultimi". E l'anno mille diventa punto di riferimento ed ha la missione di aprire questi "terripi di periglio" senza una precisa scadenza in cui, secondo l’Apostolo "la carità si raffredderà fra gli uomini e prevarrà l'iniquità". Ci furono certo eruzioni vulcaniche ed un terremoto che vengono riferiti da diverse cronache; ci fu l'apparizione di una cometa e la caduta di una meteora nella cui scia (secondo la testimonianza di Sigebert dé Genbloux) si credette di intravedere la figura di un drago; vengono attestate locali piogge di pietre (Raoul Giaber, libro II, cap. 10) e perfino carestie ma solo in zone circoscritte. Ma più che per questo, l’anno fatidico segnò, per l'insorgere di alcuni movimenti, come quello che interessò la regione di Orleans, questa breve liberazione di Satana predetta dall'Apocalisse, e che lo scrittore richiama a proposito, ma incidentalmente, alla fine del secondo libro. Avvenimenti di tal fatta, a conferma a tutti visibile dello scatenamento dello Spirito dei male, "erano in realtà conformi alla profezia di San Giovanni, il quale dice che Satana deve essere sciolto dalle sue catene dopo il compiersi di mille anni: di questo tratteremo più ampiamente nel nostro terzo libro". Il cambiamento di prospettiva è dunque totale. L’anno mille non chiude affatto la storia dei Mondo; apre piuttosto una fase di turbamenti che lo scrittore, lungi dal riconoscervi la premessa al giudizio immediato, semplicemente osserva. Per un’intuizione folgorante, l'ombra dei dolorosi sconvolgimenti che si proietta su di un terzo del XI secolo, viene letta come conferma, in certo modo, della verità di Cristo e della Chiesa. I prodigi superano ampiamente la data precisa dei cambiamento di millennio: l’autore ne va raccogliendo tanto prima che dopo, né i secondi sono minori dei primi. Tutto invaso da spirito di prescienza, egli li vede - come era naturale - quasi di necessità al momento opportuno, crescere e raggiungere il vertice nell'anniversario degli anni pubblici della missione di Cristo, della sua morte, della sua Resurrezione nel chiarore miracoloso dei primo mattino dei riscatto. "Dopo i molteplici segni prodigiosi che tanto prima che dopo, ma anche nel millennio stesso, sorsero nell’universo, uomini saggi e dallo spirito sagace, predissero che di nuovi ne sarebbero sopravvenuti, non minori dei precedenti, all’approssimarsi dei millenario della Passione dei Signore; ciò che, come è evidente, non mancò di verificarsi". Sono parole dei Libro IV delle "Storie" di Raoul Glaber. La natura, se si può osare dirlo, si collocò al primo posto nella vicenda e cominciò a vive re le sue doglie in un ininterrotto diluvio. Ancora Raoul Glaber scrive: il clima cambiò, divenne così cattivo da non potersi trovare stagione favorevole alla semina, né soprattutto alle messi a causa delle inondazioni. Gli elementi parevano farsi guerra fra di loro e trarre vendetta dell'insolenza degli uomini. Tutta la terra fu sommersa da piogge incessanti al punto che, nello spazio di tre anni, non vi fu solco che potesse ricevere semente. Giunto il tempo dei raccolto, erbe malvage e perfida zizzania coprirono tutta la superficie dei campi. Un moggio di semenza, lì dove fruttò il massimo, produsse un sestario di messe ed un sestario ne produsse appena un pugno. Dall'Est la carestia raggiunge la Grecia, invade l'Italia, penetra nelle Gallie e si spinge fino all’Inghilterra. Fu terribile e trascinò con sé il suo inevitabile carteggio di rincaro delle derrate e di mercato nero. "Attanagliata dalla fame, la gente divorò tutto ciò che le capitava sotto mano, i cibi più disgustosi, radici, alghe dei corsi d'acqua... si giunse al cannibalismo". I viandanti venivano assaliti e se ne spartivano le membra che venivano mangiate cotte al fuoco. Chi, fuggendo la fame di luogo in luogo veniva accolto sotto un tetto ospitale, era strangolato la notte seguente e lo si mangiava Si uccideva per un uovo, per un frutto". "In numerosissimi luoghi si dissotterrarono cadaveri per sfamarsi". "Gli animali selvaggi erano allora più al sicuro che gli uomini". "A Tournus, ci fu uno che portò al mercato carne umana cotta, come se si trattasse di carne ordinaria. Arrestato, non negò il suo crimine", e fu condannato ai ceppi (Cap. 10). Altri, cui tali pratiche ripugnavano, fabbricavano una specie di pane mescolando alla farina una polvere bianca d'argilla raccolta dal suolo. A questi trattamenti, pochi resistettero. "Tutti erano pallidi ed ossuti", la pelle si gonfiava, "la voce stessa diventava flebile e somigliava ai rauchi suoni degli uccelli moribondi". I morti insepolti ricoprivano la terra e i lupi fecero la loro apparizione. Bisognò aprire le fosse comuni dove vennero gettati 500 cadaveri e oltre, quanti le fosse potevano contenerne, seminudi, talora senza alcun vestito. Uno degli episodi più atroci ebbe per teatro la foresta disabitata di Satonnay (Castaneda), "distante dalla città di Macon circa tre miglia", e in una radura su cui era stata edificata solo una cappella dedicata a San Giovanni. "Un uomo, una specie di selvaggio, aveva preso dimora in una capanna in quei pressi; egli assassinava tutti quanti passavano o s'erano smarriti dalle sue parti", li decapitava e divorava ignobilmente. Accadde un giorno che un uomo e una donna in viaggio da quelle