La lingua: come un popolo guarda la realtà

Mercoledì 24, ore 11

Relatori:

Marco Guzzi

Eddo Rigotti

 

Marco Guzzi, scrittore

Guzzi: Esiste una lingua in esilio nel nostro tempo, una parola rimossa, che freme, preme dentro di noi per essere detta, perché noi abbiamo il coraggio, la forza, l’umiltà di pronunciarla, di farci pronunciare da essa, una parola che il più delle volte nel linguaggio comune, dominante, è messa a tacere. Agli inizi dell’Ottocento un poeta tedesco considerato non solo dalla mia generazione come un punto di riferimento del rinnovamento della parola poetica nella modernità, scriveva: "Un segno noi siamo senza significato, senza dolore, e quasi è perduta la nostra lingua in terra straniera". Dunque c’è un esilio della parola: abbiamo quasi dimenticato la nostra lingua, così ci siamo dimenticati forse di noi stessi.

La grande poesia del ‘900 – ma anche quella dell’800 – parte da una sofferenza, dalla percezione che i linguaggi dominanti non parlino più, non siano cioè più capaci di trasmettere all’uomo un senso comune, un senso intorno a cui potersi accomunare, che possa radicarsi nella profondità della persona e guidarla lungo un cammino. I linguaggi della modernità sono forti, iperrazionali, capaci di dominare bene la realtà nella sua immediatezza, ma, gridano i poeti, rischiano di non comunicare più un senso comune. Babele non è più la pluralità di lingue che tra di loro non si comprendono, ma diventa la modalità stessa di parlare una stessa lingua. Noi parliamo tutti italiano, ma i nostri linguaggi rischiano di non comunicare più tra di loro, ciascuno ha il suo gergo, il suo linguaggio tecnicizzato, specialistico, settoriale, capace di organizzare bene quella determinata particella di realtà: rischiamo però di non riuscire più a comunicare tra di noi l’essenziale che preme. Il nostro è il tempo della comunicazione di massa, possiamo comunicare con tutti nello stesso istante, da continente a continente, cercandoci con il cercapersone o i telefonini, ma proprio nel tempo in cui tutti siamo presenti a tutti, siamo però presenti gli uni agli altri come presenza fantasmatica, come realtà virtuale, come realtà spersonalizzata. Gli uomini, dunque, in questa particolare condizione, comunicando apparentemente con tutti, scoprono una nuova solitudine, di cui si è scritto moltissimo, soprattutto in questo secolo, la solitudine dell’essere.

Nel 1840, Poe scrive la novella: L’uomo della folla, che si può considerare come la nascita letteraria dell’idea di folla, dell’anonimato della massa. Poe, guardando la folla di Londra, la prima metropoli del mondo industriale, sottolinea l’aspetto psicopatologico piuttosto che quello economico, non le ingiustizie che venivano osservate alla nascita del mondo industriale nella Londra di metà dell’Ottocento, bensì l’uomo ridotto a "uomo-massa" nel suo divenire pazzo, nel suo essere incapace di incontrare uno sguardo, nel suo scontrarsi (c’è la bellissima descrizione degli uomini che sullo stesso marciapiede si scontrano come delle marionette automatiche, non avendo nemmeno più il coraggio di guardare in faccia l’altro).

Il problema, dunque, che credo dovremmo porci è se questo esilio, questa desertificazione della parola, del senso, possa essere un’occasione propizia, cioè una condizione penosa in cui però veniamo spinti dalla necessità a cercare un contatto più radicale con noi stessi e con la parola, un contatto sorgivo, inaugurale, iniziale. Si tratta dunque di fare della difficoltà non qualcosa che ci sovrasta soltanto, e di cui continuamente lamentarci, ma l’occasione di una sfida e dunque di una risposta nuova, di uno sfondamento nuovo nel cammino faticosamente evolutivo e creativo dell’umanità.

