EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE
Kosovo: per chi vuole una convivenza
Giovedì 26, ore 15.00
Relatori:
Ibraim Rugova,
Leader moderato kosovaro
Milan Komnenic,
Vice Presidente del Partito Rinnovamento Serbo
Ghergij Lush,
Prete Cattolico che opera nel Kosovo
Marco Minniti,
Sottosegretario di Stato alla Presidenza dei Consiglio dei Ministri
Moderatore:
Giorgio Vittadini
Vittadini:
Non potevamo non desiderare, in questo Meeting di affrontare un tema che ci ha trovato coinvolti in termini umanitari ma anche in termini ideali: la situazione grave che si è creata nei Balcani. La nostra posizione è stata chiara dall’inizio: noi siamo stati contro la guerra del Kosovo, come fummo contro la guerra dell’Iraq, perché pensiamo che la guerra non sia il modo con cui si risolvono i problemi. Questo ha una conferma ancora maggiore oggi, dopo che abbiamo visto bombardamenti e distruzioni, pulizie etniche e emigrazioni di popoli, stragi e fosse comuni.Toccati particolarmente dalla vicinanza geografica, culturale, del fenomeno delle emigrazioni forzate, ciò chiediamo anzitutto se e come sarà possibile una convivenza civile tra diverse etnie nei Balcani; se la guerra sia l’unico metodo di risoluzione dei problemi, dopo la caduta del muro, o se invece sia ancora possibile una convivenza tra religioni diverse nell’area del Mediterraneo; infine, ci chiediamo quale è il ruolo che possiamo giocare per la pace e lo sviluppo. Potremmo sintetizzare queste mille domande in tre. La prima è molto semplice: in che situazione ci si trova nei Balcani? La seconda: quali sono i suggerimenti per una ripresa di una convivenza civile e duratura nell’aria dei Balcani? La terza infine: quale può essere il ruolo dell’Italia e dell’Europa?
Rugova: Il Meeting durante i suoi vent’anni ha contribuito in modo rilevante alla soluzione delle varie questioni e dei problemi che hanno afflitto i popoli dell’intero pianeta.
Il lavoro in Kosovo non manca ma oggi ho voluto essere presente anzitutto per dire che il Kosovo è libero, che il popolo è ritornato. Ovviamente questo richiede tempo: grazie a Dio, grazie all’Alleanza, grazie all’Italia, grazie agli Stati Uniti, grazie all’intera Europa, il miracolo si è concretizzato per il Kosovo. Adesso lavoriamo alla ricostruzione del paese, per una ricostruzione democratica, politica sociale ed economica. Tutte le forze politiche kosovaro-albanesi e kosovaro serbe partecipano completamente a questo sforzo, come anche altri gruppi etnici. Speriamo di gettare le basi per avere una buona convivenza, per vivere tutti assieme. Attualmente, i serbi non lasciano più il paese in massa. C’è maggiore sicurezza per tutti; inoltre, cominciano ad insediarsi in Kosovo anche le varie polizie internazionali, e ben presto avremmo la polizia del Kosovo, che ha cominciato a lavorare proprio grazie al contributo della Key Four.
Ina questa situazione intermedia che ci attende, ci adopereremo per costruire le varie istanze ed istituzioni democratiche. La soluzione del Kosovo indipendente renderà più tranquilla, più serena tutta la parte Sud-Est dell’Europa. L’Albania, il Monte Negro, la Macedonia e la Serbia ne trarranno profitto per una maggiore tranquillità; spero che il Kosovo grazie al vostro aiuto costituirà un esempio per la soluzione pacifica e politica dei vari problemi. È un test, è una prova per tutti i kosovari e per il proprio futuro, sfruttando questa grande possibilità che oggi ci viene offerta dalla comunità internazionale
Bisogna cooperare, integrarsi direttamente in Europa. Bisogna che questo venga capito da tutti noi. Spero che dopo il conflitto del Kosovo questo venga rapidamente capito da tutti. Per il Kosovo, per la nostra regione si apre una nuova era grazie al vostro aiuto: di questo tengo sinceramente a ringraziarvi.
Komnenic: Nella tragedia del mio paese, ho lasciato la letteratura, che era il campo in cui lavoravo: ho tradotto 35 poeti italiani, oltre a numerosi filosofi, scrittori e preti, e mi preoccupo della tragedia dei popoli nei Balcani, non solamente del popolo serbo ma di tutti i popoli della ex-Jugoslavia.
Avevamo un paese magnifico, meraviglioso: si chiamava Jugoslavia. Adesso nei Balcani abbiamo un deserto sanguinante, con le confusioni terribili politiche, economiche ed etniche, con la violenza, con i morti, con la paura, con un dolore dantesco. Bisogna domandare perdono a tutti gli innocenti ma anche accusare coloro che durante e dopo la guerra si sono comportati da barbari nella ex-Jugoslavia, nella Serbia, nel Kosovo, nel Montenegro.
