Le chiese rupestri di Matera

Domenica 22, ore 15

Relatori:

Marco Rossi

Cosimo Damiano Fonseca

Marco Rossi, docente di Storia dell’Arte all’Università Cattolica di Milano

Rossi: Alessandro Rovetta ed io abbiamo accettato questo invito del Meeting a curare una mostra sulle Chiese rupestri di Matera circoscrivendo il fenomeno rupestre, che occupa molta parte dell’Italia Meridionale, soprattutto perché visitando queste Chiese che solo nel circondario di Matera sono oltre 150, ci siamo resi conto di come il fatto cristiano sia stato capace di generare una città. La presenza di insediamenti religiosi di vario tipo (monastico, eremitico o insediamenti religiosi di tipo tradizionale legati al popolo) è stata capace di contribuire oltre che alla presenza episcopale, alla generazione di una città che ha conservato nel tempo questa connotazione particolare.

L’avvenimento di un incontro estremamente semplice, tra persone completamente dedite alla vita religiosa e il popolo dedito al proprio lavoro, ha potuto generare un fenomeno di intensità straordinaria.

Abbiamo riscontrato citazioni molto scarse di Santi presenti in questo ambito delle civiltà rupestri, mentre da quello che ci mostrano le realizzazioni artistiche, è inspiegabile che accanto a un’espressione di vita così ricca a livello artistico non ci sia stata una espressività altrettanto ricca a livello religioso: per questo formulo qui una domanda al prof. Fonseca a cui volevo chiedere se è documentata o è documentabile una presenza propria di Santi o di personalità particolarmente significative dal punto di vista religioso.

Essendo noi storici dell’arte, ci siamo occupati soprattutto della questione storico-artistica, quindi della decorazione delle Chiese Rupestri. Quella che apparentemente può apparire una cultura periferica, non lo è affatto: gli affreschi riprodotti nella mostra, risalenti al XII, XIII, XIV secolo non compaiono nelle storie dell’arte tradizionale, che è ancora succube di un’impostazione idealistica che non ha permesso finora di sviluppare anche fenomeni apparentemente di confine, che invece sono un aiuto straordinario per capire meglio le stesse culture primarie.

Cosimo Damiano Fonseca, rettore dell’Università della Basilicata

Fonseca: Trent’anni fa sarebbe stato impensabile che una mostra di questo tipo potesse essere inserita all’interno di un evento di così grandi proporzioni, perché nell’organizzazione degli organismi di tutela dei beni culturali, per l’imperante presenza di determinate correnti culturali, a questo fenomeno o a fenomeni similari non veniva dato alcun rilievo di carattere storico, perché le sovraintendenze alle antichità concentravano la loro attenzione e la loro tutela solo alle manifestazioni storico-artistiche, archeologiche o pittoriche che terminavano col settimo e ottavo secolo. Le Sovrintendenze alle Belle Arti, invece, erano interessate solo dalla cosiddetta arte italiana, cioè con i secoli XIII e XIV sicché tra l’VIII e il XIII sec. c’era una sorta di terra di nessuno.

Quando trent’anni fa circa iniziammo a far conoscere all’opinione pubblica nazionale degli studiosi il fenomeno rupestre, lo spazio era estremamente limitato. Vi fu grande meraviglia quando, nel 1962, al passo della Meldola, in occasione della II settimana internazionale di studi medievali organizzata dall’Università Cattolica e dedicata all’eremitismo in Occidente nei sec. XI e XII, per la prima volta ci fu una relazione sugli aspetti archeologici dell’eremitismo del Mezzogiorno e una prima proposta di una carta archeologica degli insediamenti rupestri. Questo essere entrati in maniera modesta e rispettosa, valse a coloro che credevano in maniera sicura che si trattava di una pagina molto importante della civiltà e della cultura dell’ecumene mediterraneo, una carta di credito di indubbia udienza. Fu così che dal 1971 con una scansione biennale iniziarono alcuni studi dedicati alla civiltà rupestre meridionale d’Italia, vista non solo nelle componenti interne ma anche in rapporto a quelle che storiograficamente sono chiamate le aree omogenee, cioè la Cappadocia, la Serbia, la Sicilia, fino addirittura alle manifestazioni rupestri che si possono leggere nel Caucaso con l’episodio di Marzia nella Renania.