parti domandarono ospitalità a questo vero, e proprio orco. "L’uomo volgendo il suo sguardo nei recessi della capanna, vide le teste tagliate di uomini, di donne, di bambini. Tremante di terrore, tentò di fuggire, ma il sinistro oste lo trattenne a forza e l'obbligò a restare. Finalmente il viaggiatore riuscì a sfuggire da questa trappola mortale e a raggiungere con la sua sposa la città vicina". Ottone, conte di Macon, organizzò contro il criminale una vasta operazione di polizia; "non furono trovate meno di 48 teste umane tagliate; come una fiera aveva divorato le carni di queste infelici vittime". Fu preso e condotto a Macon, fu legato ad un albero e bruciato. "L’ho visto coi miei propri occhi", precisa il narratore. Lo scrittore dipinge con macabro compiacimento il quadro di questi disastri che gesta di mirabile solidarietà appena compensano: tale fu per esempio fra "il dolore, i gemiti, le lacrime, il pervertimento", la vendita di gioielli e degli ornamenti preziosi che Saint Odilon - abate di Cluny - fece fare in questa emergenza per assicurare a qualsiasi costo la sussistenza degli indigenti. "Grazie a lui" - attesta il biografo dei Santo Abate - "abbiamo conosciuto migliaia e migliaia di poveri che sono sfuggiti alla miseria ed alla fame; egli era attento a qualsiasi sconforto, non disprezzava nessuna necessità, non c'era infermità che gli facesse orrore". Lo stesso abate di Cluny ha raccontato che "queste calamità inaudite", "il grave e penoso danno di tutto il paese, di tutti i poveri", gli avevano fatto perdere il sonno. Tuttavia, questo tipo di comportamento era raro da trovarsi. Sembrava - constata il cronista - che l'ordine dei tempi e degli elementi che governavano il mondo fin dal principio dei secoli, fosse sprofondato in un caos senza fine per la perdita dei genere umano... In una manifestazione tanto subdola della vendetta divina, erano rarissimi coloro che, con cuore contrito e umiliando il proprio corpo, levavano il cuore e le mani a Dio per supplicarlo di avere pietà di loro. Allora si compì nel nostro tempo la parola di Isaia: Al popolo non s'è convertito ai pentimento" (Cfr. IX, 12). "Con l’ebetismo dello spirito, conclude con un sorprendente riassunto il moralista, la durezza di cuore aveva invaso gli uomini" (I - IV. 4, 13). Ciononostante, al culmine della prova e come per concluderla con un’apoteosi cruda e drammatica dal cui seno traspariva l’ultima speranza dei disperati, proprio nell’anno 1033, quando ogni cristiano riviveva con intensità le ore atroci dei calvario, una moltitudine di cui il monaco cronista descrive magistralmente l'incredibile eterogeneità, si muove quasi meccanicamente verso la roccia su cui Cristo è stato crocifisso; erano tutte le classi sociali, mute e confuse, come attirate da un irresistibile richiamo. E molti speravano di lasciare la loro vita su questo cammino d’abbandono: Dio li avrebbe accolti con misericordia per condurli direttamente nel Suo Paradiso. E’ questo uno dei temi più ricorrenti nel fenomeno dei pellegrinaggi medievali: la morte in pellegrinaggio è considerata come una diretta ascesa al Paradiso. E i saggi, interrogati su questo fenomeno, più inaudito di ogni altro prodigio naturale, rispondevano che le Nazioni correvano, cieche, incontro all’Anticristo che - secondo l'autorità della Scrittura - dovrebbe sorgere alla fine dei tempi. Dal canto suo, comunque, il buon monaco non esclude che tutta "questa devota fatica" non abbia avuto per scopo principale di ricevere dal Giusto Giudice la ricompensa che meglio meritava. della Passione, perché Fu necessario che fosse consumato l’anno stesso dei millenario Dio gratuitamente acconsentisse infine a stendere la Sua mano sull'universo oppresso "Allora le piogge delle nubi si calmarono.... la faccia gioiosa del cielo cominciò a risplendere; soffiarono venti favorevoli, una calma tranquilla mostrò la magnanimità del Creatore; tutta la superficie della terra si caricò di frutti in abbondanza; essa diventò piacevole e la carestia fu respinta quasi completamente". Ed allora, dall'Aquitania alle provincie di Arles e Lione, alla Borgogna, fino ai più lontani estremi della Francia, "Vescovi e abati, con altri devoti della religione sacra, cominciarono a riunire consigli di tutto il popolo, ai quali furono portati numerosi corpi di santi ed un numero ancor più grande di reliquie... e fu ordinato in tutti i Vescovadi che, in luoghi convenuti, prelati e dirigenti di tutto il paese tenessero assemblee per promuovere la pace e la restaurazione della fede sacra" (Libro IV, Cap. 5). Questa lunga lettura non sarebbe stata inutile se avesse permesso di rettificare i due tenaci errori che continuano ad intaccare la storia dei tempi romanici. Facendo abbastanza, fa giustizia degli pseudo-terrori concentrati sull’anno mille, smentisce d’altra parte, il pregiudizio altrettanto corrente di un acquietamento immediato, come un ritorno di fortuna, la minaccia appena dissipata e di un progresso lento, ma ininterrotto, per tutto l'arco del XI secolo. Come il flagello della carestia triennale ebbe l’intensità, la gravità e la generalità che lo scrittore gli attribuisce, così è abbastanza verosimile che le conseguenze non ne fossero riassorbite in un giorno e che fosse invece necessario molto tempo per ristabilire