Ho voluto iniziare con questi brevissimi cenni affinché prendiamo coscienza della prospettiva storica del nostro momento: la povertà dei linguaggi, la disgregazione delle comunità, la perdita di senso dei linguaggi comuni non è un fenomeno che nasce oggi, bensì è un tragitto tragico che accompagna lo sviluppo della società industriale nella sua ambiguità, fin dall’inizio, ed è proprio la coscienza storica di questo tragitto che ci deve fare comprendere l’ampiezza della sfida davanti alla quale ci troviamo. Non ci troviamo alle soglie di un piccolo cambiamento storico, ma di una sfida che è stata definita epocale, perché segna il passaggio di un’epoca.

Qual è il linguaggio che oggi domina nel nostro mondo nell’Occidente di fine millennio e quindi in Italia? È il linguaggio dell’informazione, non soltanto quello dei giornali e della televisione, ma anche quello che possiamo scambiarci tra di noi, in famiglia o nel posto di lavoro. Quante volte nelle famiglie il dialogo viene ridotto a mere informazioni: "Che hai fatto oggi? Che c’è da mangiare? Quando esci? Quando torni?". Quante volte nei nostri posti di lavoro non riusciamo ad andare al di là di una serie di informazioni sull’andamento della nostra carrierina o del collega antipatico del posto accanto? Tutte informazioni, soltanto informazioni.

Quali sono i caratteri preminenti di un linguaggio ridotto ad informazione? Ne vorrei segnalare tre: innanzitutto il linguaggio dell’informazione, che tende per sua natura a mangiarsi tutti gli altri. Che ci debba essere un livello informativo è ovvio, ma qui parliamo di un linguaggio dell’informazione che vuole diventare il centro delle cose, che vuole prendere il posto del centro delle cose, usurparne il senso fingendone e mimandone i caratteri, facendoci credere che il senso delle cose sia acquisibile attraverso l’accumulo delle informazioni. Questa è la più grande menzogna, perché il senso delle cose accade completamente fuori da tutte le informazioni che abbiamo appreso fino a quel momento. Il carattere del linguaggio è poetico, è la sorpresa, la donazione, e quindi io posso essermi informato fino al colmo, ma essere ugualmente incapace di ascoltare la parola che in quel momento mi potrebbe dire il senso di ciò che sono e la direzione di ciò che faccio.

Il modo in cui l’informazione annienta gli altri linguaggi è duplice: anzitutto, riduce tutto ad informazione, così la cultura è ridotta a informazione, la religione è ridotta a informazione. Devi essere ben informato, conoscere questo, questo... leggere questo, questo, questo... e a forza di leggere in questo modo informativo, si perde qualunque possibilità di formarsi una personalità propria. Il secondo modo è l’emarginazione: ciò che non entra nel sistema dell’informazione non esiste: questo è il motivo per cui la parola poetica, oggi, di fatto, è come se non esistesse. Gli editori non se ne occupano, perché non vende, le persone non la leggono perché il più delle volte è anche difficile da leggere, o perché i poeti non riescono a trasmettere la necessità di questa parola, o perché tante volte insieme al grano di una parola nuova e vera vi sono magazzini interi di merci avariate, ed è quindi molto difficile orientarsi per trovare quella parola. Resta comunque il fatto che il sistema dell’informazione tende a mettere ai margini e sostanzialmente a rifiutare la realtà a tutti i linguaggi che non si uniformino ai suoi codici, che si tratti del linguaggio dell’amore o della visione, che sia la parola del senso o dell’anima.

