Incontro con Cesare Romiti
Venerdì 23, ore 13.00
Relatore:
Cesare Romiti,
Presidente della FIAT
Romiti:
Il fatto di trovarmi per la prima volta al Meeting di Rimini, in mezzo a tante persone, soprattutto giovani, mi riempie di soddisfazione. Sono convinto che nell’attuale fase di crisi della società italiana, europea, ed anche di altre aree geografiche del mondo, c’è una cosa di cui tutti noi, e voi giovani in particolare, abbiamo bisogno: un recupero degli ideali. Abbiamo bisogno di recuperare dei valori in cui tutti riusciamo a riconoscerci; in certi momenti ho la sensazione che il sistema dei valori della nostra società non solo si sia fortemente indebolito, ma che addirittura sia scomparso.Quando la guerra era appena finita – ero circa della vostra età – non c’era nessun posto di lavoro, il paese era distrutto, ma a differenza di quello che vedo oggi noi giovani avevamo traguardi ben precisi, anche se non capivamo come ci saremmo arrivati. Oggi si vive di gran lunga meglio di allora, ma dal punto di vista dei valori mi pare che oggi ci sia un grande disorientamento. Apertura, ricerca e costruttività: la forza di questi valori ha segnato la rinascita del nostro paese all’indomani della guerra ed è la loro debolezza di oggi che sta alla radice delle difficoltà che tutti noi e soprattutto voi incontriamo. Non mi riferisco soltanto all’Italia ma a tutta l’Europa, che si è come seduta su se stessa, trincerandosi dietro all’idea di un modello di società iperprotetta e ipersicura, che ha però fiaccato lo spirito di apertura, il dinamismo intellettuale, la voglia di confrontarsi col nuovo, di crescere e di sviluppare.
Questo indebolimento mi pare testimoniato con grande chiarezza proprio dalla crisi del mercato del lavoro: i 18 e più milioni di disoccupati in Europa non possono non essere il segnale drammatico di un sistema che non funziona, incapace di corrispondere al più elementare dovere di una società civile. Solo 20 anni fa, il tasso di disoccupazione europeo era la metà di quello degli Stati Uniti e questo tasso non arrivava al 5%: in 20 anni, siamo stati capaci di lapidare uno straordinario patrimonio, ovvero il dinamismo in termini di capacità di creare lavoro della macchina economica europea. Quel che è aumentato è un dinamismo di altro tipo: l’aumento della spesa pubblica, la cui incidenza sul prodotto interno lordo è salita da meno del 40% degli anni ’60 a molto più del 50% negli anni ’90. Cosa è avvenuto?
Abbiamo delegato allo Stato e sottratto al mercato il compito di spingere la crescita economica; abbiamo convogliato sui consumi risorse che potevano e che soprattutto dovevano essere convogliate sugli investimenti; abbiamo costruito tante reti di protezione per il breve periodo trascurando di mettere in piedi l’unica vera rete di protezione sul lungo periodo, la capacità di svilupparsi, ovvero di creare posti di lavoro. E il danno non è stato solo economico, ma anche sociale, in virtù di un mercato del lavoro sempre più rigido. Abbiamo creato due mondi: quello degli inclusi e quello degli esclusi. Il primo è apparentemente sicuro, mentre il secondo è lontano da una prospettiva di occupazione. C’è poi anche il danno culturale dovuto alla mentalità per la quale tutto è assicurato o si vorrebbe fosse assicurato, la mentalità del "tutto mi è dovuto": responsabilità, merito, impegno, hanno ceduto il posto a deresponsabilizzazione, appiattimento e immobilismo, difesa dei privilegi.
Questo è il meccanismo che ha ostacolato la creatività del nostro sistema e di cui non possiamo non renderci responsabili: è un meccanismo che ha spento il coraggio di sperimentare, di percorrere strade nuove, di evolversi in sintonia con l’evoluzione del resto del mondo. Il resto del mondo infatti non è rimasto fermo, non solo gli Stati Uniti (che, pur essendo spesso considerati in decadenza, continuano invece ad essere dei motori fondamentali della crescita economica, e uno straordinario serbatoio di possibilità di occupazione), ma anche le sempre più numerose economie emergenti, ad esempio i paesi dell’est asiatico, paesi che hanno saputo investire nell’unica vera forza di cui dispongono cioè l’uomo. Infatti in questi paesi c’è stata una forte crescita dei livelli di istruzione e in appena 30 anni si sono trasformati in veri e propri paesi industriali ad occupazione sempre più ampia. Sul totale della forza lavoro, l’occupazione è salita da poco più del 5% al 25% nella Corea del Sud, dal 15% ad oltre il 30% a Taiwan, e così pure a Singapore; per non parlare della Cina che ormai tutti creditiamo come la più grande economia del globo intorno al 2020. Certo questi paesi hanno formato società di cui non possiamo dire che abbia una cittadinanza radicata quello che nella nostra riteniamo un valore cardine e costitutivo di una comunità: la democrazia politica e la solidarietà intesa come coesione sociale.