un’economia sconvolta fino a quel punto. Con questa crisi drammatica e con i suoi strascichi si possono spiegare, in particolare, alcune interruzioni di monumentali cantieri di Cattedrali, constatate per esempio a Tournus e a Anzy-le-Duc in Francia (e cercando bene, se ne potrebbero trovare anche altre). Ci fu un deperimento della prima arte romanica mediterranea che fu molto sensibile proprio a partire dagli anni 1030. Poi, a Saint-Savin-sur-Gartempe, a Conques e a Saint-Sermin di Tolosa, si organizzò una lenta rinascita che, con modalità totalmente diverse e come liberate dall'influenza di questo stile vigoroso, dagli anni 1040-1060 circa s'andava ormai espandendo fino al trionfale apogeo degli anni 1090-1100, ma anche in molti altri luoghi dei resto d’Europa. Troppo sommaria, dunque, e semplicistica, è la contrapposizione: prima dell'anno mille e dopo l'anno mille; ma non per questo il modo di vedere tradizionale non contiene una parte di verità capitale. E' perfettamente esatto, in primo luogo, che un'angoscia diffusa ed un oscuro presentimento percorrono il X secolo che certo fu fra i più turbati e sinistri della storia. Senza dubbio essi hanno come radice più evidente e più brutale la confusione politica e sociale. Su questo sfondo permanente di carestia, ve ne furono non meno di quarantotto in settantatré anni, di turbamenti, di guerre, di invasioni e di incursioni devastatrici – basti pensare agli Arabi scacciati, ma sempre attivi; ai Normanni inafferrabili; agli Ungheresi devastatori (si pensi alla grande invasione dei 937, vero e proprio maremoto che spazzò tutta l’Europa continentale) - agonizza la dinastia Carolingia. Ma, ancor più profondamente, è una sensazione di scoramento, di stanchezza che s’impadronisce allora dei mondo cristiano ed in cui si dissolvono energia e vitalità. La vita si riduce ad orizzonti meschini alla soddisfazione dei bisogni elementari. Secondo l'efficace immagine di un annalista di quei tempi, il mondo invecchia, "mundus senescit". Il cronista Guillaume de Tyr userà, più tardi, un’immagine non meno viva e curiosamente equivalente: "Sembrò, in quei tempi che il mondo declinasse verso la propria sera". Vale a dire che, seguendo l'inesorabile legge di quest'epoca di naufragio, la sclerosi e la paralisi uccidono l'entusiasmo creatore e la volontà di rinnovamento che già aveva segnato la rinascita carolingia. Agli occhi dei contemporanei il male è ben altro, è ben più grave di un'occasionale crisi economica o anche sociale, poiché le sue radici sono religiose e spirituali. Per Odon de Touraine, abate di Cluny, moralista austero la cui opera e pensiero dominano, ben dall'alto, la prima metà dei secolo X, si può ben dire che Dio ha abbandonato il Suo popolo, per ritirarsi Egli in un empireo inaccessibile; per la prima volta dalla Redenzione, Egli ha fatto cessare i miracoli che sono il segno privilegiato della Sua presenza fra gli uomini. E' forse questo constatato pessimismo che ha indotto il grande teologo a non riconoscere più intorno a sé le manifestazioni della potenza divina? A ben guardare, per quello che riguarda i miracoli, i segni ed i prodigi di cui traboccano le cronache medioevali, la sola lettura degli "Annales de Fiodoard", di poco posteriori a Odori de Touraine, non ne registra davvero meno di ogni altra epoca: nel 920, l’accensione spontanea di un cero a San Pietro di Reims; le visioni accompagnate da sudori di sangue d’una ragazza nella medesima. Regione; nel 922, presso Cambrai, l’apparizione di tre soli; nel 934, di nuovo, un po’ ovunque in Francia, accensioni spontanee di candele; nel 936 sulla luna, l’apparizione di un velo di sangue. Nel 934, poco prima della morte di Sant’Odon, nel cielo notturno si vedono passare armate di fantasmi. Poi, tre anni più tardi, globi di fuoco incendiarono le case e, nella regione di Parigi, apocalittici cavalieri saccheggiarono tutte le vigne in particolare a Montmartre (Cit. Jules Roy, L’anno mille, p. 140 e seguenti). Il parallelismo fra la maggior parte di queste manifestazioni e quelle che precedettero la rovina di Gerusalemme, non può essere impressionante. Questo rarefarsi di miracoli che Sant’Odon crede di vedere, non ossessiona meno il teologo, che vi ritorna a più riprese: in primo luogo nelle "Collationes"; in seguito, nella "Vita di San Gerardo di Auriliac", modello, come si direbbe oggi, di "laico impegnato"; in uno strano e bel sermone per la festa di San Benedetto di Nursia, legislatore monastico. La spiegazione di un tale rarefarsi di miracoli a lui pare evidente: "Ci si stupisce che in questa nostra epoca, quando già s'è raffreddata ogni carità, o poco ci se ne dà pensiero... i miracoli dei Santi debbano cessare". – "E’ l’enormità dei nostri peccati che, sia qui che altrove, fa cessare i miracoli". E l’abate esce in queste parole terribili: "Da poi della rivelazione della grazia divina, noi siamo tornati indietro". Nel grande silenzio che in questo cuore dei X secolo, s'è appesantito sulla creazione sta, in realtà, l’aspettativa, l’apprensione e la prima manifestazione d'un altro flagello profetizzato dall’Apostolo. E’ l’avvicinarsi dell'Anticristo il cui volto, secondo la Scrittura, è preceduto dal terrore (Giob., 41,13), che ha rarefatto i segni. (Sermon pour la Saint-Benoit). Questa