Il secondo carattere che mi pare fondamentale si manifesta in modo eclatante almeno a partire dalla metà dell’Ottocento, con l’invenzione del telegrafo (quando fu inventato il telegrafo, per la prima volta si poterono avere informazioni in tempo reale da qualunque posto della terra): in quel momento l’informazione si sganciò da qualunque contesto di senso. Io non mi informo di una cosa perché debbo farne un’altra; da quel momento in poi, e con un’accelerazione crescente, l’informazione si sradica da qualunque contesto e diventa fine a se stessa. "Perché ci si informa?" "Per essere informati", è la risposta. "Perché mi debbo informare?" "Perché è bene essere informati". La domanda successiva: "Perché e fino a che punto e in base a quali valori è bene essere informati?" esce dal sistema dell’informazione, e infatti, se ci fate caso, ben pochi se la pongono, anche nell’attuale discussione sulle finalità dei cosiddetti mass-media che dovrebbero essere mezzi, strumenti, ma nei fatti sono fine a se stessi. L’informazione, che è di per sè uno strumento per un fine, diventa fine a se stessa. Quando una cosa che di per sé è un mezzo perde la cognizione del senso per cui esiste e diventa fine a se stessa, significa che l’uomo sta perdendo progressivamente il senso delle cose. Pensate al denaro, che è il mezzo per antonomasia, che dovrebbe servire come strumento: divenendo fine a se stesso, porta l’uomo alla dissociazione e alla rovina. Il linguaggio dell’informazione si sottrae, per natura, alla domanda di senso. Le domande di senso non entrano nemmeno nella rete dell’informazione, e non debbono entrare perché la lacerano.

Terzo carattere: il linguaggio dell’informazione, proprio in quanto è uno strumento che vuole diventare fine a se stesso, tende a darci anche della realtà un’immagine del tutto strumentale. Potremmo dire che il linguaggio dell’informazione è di per sé riduzionistico, tende a ridurre la realtà e gli uomini a meri strumenti, a cose disponibili sul mercato. La realtà, gli alberi, gli uomini, il mare, vengono ridotti alla loro disponibilità tecnica, magari sotto forma ecologica, "dobbiamo preservare il mare", un altro atteggiamento rischiosamente tecnico rispetto alla realtà. L’informazione è il linguaggio della tecnica che diventa automaticamente fine a se stessa: l’ha detto un grande pensatore come Heidegger. L’informazione è il linguaggio di un mondo tecnico che non s’interroga più sul senso della sua presenza, ma che legittima la propria esistenza su se stessa: "Io ho senso perché esisto". La televisione deve fare 24 ore al giorno di programmazione perché è bene così, perché deve funzionare: il funzionare di per sé è il bene.

L’uomo, ciascuno di noi, immesso in questo esilio della parola dal senso, che è il mondo dell’informazione totalitaria, viene progressivamente impoverito, gli viene richiesto sempre meno e sempre più. Sempre meno, perché per inserirsi in questo grande gioco gli viene solamente richiesto di essere una funzione, non una persona: deve solo entrare nel suo meccanismo e funzionare bene. Quindi, è chiesto poco, ma è chiesto molto, perché chiedere questo vuol dire chiedere di rinunciare alla vita come sensatezza profonda del fare, e imparare a vivere nella alienazione radicale, di imparare a lavorare rinunciando a chiedere perché lo si fa. Questo uomo dissociato, che deve avere da una parte una funzione pubblica riconosciuta nel mondo dell’insensatezza, e dall’altra un corpo, un’emozione, un’anima che non può esprimersi, è l’uomo della scissione patologica o psicopatologica. Non è un caso che il ‘900 sia il secolo della scoperta analitica e psicoanalitica delle dissociazioni profonde, e non è nemmeno un caso che il nostro sia un tempo di depressione. Non credo che la depressione sia soltanto e preminentemente un fattore economico, è un fattore psichico prima ancora che culturale. La nostra è una cultura depressa perché abbiamo strutturato un mondo che si scinde dalle radici viventi dell’esistenza, del corpo, dell’emozione, e quindi siamo depressi: stress, astenie, calo del desiderio sessuale, tutti i giorni questo sistema dell’informazione ripete queste chiacchiere senza avere mai il coraggio o la capacità di fare un passo indietro rispetto a questa psicopatologica sintomatologia dell’uomo metropolitano.