Su questo tema della solidarietà spesso si generano fraintendimenti e altrettanto spesso interpretazioni strumentali. Le conquiste sociali e di civiltà che l’Europa ha fatto nel corso degli anni costituiscono un patrimonio importante; la solidarietà e l’equità sono dei valori radicati, nella nostra storia e nella nostra cultura. Essi non solo definiscono la nostra identità, ma fungono anche da decisivo fattore di coesione sociale, e se davvero li vogliamo salvaguardare, dobbiamo metterli a servizio dello sviluppo. Dobbiamo innanzitutto rifuggire dalla contrapposizione che si è venuta creando – spesso in maniera ideologica – tra l’approccio chiamato solidaristico e l’altro che viene invece chiamato di mercato. La solidarietà è un fine che tutto il sistema si deve dare per realizzare una società per quanto possibile equilibrata e compatta. E allora, davvero è una vera manifestazione di solidarietà fra generazioni la difesa di sistemi pensionistici che caricano oneri insostenibili sui nostri figli e sui nostri nipoti? Davvero è solidarietà la distruzione attraverso le spese correnti dello Stato di una parte rilevante di risparmio che invece andrebbe destinato agli investimenti produttivi e alla realizzazione di infrastrutture che sono l’unico modo per creare nuovi posti di lavoro?
Lo stesso discorso va fatto anche in una prospettiva più ampia. La globalizzazione è ormai l’orizzonte obbligato per la crescita dell’economia occidentale, ed è anche l’occasione per fare accedere all’area del benessere molti nuovi paesi che finora ne erano rimasti fuori: senza la globalizzazione, senza l’apertura dei mercati e l’integrazione dei sistemi produttivi su scala mondiale né l’est asiatico né l’America Latina potrebbero aver raggiunto gli attuali tassi di sviluppo. Per questo mi pare che ci sia una seria contraddizione fra le critiche che da più parti si fanno alla globalizzazione, e la volontà di affermare un concetto di solidarietà a livello internazionale. La solidarietà consiste anzitutto nel dare a tutti la possibilità di partecipare alle moderne economie di mercato, quindi allo sviluppo; inoltre, davvero è così selvaggia l’economia di mercato quando chiede o impone a ciascuno di essere più efficiente nel proprio lavoro? È così selvaggio il mercato quando chiede più flessibilità e mobilità al lavoro se flessibilità e mobilità sono anche favoriti dagli opportuni sostegni formativi e da adeguati ammortizzatori e soprattutto se la flessibilità consente di creare nuovi posti di lavoro?
Il mercato è una costruzione sociale complessa, il cui funzionamento si basa non sull’assenza ma sulla presenza e sul rispetto di regole. Purtroppo ogni volta che si parla di regole c’è qualcuno in Italia che rispolvera una vecchia polemica, quella sui cosiddetti poteri forti – e io sono uno dei rappresentanti di questi presunti poteri forti –, sulla chiusura oligarchica del nostro capitalismo, sulla sua presunta connivenza con lo statalismo, che sarebbe la vera causa di degenerazioni del sistema italiano e sulla sua mancata liberalizzazione. Chi dà voce a questa polemica, quando non si tratta di quella pura tattica politica per cui ci si scarica delle proprie responsabilità, si colloca di norma proprio come fautore dello statalismo: sono quelli che a parole invocano il mercato, ma che poi non vogliono le privatizzazioni, coloro che nel nome dell’equità sociale tendono a perpetuare un potere costruito sulla burocrazia e sul controllo di impresa, e che forniscono servizi inefficienti e costosi per la collettività. Certo in Italia esistono poche, troppo poche, grandi imprese industriali e finanziarie private, ma questo non per interesse del grande capitale privato. Infatti in un’epoca di mercati aperti e pienamente concorrenziali è proprio il grande capitale privato che, se vuole puntare su un’adeguata remunerazione, non può che perseguire l’obiettivo della crescente competitività dei suoi impieghi, dell’acquisizione di profitto e quindi dell’impiego del profitto per lo sviluppo e per la creazione di posti di lavoro. E la competitività di una impresa è quella che si vede dal suo interno, dai suoi investimenti e dalla sua organizzazione, dalla qualità dei suoi uomini, ma è anche quella che si può ottenere dalle sinergie di quello che comunemente si chiama il sistema paese. Non ci può essere competitività intorno a noi se non ci sono altre imprese forti ed efficienti che investono grandi risorse ed innovazioni, se non c’è un mondo finanziario efficientemente robusto, se non c’è molta ricerca, se non c’è una rete di infrastrutture moderne e se non c’è una scuola all’altezza dei compiti nuovi della formazione.