Per realizzare questa idea romantica e utopica che compare nel titolo del Meeting di Rimini, "amicizia fra i popoli", vorrei dei re. I popoli non possono essere amici. Gli uomini devono essere amici. Oppure, bisogna realizzare una società aperta, democratica, moderna, europea, dove tutti possano vivere senza le differenze profonde tra i popoli, senza la violenza, senza la morte. Bisogna domandare anche tutti i fattori importanti nel mondo moderno contemporaneo per aiutare tutti nei Balcani, per salvare tutto quello che è possibile salvare: la tradizione spirituale, i valori umani, i principi europei che esistono nei Balcani. Credo che tutti in Europa conoscano la tragedia iugoslava.
Attualmente, la Serbia vive in una confusione politica, economica e umana. Bisogna aiutare l’opposizione nella Serbia per cambiare il regime. Il signor Milosevic deve partire per sempre. Sono stato tre o quattro mesi Ministro nel Governo federale: ho dimissionato, da tanto mi sentivo – per usare un espressione di Albert Camus – "un uomo rivoltato".
Vorrei concludere sottolineando ancora che bisogna domandare perdono per gli innocenti, bisogna sapere che 800.000 albanesi hanno sofferto, che dopo la guerra 200.000 serbi sono fuori casa. Tutti hanno il diritto a vivere liberi. L’Europa deve esser multietnica, la Jugoslavia può esistere solo multietnica. In Serbia esiste il 30% di abitanti che non sono serbi. Bisogna rispettare i diritti umani, i valori umani, i principi della democrazia cristiana europea.
Lush: Essere al confine tra la vita e la morte per 90 giorni, 79 giorni e notti dei bombardamenti della NATO, poi 11 giorni per il ritiro dell’esercito serbo, con la comunità di circa 200 persone che si era creata intorno a me, per me è stata una esperienza unica, la seconda nascita, faticosa e dolorosa, consapevole, piena di rischi, nell’incertezza e nel buio totale. Quando tutto crolla dentro di te, come anche fuori, non ti resta nient’altro che la fede, la preghiera, unico canale con il quale puoi unirti al Signore e tramite Lui anche con gli altri. Allora ho sperimentato cosa vuol dire per giorni e notti stare davanti alla morte, l’inconsistenza della vita, l’inutilità, la nullità della ricchezza della salute, dell’intelligenza, di tutto, vincendo la nudità e la nullità dell’essere umano.
Tutto è cominciato già il 16 marzo, quando le milizie serbe, regolari e paramilitari hanno occupato la mia parrocchia prendendo possesso dei punti strategici e hanno trasformato molte case in caserme. Da allora è cominciata l’evacuazione e l’espulsione massiccia del popolo albanese con il pretesto che scappavano per la paura dei bombardamenti della NATO. Io e le suore della Divina carità della mia parrocchia abbiamo deciso di restare condividendo il poco che c’era, spazi e cibo, paure e speranze con la comunità forzata che si era creata nella canonica intorno a noi. Mi dicevo: se io vado queste persone non avranno più nessuno, saranno perdute (cinque invalidi, molti malati, donne bambini, persone anziane e soprattutto molti poveri). Ho chiesto una luce dal signore e ho avuto una risposta netta, direi quasi una certezza che le cose sarebbero andate bene. Alla mia gente dicevo continuamente così: siamo nelle mani del Signore e non nelle mani dei militari impazziti mandati nel Kosovo a fare piazza pulita. Sono profondamente grato al Signore di avermi dato questa forza. Questa esperienza sicuramente difficile, dura, una vera e propria pazzia per tanta gente, una sfida assurda, un gesto forse poco prudente, forse quasi una provocazione aperta, si è rivelato infine una bella testimonianza di fede e di condivisione. Abbiamo difeso non le mura della Chiesa, della casa parrocchiale o del convento, ma la vita della gente.
Sì, in certi momenti avevo paura ma non più per la mia vita ma per gli altri. Ormai tante volte mi sono visto morto. Avevo oltrepassato il confine della vita e della morte e tornavo a vedere e ad essere con la mia gente. Paura perché tutti gli anni passati a costruire il dialogo, la strategia della non violenza e del perdono sembravano spazzati via. Volevo che questa esperienza, questa angoscia, questa incertezza assoluta, potesse essere una esperienza per un Kosovo libero, pluralista e multietnico. Non avevo più niente da perdere. Ero abbastanza certo che il Signore ci avrebbe aiutato e in qualche modo anche salvato. Spesso pregavo così: "Signore fa cessare la guerra e dona la pace e a tutti. Se non vuoi risparmiare la mia vita io te la offro volentieri ma salva questa gente innocente che si è rifugiata presso di me, o ancora meglio, tramite me presso di Te".