La grande poesia di questo secolo non si è mai fermata semplicemente alla denuncia di questo stato di sofferenza e di difficoltà, ma questa denuncia, nei poeti più significativi, è sempre stata accompagnata da un annuncio, da una possibilità ulteriore per l’uomo di uscire da questa condizione schizzoide, di riconiugare il discorso logico con il corpo della vita, le logiche con l’eros della vita, il palpito dell’esistenza, e quindi di ritrovare un orientamento di senso concepito nella sua profondità esistenziale, vitale e spirituale. Un grande poeta vivente, francese, Ive Bonfua, scrive: "Abbi fede. Il senso può crescere nelle tue parole, terra salvata". Questi versi ci dicono che, a determinate condizioni, un’energia di senso può tradursi nelle nostre parole mortificate, nel nostro italiano mortificato di fine millennio e rianimarne una vita, e che questa rianimazione non è soltanto un fatto psicologico, ma è terra salvata, è l’unica possibilità che abbiamo per trovare un orientamento di bonifica della terra. La terra, come il cuore del linguaggio, sanguina sotto i nostri piedi violenti, e non sarà nessun discorso meramente ecologico a salvarla, non sarà nessuna escogitazione tecnica di sviluppi compatibili o altre escogitazioni. Se c’è una possibilità, sta nell’umile reimparare a parlare trovando un contatto attuale con quel principio sempre iniziale che sempre di nuovo può dare inizio alla nostra vita e alla nostra lingua. Quando Rimbaud, che è considerato un altro capostipite di questa esperienza poetica, dice: "Io è un altro", vuole dire che l’uomo può sperimentare una dizione, come direbbe Mario Luzi, interiore di un altro che però è la parola più adatta a dirci chi siamo, la parola più propria, la proprietà del nostro linguaggio che va rianimata attraverso il gesto umilissimo, balbettante di un nuovo ascolto. Un altro grande poeta francese di questo secolo, morto ormai dodici anni fa, Renè Siar, che non era religioso, o per lo meno non era cristiano, ma che, secondo me, al di là della sua intenzione era attraversato, proprio per la fedeltà all’ascolto, da un’emersione profondamente cristica della parola, diceva: "Questo fanciullo sulla tua spalla è la tua possibilità, la tua chance e il tuo fardello". Questo bambino vuole ricominciare a parlare, vuole insegnarci a parlare daccapo, questo bambino è la nostra chance, la nostra buona speranza, la nostra buona possibilità, ma è anche un fardello. Bisogna avere il coraggio della rinuncia a molte sicurezze, a molte sovrastrutture linguistiche, bisogna avere il coraggio della povertà della parola che alcuni poeti ci hanno indicato. Ma non è un problema letterario, non si tratta di scrivere poesie, si tratta di attivare e di scoprire un rapporto con la parola nella quale non siamo preminentemente noi a disporre di ciò che diciamo, non siamo noi i padroni della lingua, non siamo noi i proprietari delle parole; le parole sono venti, le parole sono antiche, le parole sono stelle, bisogna avere il coraggio e l’umiltà di riascoltare questi venti e dobbiamo aspettare che siano loro a dirci la direzione della nostra navigazione notturna.

Credo che oggi nessun elemento naturale, come tale, sia in grado di costituire un popolo. Non basta parlare la stessa lingua, abitare uno stesso territorio, avere le stesse strutture giuridiche per costituire un popolo. Se un popolo può esistere ancora, potremmo dire che non è un frutto della natura ma un’opera d’arte. Sarà un popolo, forse è già un popolo che c’è, che saprà fare riparlare le lingue storiche, farà trasparire un senso comune dalle lingue che nei millenni hanno rappresentato le differenze fra gli uomini. Se non avremo questo coraggio, incorreremo nel rischio, oggi già presente, di regredire a forme di identità etnica, di identità nazionalistica, di identità che forse hanno avuto un parziale senso storico in altri momenti, ma che oggi si manifestano per la loro terribile, drammatica, quotidianamente testimoniata finalità omicida. Vorrei chiudere ancora con due versi di Sciar: "Dove lo spirito non sradica più, ma ripianta e cura, io nasco. Dove ha inizio l’infanzia del popolo, io amo".