preoccupazione, questo pensiero e questo tono traspaiono già ma allo stato d'abbozzo ancora indeciso, nella grande opera relativamente giovanile che il monaco Odon intraprese, verosimilmente durante il suo soggiorno a Baume, dietro richiesta dei suo abate, Bernon. Richiamando, nel II libro delle sue Collationes, il doloroso detto dei profeta Isaia – "l’angelo della pace pianse amaramente", egli constata che il tempo della vita presente è davvero tempo di lacrime: tutto è ora confuso; non si vede alcuna traccia di verità, al contrario tutto è pieno di malvagità, di lussuria e nulla si custodisce di giusto e retto; si vedono gli umili e i deboli oppressi, afflitti, ingiustamente calpestati dai ricchi; l’onesto ed il pacifico debbono sopportare colpi e ferite molteplici; il perverso, al contrario, accumula potenza e si fa temere, moltiplica i suoi misfatti senza temere né giudice, né autorità sacra che non possono nulla e sono disarmati davanti alla sua prepotenza". In ciò il Dio Onnipotente manifesta la sua collera e permette agli angeli cattivi di scatenarsi per il mondo, così da "indurre i cuori a seguire le loro maligne persuasioni". Questo è il segno di Satana, liberato, secondo l’Apocalisse, al termine dei mille anni. "Alla fine dei mondo gli è concesso, sia per il bene degli eletti, sia a detrimento dei reprobi, di spiegare tutta la sua potenza con più asprezza di prima: la sua violenza bestiale esplode con tanta maggior forza, quanto più a lungo è stata frenata. Egli si fa tanto più accanito nel devastare quanto più sente prossimo il castigo". Ora, sottolinea tristemente il moralista, "questi tempi sono giunti. Il nemico perverso sviluppa il mistero dell’iniquità; ciò è manifesto dal fatto che l’ordine intero della religione o della cristianità è sconvolto, che l’empietà non si degna nemmeno più d’arrossire di sé, ma rafforzata dall’universale trionfo dell’iniquità, ovunque rialza la testa". Tuttavia Oddone esita ancora a ritenere che i tempi predetti dei l'abominazione siano già arrivati. "La sorte dei pellegrinaggio terreno è, bisogna saperlo, il camminare mescolati dei popolo di Babilonia e di quello di Gerusalemme: i reprobi insuperbiscono, gli eletti subiscono l’umiliazione". E’ da credere che la eco delle predicazioni messianiche di Odone di Touraine, qualunque formulate in termini generali e teorici, siano risuonate fino alla corte della regina Gerberge, sposa di Luigi d’Outremer, dato che essa - verso il 954 - chiese ad un teologo di vaglia, l’abate di Montieren-der Adson, di fornirle i suoi fumi sulla predizione della venuta dell’Anticristo. Il trattato di Adson, Libellus de Antechristo, non nega che tale apparizione debba precedere la fine dei tempi; tuttavia egli precisa che l'Anticristo dovrà nascere dalla tribù di Dan, in Babilonia e dovrà trascorrere la sua infanzia a Betsaida; dopo aver esercitato la sua sinistra missione per tre anni e mezzo, dovrà essere messo a morte sul Monte degli Ulivi. Ma è impossibile determinare con precisione la sua venuta; in ogni tempo ebbe ed ha dei servi; coloro che peccano; perché si manifesti, bisognerà che l'iniquità - secondo S. Paolo stesso - sia consumata sulla terra e il suo castigo non significherà in alcun modo la fine prossima dei tempi, la cui data è nota a Dio solo. A questa stessa metà dei X secolo fa riferimento un po' più tardi il celebre Abbon – abate e professore di Fleury, quando nella sua Apologia, composta poco prima dell'anno mille, dichiara: "Durante la mia prima giovinezza intesi predicare davanti al popolo, nella Chiesa di Parigi che - non appena compiuti i mille anni - verrà l'Anticristo e subito dopo di lui il Giudizio Universale. Sul fondamento dei Vangeli, dell’Apocailisse e dei Libro di Daniele mi sono opposto con tutte le mie forze a tale asserzione: e l’abate Richard, di grata memoria, avendo ricevuto delle lettere dalla Lorena a questo riguardo, mi ordinò di rispondervi" (Lettres d'Abbon de Fleury, X, in: P.L., tomo 139, Col. 471, cit. in parte da Focillon, L'an mil, p. 53). Lo stesso Focilion ricorda a giusto titolo che i famosi preamboli apocalittici che si vedevano, verso il 940, rifiorirono nei documenti: "La fine dei mondo s'avvicina, le rovine s'ammassano sulle rovine, il mondo è schiacciato da questi avvenimenti" (Donation de la dame Eve à Cluny, 941, Chartes de Cluny, n. 532), provengono da un'unica fonte diplomatica conosciuta fin dal secolo VII, il formulario di Marcolfo: "L’accumularsi di rovine annuncia per certo che il mondo è prossimo alla sua fine". Espressione retorica che, si può dire, divide i favori dei redattori di atti con la banale constatazione "di rovine che si estendono sul mondo" (Chartes de Cluny, n. 747), de "la caducità dei secolo" (ibidem, n. 523), de "la fragilità umana, per cui tutte le cose quaggiù svaniscono come l’ombra". E’ abbastanza significativo che la si veda, almeno nell'ambito cluniacense, attenuarsi e per un certo tempo sparire dai testi dei documenti dalla fine dei governo abbaziale attivo di Aimard (954); essa non riapparirà. che nell'attestato con cui il re di Francia, Roberto, nel 999 conferma la fondazione dei priorato di Vai d'Or, ossia di Paray-le-Monial (Chartes de Cluny, n. 2485): "La carità si raffredda sempre più nel cuore di alcuni... le sorti di questo mondo vanno