"... Ma su di te risplende il Signore,
la sua gloria appare su di te, cammineranno i popoli alla tua luce..."
(Is 60, 2-3)

Mercoledì 21, ore 16.30

Relatore:
David Rosen
Rabbino di Gerusalemme
Direttore dell’Inter-Religious Affairs,
ADL Israel Office

 

Rosen: Le dichiarazioni vaticane che hanno rivoluzionato le relazioni tra cristiani ed ebrei negli ultimi 31 anni, a cominciare dalla promulgazione del documento Nostra Aetate esortano i cristiani a capire l’ebraismo e gli ebrei come loro capiscono se stessi. L’invito a me rivolto a partecipare a questo incontro e la mia conferenza stessa sono in accordo con quello scopo.

I documenti cattolici suddetti descrivono gli ebrei e i cristiani come uniti da un patrimonio comune o come ha sostenuto Martin Buber: "Condividiamo un libro, il che non è poca cosa!". Tuttavia questo stesso patrimonio comune non è solo ciò che ci unisce, ma anche ciò che ci divide – e uso il tempo presente di proposito. Questo non vuol dire che mi sto riferendo qui al tragico comportamento del passato. Saremo tutti sicuramente d’accordo che la persecuzione e la violenza in nome della religione sono la perversione di quest’ultima. Però uso intenzionalmente il tempo presente per dire che il nostro patrimonio comune – gli stessi libri che condividiamo – non solo ci uniscono, ma anche ci dividono in campo teologico, perché ci sono termini e testi nella nostra Bibbia ebraica comune che molto spesso significano cose differenti per l’ebraismo e per il cristianesimo. Io credo che sia estremamente importane per gli Ebrei e per i Cristiani non solo rispettare i nostri diversi concetti teologici, ma anche capire i modi differenti in cui intendiamo le parole e i testi specifici del "Tanach" che i Cristiani chiamano "Vecchio Testamento". Infatti, mi spingo fino a dire che se non c’è comprensione di ciò che ci divide, allora non saremo veramente insieme in ciò che ci unisce.

Un esempio delle nostre diverse interpretazioni dei testi biblici è il capitolo 53 di Isaia che si riferisce al "servitore sofferente" di Dio. Per i Cristiani questa è un’allusione a Gesù. Ma com’è stato inteso il testo dagli Ebrei al tempo di Isaia? è forse più pertinente come è stato inteso dalla maggioranza degli ebrei che non hanno accettato la fede cristiana in seguito? In altre parole, come intende il testo la tradizione ebraica? Mentre questo testo per i Cristiani si riferisce al nocciolo del loro credo, l’insegnamento tradizionale ebraico di questi capitoli rivela la nostra visione tradizionale della natura e dello scopo della nostra identità che intendo presentare attraverso questa conferenza.

Per noi il Servitore di Dio è lo stesso servitore a cui ci si riferisce nei primi capitoli di Isaia; per esempio nel capitolo 44 è scritto: "Il mio servitore Giacobbe Israele", cioè il popolo ebraico, che attraversa il mistero dell’elezione divina, testimonia il nome di Dio nel mondo. Dice il Signore: "Tu sei il mio testimone, il mio servitore, che io ho scelto" (Is 43). Naturalmente l’alleanza non è solo quella della promessa divina, ma anche racchiude l’aspettativa di Dio che i figli di Israele conducano un modo di vita che dia testimonianza a Lui ed ai suoi attributi di santità, di giustizia e di amore. Invero la capacità di beneficiare pienamente della promessa di Dio, e di vivere sani e salvi nella terra dell’alleanza, la terra santa di Israele, dipende dall’osservanza di questo modo di vita, stabilito nel Pentateuco. Quando manchiamo di fare ciò allora, dice la Bibbia, la terra ti vomiterà. In questo modo abbiamo interpretato le distruzioni del primo e del secondo tempio, e il nostro esilio successivo. Certamente le distruzioni e l’esilio furono dovuti a fattori politici e militari, ma ci è stato insegnato che questi non sarebbero successi se avessimo osservato la parola divina ed il suo cammino, come avremmo dovuto fare. Ancora oggi nella nostra liturgia recitiamo la frase: "A causa dei nostri peccati, fummo esiliati dalla nostra terra". Ci sono stati altri che hanno detto la stessa cosa di noi, benché noi non fossimo assolutamente d’accordo sul carattere dei nostri peccati. Ma soprattutto quello che non condividevamo con loro era l’interpretazione della conseguenza ultima del nostro esilio, perché noi sapevamo che per quanto lunga sarebbe stata la notte, l’alba alla fine sarebbe sorta, poiché noi avevamo completa fiducia nella promessa divina, sancita esplicitamente nel Levitico (cap. 26). Dice Dio: "Perfino quando erano nella terra dei loro nemici, non li ho ripudiati ed esiliati per distruggerli, ma ricorderò la mia promessa fatta ad Abramo, Isacco e Giacobbe, e ricorderò la terra e gliela restituirò".