Eddo Rigotti, docente di Linguistica all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano

Rigotti: Sono stato anch’io colpito da quella parola "popolo" con cui, del resto, si è presentato fin dalle sue origini questo Meeting, ma che quest’anno risuona anche nel tema specifico. Interessante e bello questo risuonare, dopo innumerevoli progetti di uomo e altrettante riduzioni dell’umano nei limiti spesso modesti della nostra fantasia. La parola uomo è una parola di difficile uso, che difficilmente riusciamo a rispettare, carica di contenuti che emergono secondo modi e sottolineature diverse nei vari usi; non è equivoca, ma è solo carica di contenuti, perché ha in sé una pretesa particolare, la pretesa di fare riferimento, pur senza definirlo, al tessuto concreto in cui si situa l’esistenza umana, rispettandone però la ricchezza e la imprevedibilità. Tutto questo è un popolo; l’accezione frequente che lo concepisce come cittadinanza o sudditanza a uno Stato, è riduttiva e fuorviante. Un popolo è soggetto potenziale di ordinamenti giuridici e di organizzazione statale. La pretesa che fatta l’Italia si dovessero fare gli italiani è all’origine della sofferenza, della modestia, del risentimento dell’Italia contemporanea. Il popolo non si fa, si trova, si riconosce, si ama, si serve, la pretesa di farlo è il tarlo che rode dalle sue origini l’esser popolo dell’Italia, è alla radice della fatica a riconoscersi Patria, al di là della retorica scolastica asservita alla scuola di Stato. Sono esistiti ed esistono innumerevoli Stati che raccolgono più popoli, così come esistono innumerevoli popoli distribuiti in più Stati; non c’è un rapporto biunivoco fra popolo e Stato. Il fatto che uno Stato sia multinazionale non è affatto contro natura, il popolo è predisposto a costituirsi secondo ordinamenti giuridici e secondo un’organizzazione statale, ma in quanto tale non è condannato a questo, è ben altro. Un popolo non è semplice collettività, pluralità di individui senza radici e senza senso.

Dopo la rivoluzione francese è effettivamente difficile parlare di popoli: il cosmopolitismo, come rifiuto delle radici, rifiuto ultimo della appartenenza, è un esito inevitabile di un illuminista che non riconosce il popolo ma lo vuol formare, progetta strutture per costituirlo. Tutta la modernità è intrisa fin dalle sue origini, forse fin dalla traduzione luterana della Bibbia, da questa pretesa di mettersi a tavolino e progettare un popolo. Il popolo non è una semplice collettività, è una comunità e chi ne fa parte non si sente semplicemente aggregato, ma appartenente in quanto partecipe di un comune destino storico costitutivo della sua persona.

È un’appartenenza che fa il popolo, e come ogni appartenenza autentica ha due aspetti, perché è insieme il riconoscimento di un dato di fatto e l’esito di un’autocoscienza, quindi di un riconoscimento positivo: dunque al tempo stesso libertà e tradizione. Può sembrare assurdo, ma non c’è tradizione senza libertà e viceversa; un popolo c’è se ha un passato e un futuro, una radice e un senso. Proprio questa parentela stretta fra popolo e religiosità rende il concetto di popolo imbarazzante per la sensibilità laica, è meglio dire "paese". Ma ciò che fa un popolo e lo sostanzia è un passato aperto e un futuro, un cammino nel tempo che nasce da un senso e sfrutta questo senso per rendere ragione della vita del popolo, come della vita minuta, semplice, quotidiana e anche creativa, artistica, intellettuale dentro il popolo; un popolo è una condivisione fatta di memoria e di ideale, e possiamo ragionevolmente definire questa struttura di senso da cui nasce "cultura", nel significato più ampio del termine.