Lo Stato ha invaso il campo della gestione diretta dell’economia: se è stata l’abnorme presenza dello Stato a distruggere l’area del libero mercato, è solo dall’allargamento di quest’area che possiamo aspettarci di dare al tempo stesso più forza e maggiore articolazione al nostro sistema capitalista. Tra Stato e libero mercato oggi sta prendendo sempre più rilievo in tutti i paesi occidentali il dibattito sul ruolo, la disciplina e le leggi riguardanti le organizzazioni senza fini di lucro, il cosiddetto terzo settore, che secondo il risultato di un recente censimento, conterebbe in Italia 21.000 associazioni di volontariato e di attività non-profit. Questo settore è soprattutto la risposta ad un bisogno nato dalla crisi dello Stato sociale, da un vuoto di servizi aggravatosi negli ultimi decenni proprio per le crescenti difficoltà della finanza pubblica che stanno imponendo una riforma radicale del vecchio welfare state nato dalla cultura assistenziale. Già de Tocqueville spiegava che negli Stati Uniti quando nasce un problema pubblico, immediatamente si costituisce un’associazione o un comitato per mobilitare la popolazione al fine di risolvere questo problema; in Italia invece quando nasce un problema pubblico si pensa che debba essere risolto dallo Stato. Fortunatamente questo atteggiamento sta oramai scomparendo: forse è eccessivo l’ottimismo di quanti pensano che il terzo settore possa rappresentare la soluzione di tutti i nostri problemi, ma è importante che le attività non-profit ottengano gli strumenti legislativi, fiscali, organizzativi e professionali necessari ad uno sviluppo che potrà sicuramente risolvere molte sacche di inefficienza del nostro sistema e fornire anche un positivo contributo alla grave crisi dell’occupazione. Nella primavera scorsa, come Fondazione Agnelli, abbiamo fatto un convegno proprio sul problema del volontariato, sul quale vogliamo tornare, anche per aiutare questa forma moderna, così vivace e così nobile da un punto di vista etico, a potersi sviluppare sempre di più.
Il mercato – vorrei tornare su questo punto – è per sua natura uno dei luoghi privilegiati di ricerca e di costruttività, un luogo che stimola le parti migliori di noi stessi, stimola l’intelligenza, stimola la capacità di soddisfare i bisogni umani, stimola la laboriosità, stimola il coraggio nel prendere decisioni, stimola anche la prudenza, stimola la capacità di rischiare, stimola l’affidabilità nelle relazioni reciproche e soprattutto il rispetto della parola data. Ogni volta che si parla di mercato qui in Italia, condizionati da stereotipi ottocenteschi, tutte queste cose si tende a dimenticarle: della competizione si ha una concezione darwiniana, dimenticando il vero significato etimologico del termine. Competizione significa "cercare, dirigersi verso qualcuno o qualcosa", dunque incontrarsi.
Come dice Novak in un suo recente libro, Gli affari come vocazione, il mondo degli affari si regge non solo sulla legge ma sul sistema morale, che in quanto tale è basato sul libero arbitrio: gli uomini che vi operano possono agire bene o male, questa è una loro scelta, ma ci sono tre virtù cardinali senza le quali il mondo degli affari non può esistere e sono la creatività, la costruzione di una comunità, il realismo. Voglio soffermarmi sulle due prime virtù, perché sono quelle che noi vediamo in atto ogni giorno nelle imprese che liberamente competono con correttezza sul mercato.