sempre più deteriorandosi verso la loro rovina". O ancora in quei documenti dello stesso tempo gli autori di una donazione di beni situati recisamente a Satonnay, vicino a Mácon e a La Belouse de Davayé, confessano "l’enormità dei loro peccati e il timore che essi hanno dei prossimo giorno dei Giudizio" (lbidem, n. 2506), ma si guardano dal precisarne la scadenza. Questa consapevolezza della compagnia nel cammino terreno fra il bene e il male, è il terreno su cui germinano, assai prima dell’anno mille, altri indizi, ancor tenui, ma concordi che manifestano come dal profondo della notte comincia a spuntare una nuova ed irresistibile aurora. Si tratta dei risveglio dell’attività monumentale che è il massimo segno di espansione. Ci si trova di fronte ad una clamorosa innovazione di forme chiamata ad un avvenire di 5 secoli, come ad esempio il deambulatorio a cappelle raggiate (Cattedrale di Ciermont d’Auvergne, chiesa abbaziale di Agaune, verso il 940); e ci si trova di fronte anche alla proliferazione, ben anteriore all'anno fatidico, ed attraverso tutto il bacino Mediterraneo dalla Regione dei laghi, dalla Alta Italia alla Catalogna, di Chiese di pietre squadrate - talvolta dotate di cupole - fatte per durare mille anni. Esse si pongono come sfida all'avversità e alle più nere predizioni; indicano il rianimarsi, ancora debole ma percepibile, di una certa attività economica e di scambi, estirpando il cancro costituito dal covo arabo aggressivo di Freinet di Provenza. Soprattutto è il sorgere di una di quelle generazioni d'uomini intrepidi., di quei "valori umani" i quali, più ancora che le correnti, gli avvenimenti, i piani", hanno il privilegio di fare o di ricostruire la storia. Henri Focilion, il grande storico dell’arte, ha mostrato magnificamente come il mondo dell’anno mille riposi sulla stretta unione di due personalità incredibilmente diverse l’una dall’altra, ma unite dall’unico grandioso sogno d'un "impero del mondo", diviso sulle loro due teste legate inseparabilmente: il vecchio Papa Silvestro II e il giovane ed affascinante Imperatore Ottone III. Il merito particolare di quest'epoca di ferro è che a fianco di questi due grandi uomini, altre "colonne della cristianità" operano, con la schiena al muro - certo - ma con lo sguardo che scruta un avvenire sicuro, affinché all'innegabile recessione di ieri, segua il fremito d'una "dilatazione" nuova, promettente e molteplice e sulla sua vecchiezza fiorisca ciò che si deve ben chiamare una civiltà a Cluny, che di questi tempi si adopera per meritare il suo fiero soprannome di "seconda Roma", Maiolo e, ben presto, Odilone; a Digione, poi in Normandia, come nella sua nativa Lombardia, il vigoroso Guglielmo da Volpiano; a Fleury, Gauziin, mecenate, ma anche riformatore esemplare: in Catalogna. Oliba - abate di Ripoli, a Chartres, il famoso Vescovo Fuiberto, e quanti altri i cui nomi ed opere avrebbero riempito un pittoresco libro. Un altro testimone, quantunque diverso, tuttavia non meno espressivo, di questi tempi misti di ferro e di fuoco, è il focoso avventuriero Folco Nerra, conte d’Angiò combattente indomabile e crudele, instancabilmente in azione contro i suoi rivali, i conti Biois. Egli, a difesa Contier a Faye-la-Vineuse, Moncontour, Montbazon, dei suo feudo, costruirà da Cháteau Montrichard e Montrésor non meno di 18 fortezze imprendibili e capaci di sfidare i secoli. "Se non avessimo le prove scritte dell'opera di Folco, conclude Jules Roy - storico dell'anno mille - ci sì potrebbe chiedere se sia stato davvero un uomo dei X secolo, a poter combinare con una arte così perfetta tutto questo ingegnoso sistema d’attacco e di difesa" (pag. 98), concepito e realizzato al di sopra dei cambiamento dei millennio, in una spensierata indifferenza verso predizioni e presagi: a che scopo tutto questo lavoro sovrumano, se il rude conte avesse creduto alla fine prossima dei tempi? Egli trova ancora agio, nella sua vita tumultuosa, d’effettuare due volte il pellegrinaggio in Terra Santa in cui si manifesta davvero uomo dei suo tempo, e muore al ritorno dal secondo viaggio, senza aver rivisto la sua patria cui aveva dato tanto. Attraverso tutte queste grandi e pittoresche figure è la cristianità, che si ricostruisce scuotendo da ogni lato l’inerzia. Sotto le macerie e le sozzure della notte, si leva un'alba nuova come il canto dei gallo disperde le streghe dei sabba. La crisi dei 1033 trova certo il mondo cristiano fragile e ancora precario, ma pronto per inebrianti avventure in cui sperimentare le proprie forze e trovare il proprio riscatto. Anche l’apologo bonario dei monaco Raoul sul pellegrinaggio apocalittico di quell'anno, prova che i tempi sono decisamente cambiati e lo prova in questa spiritualità nuova dei pellegrinaggio romanico, che egli descrive come offerta sacrificale e serenità della morte accettata, a sostituire le tristi angosce e il torpore di ieri. Ed ecco che, dal fondo della valle di tranquillità, nelle sue agili cadenze ove si ricongiungono la Francia e l'impero e che contengono tanti appelli, la carità di Cluny comincia a dilatare questo mondo e con la pace gli offre la speranza misericordiosa e fresca.

( ER LABANDE: Essai sur les hommes de l'an mil, Venezia, 1973;in 8 estr. da: Concetto, storia, miti, e immagini dei Medio Evo).