I popoli, però, non sono realtà assolute, individualità irrelate: questa crea il nazionalismo e la pretesa dell’assolutezza. I popoli d’Europa si ponevano nel Medioevo, a dispetto delle profonde differenze linguistiche e politiche, entro il grande popolo della Repubblica Cristiana. I popoli d’Europa non parlavano e non parlano tutti lingue indoeuropee; numerose popolazioni parlano lingue imparentate con altri continenti, così come hanno appartenenze politiche diverse, eppure tutti questi popoli formavano un unico popolo. Non è un concetto assoluto quello di popolo, non è un’appartenenza che chiude, ma che, al contrario, apre. Può avvenire che un popolo si senta partecipe di un popolo più grande, sotto un aspetto, e di un altro popolo più grande sotto un certo altro aspetto. I Ticinesi, ad esempio, dal punto di vista della comunità politica, sono un popolo che si riconosce con serenità nel più grande popolo della Confederazione Elvetica, ma da altri punti di vista, costitutivi e importanti della cultura, ad esempio come comunità linguistica, letteraria, creativa e artistica, si sente altrettanto serenamente e altrettanto fieramente partecipe del più grande popolo italiano, che a sua volta non coincide con lo stato italiano, per fortuna, né nel tempo, né nello spazio. Pensiamo a un altro caso, i Valloni del Belgio, oppure agli Austriaci, che si sentono fieramente un popolo pur appartenendo, dal punto di vista linguistico e letterario, alla più grande comunità dei germanofoni.

Intravvediamo certo un intrico fra popolo, lingua, cultura: cerchiamo di venirne a capo. Fra popolo e lingua non c’è un legame indissolubile, anche se c’è un legame profondo, perché, come ha detto Guzzi, esiste una parola in cui è depositato un senso che dobbiamo riscoprire, e dunque la lingua è rivelantissima in quanto costitutiva di popolo, ma non in modo esclusivo. È facile vedere che, attraverso i secoli, i popoli cambiano, talora notevolmente, la propria lingua, pur conservando la propria identità. In Europa, noi Italiani abbiamo un grande privilegio di cui non ci rendiamo spesso conto: un ragazzo delle medie, se aiutato, può leggere Dante, il Villani, può leggere testi del XII, del XIII, del XIV secolo, mentre questo non è possibile per il ragazzo francese, tedesco o inglese, perché deve studiarsi dei sistemi linguistici diversi, da riconoscere come sistemi linguistici autonomi: l’antico ed il medio francese, l’antico ed il medio tedesco, l’antico ed il medio inglese. Ci sono stati popoli con numerosissime lingue; già il popolo romano, superata la fase della conquista bruta, quando si riconobbe come popolo, quando la Urbs si riconobbe come orbis, fu perlomeno bilingue. La pluralità delle lingue non impedisce l’unità del popolo: ricordiamoci che ci sono addirittura popoli in cui gli uomini parlano lingue diverse dalle donne, ma questo non toglie nessuna unità al popolo. Tutto il Medioevo è stato caratterizzato da diglossia, sia nella cristianità occidentale che in quella ortodossa. La diglossia è un biliguismo, è il ricorso a due sistemi linguistici per sfere d’uso diverse: la stessa persona che nei suoi rapporti familiari, nella quotidianità, nel commercio, nell’artigianato, nell’impresa, usa o poteva usare il magiaro, il tedesco, il francese, l’inglese, dialetti italiani, compreso il toscano, se aveva altre sfere di attività, per esempio la cultura, la filosofia, la storia, ricorreva al latino, in Occidente, in Oriente ricorreva allo slavo ecclesiastico. Questa modalità espressiva creava un popolo più grande di appartenenza, e al tempo stesso creava un forte dinamismo entro le comunità linguistiche, perché non era indifferente per le due lingue questo parallelo, pur secondo fusioni comunicative diverse. Del resto se avessimo capito a suo tempo, nella grande polemica sul latino come lingua sacra, che non è necessario che un popolo parli una sola lingua, avremmo forse meglio inquadrato il problema. La diglossia si riscontra in pressoché tutte le comunità del mondo; dove non la si riscontra è perché non si sono fatte le analisi adeguate e lascia un segno nelle lingue. Anche in tutto l’ambito del lessico opera la diglossia. Quando formiamo parole nuove per sfere d’uso culturale, queste parole sono create a partire dall’altra lingua, la lingua nobile e la differenza fra colto ed incolto è riconducibile al possesso o al non possesso di questa seconda lingua.