Una impresa non nasce e non sopravvive se non ci sono a sostenerla una idea e una continua innovazione. Se l’idea può essere – ed in genere è – di uno solo, dell’imprenditore, l’innovazione è il frutto del lavoro intelligente di tante persone, della loro capacità di contribuire a prevedere i bisogni e la migliore combinazione dei fattori produttivi per soddisfarli. Questa capacità nell’impresa moderna è richiesta a tutti, al manager come agli impiegati e agli operai, a ciascuno secondo le sue competenze, la sua professionalità, il suo ruolo. Un’azienda che non sa valorizzare il massimo della creatività delle sue risorse umane è destinata al fallimento. Per valorizzare queste capacità occorre che l’impresa si costruisca come comunità fortemente partecipativa rispetto ai risultati aziendali: in questa maniera il profitto è la misura della capacità di essere creativi, di creare un’ampia comunità di uomini che tendono ad un medesimo obiettivo, quello di soddisfare le proprie e altrui aspettative di benessere. Le numerose ingiustizie, le sacche di povertà, le esclusioni che ancora permangono dentro la nostra società e nel mondo, sono molto meno diffuse dove l’economia di mercato si è radicata. Lo stesso vale per le differenze sociali: in questo aveva in qualche modo visto giusto Gramsci, quando paventava che alla lunga il capitalismo avrebbe fatto del proletariato una vera borghesia.
Parlando poi di benessere non possiamo trascurarne gli aspetti immateriali, più legati alla cultura: da sempre l’impresa rappresenta un momento di coagulo del sapere e dei valori di una determinata collettività. I distretti industriali italiani che tanti all’estero ci invidiano sono nati perché ciascuno di essi ha capitalizzato sulle proprie capacità di conoscenza e di organizzazione sociale, di mentalità e di identità, insomma di cultura nel senso più ampio del termine. Ma è anche vero che le imprese si nutrono della cultura circostante, sono esse stesse produttrici di culture e di valori che si travasano nella compagine sociale. La cultura tecnologica, la cultura scientifica, la cultura manageriale, la cultura organizzativa... sono culture che si collegano strettamente a valori come l’imprenditorialità, la professionalità, l’innovazione, il merito, l’iniziativa individuale, e sedimentando non fertilizzano solo l’impresa ma tutta la collettività. Questa osmosi reciproca è una grande ricchezza, una ricchezza che tende ad aumentare quanto più vivace e intensa è la dialettica e quindi la propensione di imprese e società al cambiamento e all’avanzamento.
La sfida che ci attende è molto semplice: dobbiamo sbloccare la capacità del nostro sistema di muoversi e di adattarsi all’evoluzione delle esigenze, non illudiamoci di poter creare nuove opportunità di sviluppo e di benessere e nuovi posti di lavoro se ci ostiniamo a mantenere il sistema congelato negli schemi entro i quali la società italiana e europea si è mossa negli ultimi decenni. Non facciamoci neppure prendere da irragionevoli paure: quello che abbiamo costruito finora non è affatto il mondo migliore possibile, oltre il quale c’è il buio dell’insicurezza, della provvisorietà e dell’ingiustizia. Insicurezza, provvisorietà e ingiustizia sono destinate ad aumentare quanto più freneremo – frenerete, per voi che ne siete gli artefici – il cambiamento. Il cambiamento è connaturato con la nostra società, ci vuole coraggio e bisogna rischiare. Questa sfida, come gran parte delle cose che vi ho detto, è di carattere generale, ma sono convinto che di tanto in tanto dobbiamo sollevare la testa dai problemi più contingenti e cercare di guardare a un orizzonte più ampio. Certo la situazione dell’economia è più difficile: le sfide del risanamento tremano, il problema del lavoro resta in tutta la sua drammaticità... i problemi del nostro paese sono tanti, e per questo bisogna darsi delle priorità. Non è vero che il problema del debito pubblico italiano va posto al primo punto delle priorità: al primo punto va invece posto il problema della disoccupazione. Io che sono un assertore della necessità di entrare presto e rapidamente in Europa, non esito però ad affermare che se arrivare qualche tempo dopo in Europa ci permettesse di avviare una parziale soluzione del problema della disoccupazione, dovremmo sicuramente aspettare per l’Europa. Il problema del lavoro, della disoccupazione, specialmente nel sud Italia, è il più grande problema che questo paese deve risolvere. Ma per affrontare tutti questi problemi non bastano singoli e specifici collettivi, occorre veramente un profondo cambiamento di mentalità, nel senso di un ritrovato slancio verso il nuovo – è per voi che dico questo! –, verso una maggiore libertà, verso un maggior senso di partecipazione e di responsabilità nei confronti di noi stessi e della collettività in cui viviamo. Qui e non altrove stanno le condizioni per costruire e diffondere uno sviluppo solido e duraturo.
Concludo con l’augurio che possiate avere lo slancio, gli ideali e il coraggio e talvolta la temerità che abbiamo avuto noi dopo la fine della guerra per cercare di risalire la china.