G. Chantraine

Cari amici, noialtri europei portiamo il peso di una storia; è sufficiente parlare con un americano per capire immediatamente ciò che significa avere una storia e portare il peso di questa. Vorrei questa sera insieme con voi cercare di capire il peso della storia dei XV e XVI secolo, e poiché questo peso lo portiamo ancora oggi, dovremo cercare di capire in che cosa questa storia dei XV e XVI secolo condizioni ancora oggi la nostra storia moderna. Dapprima vorrei rapidamente ricordarvi che il mondo geografico e cosmologico nel quale viviamo tutt’ora è stato scoperto appunto nel XV e XVI secolo; è questa l’epoca infatti in cui i portoghesi, Cristoforo Colombo e altri ancora, scoprono il mondo nuovo, l’Africa, l’Asia, e integrano queste aree nella visione dei mondo che ancora oggi noi abbiamo. Allo stesso modo in quell'epoca, per la prima volta, Copernico può, in modo scientifico, dimostrare che l’ipotesi eliocentrica ha certo buone probabilità di essere quella giusta; oggi, viviamo senza più rendercene conto in un mondo eliocentrico. Qual è nei corso dei XV e XVI secolo l’unità dell'Europa? Al momento in cui si aprono questi due secoli si può dire che questa unità risiede nella cristianità; con questo termine intendo una unità politica, religiosa, ma anche culturale. Per capire ciò che avverrà durante questi due secoli appunto, è bene ricordare un assioma, un presupposto cristiano. Infatti è stato Cristo stesso ad introdurre un distinguo fra l’ambito politico e l'ambito religioso quando disse: "date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" -. Però questa distinzione è legata ad un'unità, perché nessuna città, nessun impero, può fare qualcosa che va contro il fine spirituale dell'uomo, che va contro la dignità della persona umana. Unità e quindi distinzione, unità e distinzione della cultura e della fede perché la fede - per essere viva - deve esprimersi, deve manifestare il fatto che Cristo, salvando l’uomo, ha restaurato la sua natura, l’ha ricreata in modo meraviglioso. Ecco, nell’unità c'è contemporaneamente questa distinzione, perché la fede non è la cultura e la cultura stessa acquisisce, grazie alla rivelazione, una autonomia che non conosceva prima; ad esempio, l’idea di persona, comune oggigiorno a tutti gli uomini credenti o meno, nasce evidentemente dalla definizione presa dal Concilio di Calcedonia della persona dei Cristo; è un'idea cristiana che ormai è entrata a far parte dei retaggio comune dell’umanità. Dunque, agli inizi dei XV secolo, così è la cristianità: un tutto politico, religioso e culturale, e una forma storica e contingente di quell’unità di cui ho appena parlato fra fede e cultura. Come si è fatta questa unità? All’inizio con l’imperium; l’idea romana di impero è stata ripresa da Carlo Magno e poi, pare, dagli imperatori Ottoni, e si è in modo molto naturale legata all’idea di sacerdotium. Su questa unità e su questa distinzione fra imperium e sacerdotium si è costituita la cristianità. Da un altro lato, ed è appena stato spiegato, dopo l’invasione dei barbari le scuole pubbliche sono scomparse ed è toccato alla Chiesa, per il tramite dei monasteri e delle sue scuole cattedrali, abbazie ed altri centri, diventare il maestro dei popoli. Nei secoli XV e XVI, avviene che l’unità, l’unità politica e religiosa caratteristiche dei cristianesimo, sono ormai scomparse. Nessun Papa riesce più a lanciare una crociata; d’altro canto l’impero, in modo definitivo, ormai passa nelle mani degli Asburgo che lo usano a fini dinastici per il loro casato; infine, altro esempio importante, Francesco I, re di Francia fa alleanza con i Turchi, nemici del mondo cristiano. Questa unità della fede e della cultura si manterrà più a lungo; ciò nondimeno possiamo constatare che all’epoca che ci interessa, questa unità inizia un po’ a scricchiolare. Ora vorrei partire da questo tema e vederlo in un'ottica molto precisa, anche perché voglio attrarre la vostra attenzione su questo enorme fenomeno che è Lutero. L’unità fra la fede e la cultura presuppone la tradizione, perché l’avvenimento di Cristo è un avvenimento storico; lo è in due modi diversi:

D’altro canto, l’intelligenza che l'uomo può attingere da questo avvenimento è stata data alla Chiesa dallo Spirito Santo e questo nel corso della storia. E' questa intelligenza data dallo Spirito Santo che viene chiamata tradizione, ed è soltanto nell'ambito di questa che l’avvenimento di Cristo viene capito in modo obiettivo, in sé. Ora possiamo constatare che, nel corso dei XV e XVI secolo, il rapporto dell’uomo con la propria storia si è modificato in tre modi:

  1. fin dal XV secolo e persino dal XIV secolo ì nominalisti hanno scisso la storia dal proprio senso perché, per loro, e per motivi che non si spiegano, il fatto storico stesso costituisce un fatto puro, un fatto che esiste in sé, scisso e separato dal senso proprio, è la nascita di ciò che chiameremo dopo positivismo.
  2. Quale reazione contro questi nominalisti appunto, l’umanesimo vuole tornare alle sorgenti, alle fonti, siano esse cristiane o pagane. Tornare a una sorgente, significa fare un cammino a ritroso, quindi significa creare una distanza fra se stessi e questa fonte. Voglio spiegarmi con un esempio: quando San Tommaso nel XIII secolo legge Aristotele, sa bene che è un pagano, però lo legge in una chiave cristiana; come cristiano spesso, anzi spessissimo, gli attribuisce idee che Aristotele non aveva. Nel XVI secolo le Feucre de Table pubblica Aristotele per conoscerlo in se stesso, a prescindere da tutti i commenti che gli sono stati aggiunti nei secoli, perché bisogna conoscere Aristotele come è stato nel suo secolo; così si può introdurre questa distanza storica, come in pittura si cerca di introdurre la prospettiva; si incomincia a vedere lo spazio in prospettiva, allo stesso modo si cerca di vedere la storia con una profondità che era appunto la distanza. Arriviamo adesso al terzo fenomeno più importante: Lutero.
  3. Lutero romperà definitivamente con la tradizione cristiana. Dicendo "no" a Roma Lutero ha rotto con la Chiesa, accusando Roma di corrompere con la tradizione il Vangelo; ha così chiuso definitivamente con la tradizione, opponendo a questa il Vangelo. Questo modo di vedere è stato accettato da tutti e influenza oggigiorno un ecumenismo assai diffuso: - vediamo ciò che può essere mantenuto nella tradizione cattolica - dicono i cattolici - avremo così la base di un accordo; questo ecumenismo non è errato, il fondamento stesso però mi sembra un po' troppo largo. Lutero ha rotto con la tradizione non dall’esterno, come ha fatto Zwingli, bensì dall'interno. E qui vi chiedo di stare molto attenti, perché questo è un punto più importante, più difficile da capire.