Per capire il rapporto intricato tra popolo e lingua dobbiamo comprendere un’accezione particolare della parola popolo: il popolo di cui parliamo non è essenzialmente una comunità politica, anzi la realizzazione forse più densa, ontologicamente più significativa della parola popolo si ha quando si parla di popolo cristiano, lo sterminato popolo dei figli di Dio che può dire: "Padre nostro". Notate questo "nostro": un popolo è un noi, non un noi fisico, ma un noi di appartenenza. Quando si costituisce un noi abbiamo un popolo. Quando diciamo "Noi abbiamo vinto la battaglia di Lepanto" – perdonatemi questo tono trionfalistico – 'noi' siamo il popolo cristiano, peccatore, con delle colpe magari storiche, ma noi siamo il popolo cristiano: né io né voi c’eravamo, ma siamo noi che abbiamo vinto a Lepanto, così come siamo noi che abbiamo fatto le crociate. Noi siamo un popolo solo che dice "Padre nostro" nelle infinite lingue del globo.

Questa polifonia è fondata su una profonda unità di senso che è ultimamente ontologica, non cognitiva: è qui la profonda ragione della radicale differenza tra informazione e comunicazione. La comunicazione ha un fondamento ontologico, è fondata su un essere e un noi, è partecipazione della persona; l’informazione è puramente cognitiva, è una interazione fra terminali. Il popolo nasce in rapporto a un destino, e un destino nasce in rapporto ad un avvenimento che consente al profondamente diverso di riconoscersi ultimamente unito. Il miracolo sta nel fatto che il discorso che ci unisce, il logos, prende le forme del diverso, e il diverso non è travolto, ma è fatto crescere fino all’identità: questo è il miracolo linguistico del cristianesimo. Il cristianesimo non ha mai creato unità linguistica, pur creando un’unità profondissima: il diverso non è stato travolto.

A questo punto devo leggere un brano che tutti conoscerete: "Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si ponevano su ciascuno di loro ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Si trovavano allora in Gerusalemme gli osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. Venuto quel fragore la folla si radunò e rimase sbigottita, perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Tutti erano stupiti e perplessi chiedendosi l’un l’altro: 'Cosa significa questo e perché? Siamo parti, medi, elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Capadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frisia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, ebrei e proseliti, cretesi e arabi e li udiamo annunciare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio'".

In fondo, il compito di un linguista – e non dico di un linguista cristiano – è cercare di scorgere la ragione di questo, di cogliere nelle sue fattezze questo mistero: capire la stessa cosa ciascuno nella propria lingua. È lo scandalo della traduzione.

Il nesso che voglio infine sottolineare è il rapporto profondo tra linguaggio ed esperienza. La parola del poeta non è la parola dei linguisti, non è la parola dei codici, è la parola carica di esperienza, è la parola che sgorga da un’esperienza che non si traduce. Una comunità cristiana traduce la Bibbia per dotarsi di strumenti. Questo spiega il problema teorico della traduzione; tutto il ‘900 ha litigato con i traduttori e provocatoriamente uno studioso ha iniziato la sua trattazione dicendo: "eppur si traduce". La traduzione è un problema complesso, perché ogni mossa, ogni testo, ogni significanza umana si radica in un’esperienza, in un rapporto.