Così avvenne una prima fondamentale annotazione: il fenomeno non era solo circoscrivibile al Mezzogiorno d’Italia, ma faceva parte di una realtà molto più ampia che interessava l’intera ecumene mediterranea.

La seconda acquisizione nacque dalla domanda sui rapporti tra i fenomeni che si erano espressi in altre aree del Mediterraneo a cominciare dalla Cappadocia. Il fenomeno si manifestò in tutta la sua imponenza. C’era un rapporto di derivazione di un fenomeno dall’altro o l’esplosione contemporanea in aree diverse di questo fenomeno era casuale? In realtà la ricerca ha dimostrato che l’elemento di unità è costituito dell’impero di Bisanzio, e opera in aree estremamente differenti da quelle caucasiche anatoliche fino alle provincie limitrofe dell’impero nel Mezzogiorno bizantino.

Quindi, non c’è un fenomeno di derivazione, come una parte della storiografia aveva sostenuto, dalla Cappadocia all’Italia meridionale, ma l’elemento unitario sul piano culturale era l’impero bizantino e il modo in cui esso forgiò nelle diverse aree tipi di cultura, di civiltà, di modi di essere che in larghissima misura si confrontavano nel rapporto dell’uomo con il sacro e con le manifestazioni che ne derivavano sul piano archittettonico e pittorico.

Fatta questa premessa, vorrei ora scendere nei dettagli del fenomeno rupestre. Anzitutto, è impensabile poter studiare il fenomeno di queste grotte di grande dignità architettonica e pittorica decontestualizzandole dall’habitat in cui esse sono collocate. Non si capisce assolutamente l’esistenza della chiesa rupestre senza che contemporaneamente non si studino i modi di organizzazione della società, il farsi di una comunità intorno a queste chiese che utilizzavano secondo i moduli mentali e la cultura del tempo invasi sacrali, per rispondere alle loro primarie esigenze del rapporto dell’uomo col sacro.

Come mai invece si è proceduto proprio a questa divaricazione tra chiesa rupestre e habitat rupestre? Questo è avvenuto in rapporto a due particolari fenomeni: un tipo di cultura che ha misurato le capacità espressive di questi affreschi nell’ambito della storia dell’arte ed ha subito parlato di arte povera e quello delle interferenze nazionaliste che, alla fine dell’ottocento si riduceva soltanto nel vedere quanto di bizantino e quanto di indigeno vi era in questi affreschi, per dimostrare che è un fenomeno di arte. Per via di questi due fattori le chiese rupestri sono state scorporate dal fenomeno più ampio dell’habitat, e ridotte soltanto a piccoli esempi che potevano destare quella immaginazione e motivazione della sensibilità individuali da farli considerare opera d’arte.

La frattura è intervenuta alla fine dell’800, con una divaricazione fondamentale tra la massima espressione del rapporto fra l’uomo e il sacro costituito dalla chiesa rupestre – e l’habitat circostante in cui le comunità esercitavano la loro vita abituale quotidiana comune anche se in modo rudimentale. Occorreva recuperare l’habitat alla chiesa rupestre e studiare i moduli mentali degli albergatori delle grotte che di fronte agli affreschi esprimevano in maniera compiuta il loro rapporto con Dio e con i santi. Da qui, il fenomeno del corredo cattolico e quello della organizzazione spaziale dell’invaso sacrale. Prendiamo ad esempio il problema architettonico: si trattava di togliere, di scavare e di riproporre all’interno della chiesa rupestre determinate forme architettoniche. Troviamo chiese monoabsidate che hanno un andamento con due o tre navate, altre infine a croce greca inscritte esattamente secondo i modelli bizantini. All’interno delle chiese rupestri, si realizza l’incontro tra stilemi architettonici di varia provenienza – fondamentalmente bizantini – ed elementi sempre più complessi, fino addiritura a elementi basilicati che hanno fatto parlare, impropriamente, di architettura benedettina o più propriamente di architettura romanica.