Esemplifichiamo per spiegare la cosa. L’esempio è la nascita di Cristo; Lutero ovviamente non nega il fatto, nemmeno contesta la divinità o l’umanità di Cristo, nemmeno la verginità e la maternità divina In Maria, non è un eretico, conosce la dottrina e mantiene la dottrina dei primi quattro secoli, in questo senso non rompe con la tradizione. Ciò non di meno, è ben conscio che il retaggio ricevuto dai nominalisti è una scorciatoia della storia stessa che toglie al Cristianesimo una base, anche perché i nominalisti, come noi abbiamo visto, considerano la nascita di Cristo come un fatto, quindi deve trovare un senso che non sia aggiunto dall’esterno a questo fatto. Lutero risponde che il senso si trova nella parola e non nell'avvenimento - e qui voglio insistere -: è nel verbo, nella parola, che si trova il senso, perché la parola è chiara, perché è divina, se fosse umana sarebbe oscura; se fosse umana, cioè se avesse carattere storico, sarebbe oscura. Tutto ciò che è storico, umano, la storicità umana viene quindi esclusa da Lutero. Lutero forse è qui influenzato dalla sua formazione nominalistica; forse - dice un fatto è un fatto quindi il senso viene dal verbo, dalla parola, e compie un passo successivo, dice che senza sosta dobbiamo eliminare dal verbo e quindi dal senso qualsiasi umana storicità. Ciò è necessario per due motivi: innanzitutto l’uomo vuole sempre essere il padrone, il maestro dei senso e, secondo motivo, il senso dell'uomo e l’oscuramento dell'unico vero senso che è quello della parola; certo Gesù è nato senza peccato, quindi non ha mai preteso di dominare lui stesso il senso della sua vita; è questo il motivo - dice Lutero - per cui la vita di Gesù o il fatto della sua nascita non ha un senso umano. Nell'avvenimento di Gesù, l'avvenimento della parola, dei verbo, acquisisce la sua purezza assoluta ed è il Vangelo; d'altro canto chi ha ricevuto lo Spirito di Cristo può ricevere soltanto la parola, e questa nella sua forma di assoluta purezza, quindi deve rigettare sempre qualsiasi interpretazione umana ma - stiamo attenti - questa interpretazione viene dalla Chiesa romana che si è auto-attribuita il potere di determinare il senso ultimo della parola; quindi è chiarissimo da allora che la Chiesa romana non ha preso parte allo Spirito di Cristo ed è un'istanza prettamente umana opposta a Dio. Allora non solo si deve rifiutare, ma soprattutto lottare senza sosta contro di essa come si lotta contro un avversario della fede, contro l’Anticristo, mai inattivo durante questa vita terrena. Questa lotta spirituale consente di avere questo atteggiamento anti-romano militante, perché per essere evangelici la fede necessariamente deve purificarsi senza soste di tutto ciò che non è verbo puro, cioè, leggiamo qui, di tutto ciò che è la tradizione, il magistero dei Papa per eccellenza. Quindi, per essere evangelici, la fede deve necessaria mente essere critica, come diciamo oggigiorno. La critica qui non è un giudizio razionale che scinde ciò che è valido nell'acquisizione della tradizione, bensì il giudizio dato dalla parola, dal verbo sulla pretesa della ragione umana di capire la stessa parola. Ecco cosa dice questo giudizio: la ragione umana è la tenebra ed è - dice Lutero - una prostituta nei confronti della luce che è una parola, e questa notte è mantenuta dalla Chiesa romana come se fosse la luce della parola. Apparentemente qui siamo ben lontani dal nostro tema che riguarda la relazione fra fede e cultura; in realtà siamo vicinissimi, basta soppesare bene le affermazioni di Lutero; ascoltiamolo: dato che Gesù è Dio, quindi senza peccati, la sua vita non ha senso umano, è pura parola, è Vangelo, e qualsiasi senso umano costituisce la notte, tenebra che la parola giudica. La prima affermazione esclude la stessa possibilità di un senso umano della parola divina, perché se questo senso non esiste nell’uomo-Dio è impossibile che esista; infatti l'unico suo possibile fondamento è Cristo e questo fondamento gli viene tolto; ma se nell’uomo-Dio la parola di Dio non riceve un senso umano, certo non lo riceverà nel credente e tanto meno dalla vergine Maria. La fede che qualsiasi uomo riceve ha un senso nella sua vita individuale e sociale se viene espressa in modo culturale. In virtù di questo carattere aprioristico,. cristologico, la fede può non essere detta tramite la cultura, ma, c'è di più: la fede per essere evangelica deve necessariamente prescindere da qualsiasi cultura. Occorre lottare contro una Chiesa che pretende legittimo lasciare discendere la parola divina fino ai problemi che si pongono gli uomini ad ogni generazione e far risalire fino a Dio le risposte lentamente elaborate nel corso dei secoli, come se - dice la Chiesa - appartenessero alla parola stessa. Lottando contro la tradizione, la fede evangelica non percepisce concretamente l’umiltà della parola che oggi ancora viene reincarnata nei problemi e nei bisogni umani, non capisce la trasmutazione che nella Chiesa opera la parola grazie allo Spirito Santo, penetrando così con una luce propria nelle risposte elaborate dai fedeli nel corso dei secoli. Ed è così che questa fede evangelica si preclude ogni cultura, perché la cultura propria, della fede nasce da questa umiltà della parola e da questo trasformarsi della risposta umana rispondendo alla luce divina. Non c’è quindi una cultura cristiana senza una tradizione vivente; qualsiasi declino della tradizione comporta un declino della cultura. Vorrei, per concludere, sottolineare un ultimo effetto di questo pensiero, di questa teologia luterana. Abbiamo visto come giudica duramente la ragione perché la rappresenta come tenebra; da ciò che avviene nel destino dell’Europa, dove questa ragione sì è vendicata e si è capovolta contro Dio, si avvera quanto Lutero aveva detto di essa. E’ il fenomeno dell'ateismo militante che conosciamo tutti e ciò che è tremendo in questo movimento dei pensiero, è il fatto che continua a portare in sé ciò che Lutero, e altri dopo Lutero, hanno detto di essa: cioè che deve in qualsiasi momento prescindere da se stessa, motivo per cui la ragione d'oggi spessissimo e necessariamente dimentica la propria storia e la propria tradizione. Cari amici, è tanto importante oggi come mai che la funzione storica rimanga presente nei nostri cuori e nella nostra mente, perché se vogliamo veramente essere europei e cristiani allo stesso modo, è indispensabile che a un livello semplicemente umano man teniamo e abbiamo sempre presente la nostra storia, siamo uomini radicati nella nostra storia