Invero questa tenacia divina nella quale abbiamo riposto la nostra fede non solo ci ha sostenuto, ma è anche stata vista da noi essere la vera fonte della nostra sopravvivenza. Così mentre non era possibile per noi negare che siamo stati puniti, dissentiamo profondamente con quelli che affermano che la nostra sofferenza nella diaspora come esuli soggetti al capriccio ed al volere di altri era la prova del rigetto e dell’ira divina. Al contrario abbiamo insistito sul fatto che la nostra capacità di sopravvivere all’ostilità ed all’odio verso di noi è potuto essere soltanto la conseguenza dell’amore e della misericordia divina, che ci ha protetto e preservato. D’accordo abbiamo detto che la promessa divina sarà ancora una volta realizzata e a noi sarà consentito di ritornare presso il palcoscenico centrale della storia come una nazione tra le nazioni e di contribuire così al miglioramento dell’umanità. Poiché questa era ed è la nostra convinzione, che la nostra sopravvivenza contro tutte le avversità è di per sè la testimonianza della presenza di Dio, una testimonianza sul mistero dell’avere "posto il suo nome sopra di noi".

Ma perché abbiamo sofferto così tanto? Sì, abbiamo peccato, e come ha detto il profeta Amos, nel nome di Dio, "soltanto te ho conosciuto tra i popoli della terra, per cui ti ho punito". In altre parole, proprio per via della più grande aspettativa di Dio nei nostri confronti, il fallimento è ancora più grave e le sue conseguenze ancora più dure. Però questo non è ancora sufficiente a spiegare l’enormità di tutta la nostra sofferenza, che è sembrata estremamente sproporzionata anche allora ad Isaia a quel tempo. È proprio questa la domanda a cui, per la tradizione ebraica, Isaia dà una risposta nel capitolo 53. Il motivo per cui il servitore di Dio soffre, la ragione per cui Israele è così perseguitato – spiega Isaia – è conseguenza dell’alleanza stessa. Certamente non è il suo scopo, ma è una conseguenza della sua testimonianza della presenza divina nel mondo. Perché se sei scelto per testimoniare – sia che tu lo meriti oppure no, sia che tu vi adempia oppure no –, tutto ciò che nega la presenza divina nel mondo, inevitabilmente ti odierà e ti disprezzerà. Per il male, la stessa presenza di Israele è una ammonizione intollerabile. In accordo con ciò, Israele – dice Isaia – "Riceve la malvagità dagli altri" e "porta i loro peccati", non come un’espiazione per conto di terzi, ma come una testimonianza del contrario della mancanza di Dio e del male che sputa il suo veleno e la sua ostilità contro "il servitore di Dio", perché trova la sua stessa presenza intollerabile. Così, dice Isaia, il servo sofferente porta la loro iniquità ed è ferito dalle loro trasgressioni a causa delle loro malvagità. Secondo questa interpretazione di Isaia, le persecuzioni storiche contro gli Ebrei, e soprattutto l’ossessione demoniaca dei nazisti, che porterà fino al punto di compromettere i loro sforzi bellici per assicurare il proseguimento dello sterminio fino all’ultimo, non erano un mistero. Il nazismo è stato la quintessenza della negazione di Dio e del cammino divino, e così è stato inevitabile che vedesse gli ebrei come suo nemico implacabile.

In questo modo abbiamo visto l’antisemitismo, non solo come un altro pregiudizio sociale, ma come un’ostilità nei confronti della stessa fonte della nostra esistenza e ragione di essere – Dio stesso.

En passant, si potrebbe anche notare ciò che è stato affermato da certi teologi cristiani, che lo stesso attacco contro gli Ebrei, è in realtà anche un attacco contro la fondazione morale del cristianesimo stesso. (È interessante ed importante notare che il Papa ha detto che l’antisemitismo è peccato contro Dio e contro l’umanità.) Ma come ho detto, lo scopo dell’alleanza – lo scopo di Israele –, non è soffrire, anche se ciò è stato troppo spesso una conseguenza. Lo scopo di Israele è quello di guidare il mondo, e particolarmente i peccatori, verso il nostro Padre in cielo, ed illuminare il cammino dei suoi attributi che siamo chiamati ad emulare.