L’architettura rupestre si inserisce in una temperie culturale che rende simili coloro che costruivano chiese a coloro che le scavavano, rientrando nella ecumene bizantina. Nel momento in cui Bisanzio tenta una grecizzazione dell’Italia meridionale, introduce la liturgia greca, ed esigendo che la provincia limitrofa dell’impero bizantino risponda ai canoni mentali di Bisanzio, crea luoghi di culto che ripetono gli stilemi colti della presenza bizantina nell’Italia meridionale.

Se ci spostiamo dall’ambito architettonico all’ambito pittorico, troviamo esattamente una serie di problemi che vale la pena affrontare, a cominciare da quanto Rossi chiedeva sul problema dei santi. Gli affreschi sono sintetizzati attorno ad alcuni nuclei essenziali. Possiamo chiamare il primo nucleo: i santi. Non sono pochi e di devozione occidentale: si tratta di quei santi che appartengono in larga misura alla tradizione della chiesa di Occidente (il ciclo degli apostoli Pietro e Paolo, San Giacomo e così via). Accanto a questi troviamo San Lorenzo, che è un santo di tradizione tipicamente occidentale. Poi, compare una tradizione di santi legati in modo particolare al Sinassario Costantinopolitano.

Ci sono altri momenti forti del rapporto tra Oriente e Occidente: per esempio, c’è un affresco del XIII sec. che ripropone in dittico San Leone Magno e Sant’Elena, un altro dove c’è San Leone Magno e l’imperatore bizantino, un terzo quello che più mi interessa con San Leone Magno e San Pietro. Se si considerano questi affreschi nella temperie dei rapporti tra l’Oriente e l’Occidente essi ci documentano una ricomposizione, dopo lotte teologiche molto dure tra Oriente e Occidente: il dittico di San Leone e San Pietro raffigura l’espressione che troviamo negli atti del concilio di Calcedonia del V secolo: Petrus locutus est per Leonem. In un’altra chiesa rupestre è raffigurato Urbano V; se si considera con attenzione la presenza di Urbano V, si conclude che è il periodo in cui si realizza un altro accordo con le chiese d’Oriente, dopo lo scisma di Fozio e quello di Michele Cerulario, patriarchi ambedue di Costantinopoli.

Il quarto filone di rappresentazione di santi è collegato ad una società locale, di carattere agricolo, con bisogni essenziali.

L’Oriente è presente ancora di più in quelli che sono gli elementi essenziali dal punto di vista liturgico. Da questo punto di vista, assume carattere primario la parte più sacra dell’invaso destinata al culto, cioè l’abside. Nell’abside delle chiese rupestri, come nelle chiese d’Oriente (per esempio, ad Ocrida, o addirittura alla Ghia Sofia di Costantinopoli) è rappresentato il Pantocratore e la Deesis, cioè Gesù Cristo in trono, seduto su una poltrona imperiale, vestito con oro bizantino, che regge un libro in mano in cui è scritto: "Io sono la via, la verità e la vita". Accanto, l’immmagine della Vergine e poi quella del Battista in adorazione del Cristo Pantocratore. Un altro elemento orientale è il dodecaortoni, ovvero le dodici celebrazioni dell’anno liturgico bizantino, che va dalla Annunciazione dell’angelo a Maria, fino alla Assunzione della Vergine.

Il bersaglio religioso, spirituale, liturgico, permane nell’Italia meridionale anche quando i Bizantini nel 1070, sconfitti dai Normanni di Roberto il Guiscardo, abbandonano l’Italia meridionale. Bisanzio permane dopo Bisanzio, fino al XV sec.

Di fronte ad un fenomeno che tanti anni fa veniva considerato marginale rispetto alle grandi correnti dell’arte italiana, il recupero di questi affreschi, di queste manifestazioni storico artistiche dell’ambito rupestre ripropone ancora una volta quella continuità di cultura e di civiltà di cui il Mezzogiorno fu crocevia, tra Oriente ed Occidente, tra ecumene mediterranea e destino europeo.