Don F. Ricci

Permettetemi dunque di concludere questa Tavola rotonda su "Le stagioni che hanno fatto l’Europa", con un pensiero che credo interpreti il giudizio di tutti. Anche per noi, come per il Prof. Chantraine, questo incontro è stata una grande esperienza. Lo è stato per le parole che abbiamo ascoltato e per ciò che le parole hanno fatto rivivere nella nostra memoria 151 di uomini e di cristiani; le grandi epoche della nostra storia, le grandi svolte decisive di questa storia, la loro drammaticità, hanno formato l‘uomo europeo, che attraverso quelle ha formato la propria identità e ha adempiuto il compito della costruzione dei proprio destino di uomo. Si è trattato di "flash su dei momenti"; mi permetto di ricordare che, prima di San Benedetto, si è svolto un lungo processo storico durato per secoli che ha reso possibile la fioritura di quel genio cristiano ed europeo e la fioritura della sua opera. Questa storia dell’Europa cristiana è stata preceduta da una lunga gestazione che affonda le sue radici nell’epoca pre-cristiana, nell’epoca della. grande cultura ellenistica, nell’epoca anche - non dimentichiamolo - dell'attesa dell'incarnazione, nell'esperienza dell'alleanza dei popolo ebraico con Javhe e nella congiunzione di questi due svolgimenti umani: l'uomo nato nell’ehos dell’ellenismo e l’uomo nato nell'ethos dell’ebraismo, l’annuncio dei Vangelo ha creato questo tipo umano che poi ha avuto, come ci ha ricordato il prof. Moulin, la sua rappresentazione archetipa e la sua realizzazione storica in San Benedetto e nella sua opera. E dopo questo, attraverso la lunga crisi dei Mille, la storia dell’Europa è continuata ancora con quella dialettica di bene e di male, di luce e di tenebre che sembra essere quasi il motore della storia della nostra cultura e della nostra identità, dei nostro ethos. Mi permetto di ricordare che questo nome Europa ha un origine non europea, ha un’origine fenicia probabilmente, e sta ad indicare il paese dove il sole tramonta, il paese delle tenebre, il paese dei buio. Se siamo uomini europei dobbiamo ricordarci che abbiamo continuamente da ripetere la decisione, perché il nostro nome cambi e invece che essere - secondo il suo etimo fenicio - il nome dei paese delle tenebre, della violenza contro l’uomo, diventi il paese della luce, della verità sull’uomo, il paese, la terra, dove l'uomo può vivere la propria dignità umana. Noi sappiamo che questo passaggio dal paese delle tenebre al paese della luce è avvenuto grazie all'evangelizzazione e sappiamo quale grande eredità ha lasciato il Vangelo, così che questa eredità dei Vangelo si identifica sostanzialmente con l'essenza stessa dell’Europa. Ma questa sera, più che attraverso le parole, abbiamo vissuto una grande esperienza attraverso lo stesso avvenimento di questo incontro; a questo tavolo sono riuniti insieme un agnostico francese, uno studioso di storia dell'arte italiana e un teologo belga; già questa diversità di radici, di storia, di lingua, di tradizioni, di posizioni, di giudizi insieme alla possibilità di intendersi, di capirsi, è un avvenimento che segna ai nostri occhi, plasticamente, un'immagine dell’Europa. L’Europa può essere solo così: fatta di uomini diversi ma uniti, uomini diversi in cui la diversità non è la ragione della divisione, ma diventa l’avvenimento umano dell’incontro, della comprensione, dell’amicizia. Questo avvenimento costituisce l’essenza dell’ethos dell’europeità, ma, proprio perché l’europeità è un ethos, essa è un compito e non esisterà mai europeità se non nella misura in cui l'uomo europeo assumerà sulle proprie, spalle, con il carico della propria storia, come ricordava il prof. Chantraine, anche il compito dei proprio destino e non si adempie al compito dei proprio destino se non assumendo la responsabilità verso la propria verità. Da questo punto di vista, mi permetto di sottolineare in particolare la grande esperienza che è per noi questa sera: potere esser qui in questo tavolo a parlare insieme con voi dell’Europa agnostici, non credenti e credenti. Questa è la sfida dell’Europa al mondo: la possibilità che perché Cristo non è neppure il credere e il non credere crei divisioni, crei guerra, crei od venuto a portare la divisione, ma è venuto a portare un’ultima estrema o suprema possibilità di intendimento. Noi possiamo ascoltare come uno slogan l'espressione dei prof. Moutin quando ha detto "Io sono un agnostico cattolico", io credo che questa immagine renda plasticamente il compito di oggi ed è un compito che attraversa tutte le divisioni di parte, tutte le divisioni di ideologia, tutte le divisioni economiche, tutte le divisioni di tradizioni, di posizioni umane, perfino attraversa la divisione tra una posizione religiosa ed una posizione non religiosa. Io auspico che questo Meeting, questo avvenimento di unità, sia non solo per noi, ma sia un tale avvenimento per la nostra Italia e non solo per la nostra Italia, ma per la nostra Europa. Noi sappiamo di essere assolutamente sproporzionati a questo compito, sappiamo che questo compito supera la possibilità dei l’immaginazione umana e tuttavia sappiamo che questo è un compito storico. La sfida dell'uomo in questo momento della nostra storia, in questo scorcio fra il II ed il III millennio, è giunta ad una radicalità tale per cui solamente l’assunzione di una seria responsabilità nei confronti dell'uomo e della sua verità può rendere l’uomo capace di essere uomo.