In questo modo Israele deve servire da faro, che funziona idealmente quando osserva i comandamenti di Dio, che ci rendono, come è scritto nell’Esodo al capitolo 19, "Un regno di sacerdoti ed un popolo santo". Come ha sostenuto Isaia, "cammineranno i popoli alla tua luce" (60,3). Per aggiunta, come ho detto, la storia stessa di Israele, la nostra sopravvivenza, il costante rinnovarsi in condizioni che sfidano tutte le categorie materiali ed ideologiche e specialmente la riunione stessa dei nostri esiliati dell’epoca attuale ed il ristabilimento ancora una volta della nostra vitalità nazionale nella terra di Israele, testimoniano la presenza divina nella storia umana. La nostra tradizione religiosa vede la stessa raison d’etre della nostra esistenza eterna, semplicemente come un indicatore di quella presenza.

Mentre di conseguenza il fine ultimo dell’alleanza è universale, i suoi precetti particolari derivano sostanzialmente da una cultura ed esperienza storica particolare. Per esempio, la festa della Pasqua celebra il valore universale della dignità e della libertà umana. Ma la celebrazione di ciò attraverso il mangiare erbe amare e pane non lievitato, che ricordano la schiavitù in Egitto e la redenzione divine degli antichi israeliti da tale schiavitù, sono forme rituali derivate dalla storia di un popolo particolare. Non è necessario (né moralmente giusto) aspettarsi che per celebrare il valore universale della dignità e della libertà umana, coloro che non fanno parte di questo popolo e della sua cultura e storia debbano mangiare pane non lievitato ed erbe amare, per ricordare i nostri antenati liberatisi dalla schiavitù tremila e cinquecento anni fa. Devono essere capaci di festeggiare questo ideale universale attraverso la loro propria memoria storica e cultura.

Invero perfino l’epoca messianica non è vista dai profeti come un tema in cui le identità nazionali e culturali non esistono più. Per esempio dice Isaia: "La casa di Dio sarà costruita in cima alla montagna e tutte le nazioni fluiranno verso di essa" (2,2). E prosegue: "Nessuna nazione alzerà la spada contro un’altra nazione" (2,4). Ma mentre le forme culturali nazionali dell’espressione spirituale possono differire, l’Ebraismo anticipa una coscienza universale della presenza divina e dei suoi fondamentali imperativi morali, in accordo con le parole di Zaccaria: "In quel giorno il Signore sarà uno ed il suo nome sarà uno" (14,9).

Ciò che si aspetta l’Ebraismo dal resto dell’umanità non è il conformarsi a rituali particolari dell’osservanza ebraica, ma piuttosto il condividere le verità fondamentali che l’ebraismo afferma, tuttavia queste forme rituali sono state designate apposta per inculcare la coscienza della presenza divina nella vita quotidiana dell’ebreo osservante. Come hanno detto i nostri antichi saggi, se ti alzi al mattino e vedi il sole sorgere e vai a letto alla sera dopo il tramonto senza dare una benedizione, hai denigrato la tua vita.

Nella pratica ebraica le benedizioni per ringraziare Dio per la sua Provvidenza sono una componente continua della vita quotidiana, per esempio le benedizioni sono fatte prima di mangiare o bere qualche cosa. Nella tradizione ebraica una benedizione è espressione della coscienza e della gratitudine. Quindi i nostri saggi ci dicono nell’affermazione di cui sopra, che colui che abita fra la meraviglia e la bellezza della creazione, ma la dà per scontata e non è in tutto conscio della presenza divina intorno a noi, potrebbe anche non essere qui. Una persona così non è veramente viva, perché essere veramente vivi significa vedere la luce e la bellezza di Dio nel mondo.

Lo scopo, quindi, di tutte le osservanze dell’ebraismo è semplicemente quello di infondere la consapevolezza di Dio in tutte le dimensioni della nostra vita: in come mangiamo ed in come beviamo, in come lavoriamo ed in come ci riposiamo, in come festeggiamo ed in come espiamo; ed in come in particolare ci comportiamo con gli altri, i nostri genitori, insegnanti e tutti i nostri vicini, specialmente i deboli, cioè per esempio il povero, l’orfano, la vedova, l’anziano, lo straniero.

La nostra fede insegna che un tal modo di vita è la chiamata della nostra elezione e che le sue verità etiche e religiose, insieme allo stesso mistero della nostra storia, testimoniano la presenza divina ed il suo cammino, così che tutti possano vedere e seguire la luce della sua gloria.

Tutti quelli che condividono questa visione sono nostri soci per portare il regno dei cieli in terra.

Quindi preghiamo e anticipiamo quel giorno, quando, secondo le parole di Isaia, "La terra sarà piena della saggezza del Signore, come le acque ricoprono il mare" (11,9).