L’esercito serbo dei paramilitari picchiavano fino al sangue le persone anziane, malate, donne, bambini, saccheggiavano e bruciavano le case, ci minacciavano che saremmo bruciati vivi. Si trattava di una pazzia collettiva che è molto difficile spiegare, capire, soprattutto, accettare. Quattro erano le parole d’ordine: uccidere, bruciare, violentare, espellere. Era lo spettacolo dell’odio e della violenza preparato purtroppo da tanti anni.
Oltre a tutte queste difficoltà c’erano anche i bombardamenti della NATO. Le bombe sono cadute vicino al paese, nel paese, e le detonazioni hanno fatto cadere anche le finestre della Chiesa. Ecco un esempio quasi incredibile: il campanile della Chiesa oscillava così tanto che le campane suonassero da sole, senza che nessuno tirasse le corde.
Questa guerra ci ha tolto quasi tutto. Ci è rimasta solo la povertà, la speranza, direi la certezza che il bene vince il male, l’amore vince l’odio, la giustizia vince l’ingiustizia, la vita vince la morte. Nella festa della mia parrocchia di Binga, sant’Antonio di Padova, il 13 giugno, cinque minuti prima della Messa delle ore nove l’esercito serbo era in fila proprio davanti alla nostra Chiesa. Ho sentito sparare, subito sono uscito dalla Chiesa, l’ufficiale serbo appena mi ha visto ha detto all’esercito: "andiamo via, abbiamo disturbato abbastanza il prete cattolico e la sua gente". Poi ha sparato alcuni colpi per aria e sono partiti. Puntualmente alle nove ho iniziato la Messa dicendo al mio popolo così: grazie a Dio l’esercito serbo è partito in pace. Finalmente ci lasciano in pace. Ecco abbiamo visto tutti come il male distrugge se stesso. Anche i serbi, in un giorno, in pochi giorni, purtroppo hanno perso tutto, anche se prima si comportavano da padroni assoluti…
In questi tre mesi ho sofferto tanto con il mio popolo, oggi continuo a soffrire con il popolo serbo che è minacciato, che si sente in difficoltà, che non è sicuro non solo nel Kosovo ma anche in Serbia. Fin quando un uomo o una donna sarà minacciato perché è di una religione, è di una nazione, è di una lingua, è di una cultura, tutti quanti dobbiamo sentirci minacciati. Non bisogna aspettare le tragedie dei popoli ma vigilare su valori fondamentali umani e cristiani che sono un bene prezioso per tutti.
Molti mi chiedono: dov’è il lavoro di dieci anni della strategia della non violenza? Forse tutto è stato distrutto da questa guerra? Io rispondo con la profonda convinzione così: no, anzi, tutt’altro. La strategia della non violenza ha salvato il mio popolo albanese da una guerra civile contro il popolo serbo. Questa guerra non è stata un conflitto tra popoli, ma tra Milosevic e la comunità internazionale e alcuni frammenti del popolo, l’UCK come una autodifesa in extremis dallo sterminio del nostro popolo. Io voglio aiutare il mio popolo a superare questa situazione di odio. La sofferenza maggiore che mi ha procurato questa guerra è di vedere i miei vicini di casa serbi impazzire. Gli albanesi era picchiati e cacciati via, le case bruciavano, mentre loro cantavano e festeggiavano. Ecco proprio per questo dobbiamo avere la forza e il coraggio di proporre a tutti e per tutti la pace che è frutto del perdono. Sicuramente i tribunali saranno indispensabili per la giustizia, ma la ricostruzione parte dall’anima, dal perdono, dalla riconciliazione, dalla conversione profonda e sincera dello spirito.
Citerò alcuni belli esempi e coraggiosi anche durante la guerra assurda che secondo me è stata prevedibile e prevenibile. La comunità internazionale troppo a lungo, per dieci anni, è stata soltanto spettatore di questa situazione della disgregazione della Jugoslavia. Quattro sono le guerre: nella Slovenia, nella Croazia, in Bosnia Erzegovina e, solo quando è arrivata nel Kosovo, essendoci il rischio che oltrepassasse i confini, la comunità internazionale ha deciso di intervenire. Un capitano serbo ha cercato in tutti i modi di salvare il villaggio di Kabash (la filiale della mia parrocchia). Due volte di notte è venuto a portarmi generi alimentari indispensabili per la nostra gente e per la sopravvivenza. Lo ha fatto forse anche a rischio della propria vita… Due maggiori serbi, dopo aver conosciuto di persona il paese totalmente cattolico e albanese mi hanno detto: "Siamo grati a Dio e alla vostra gente così buona che non abbiamo sporcato le nostre mani e la nostra coscienza con il sangue innocente del vostro popolo. Noi per anni siamo stati "imbottiti" di false informazioni che il popolo albanese è terrorista, fondamentalista islamico quindi cerca in tutti i modi di sterminare il popolo serbo…".
Il secondo esempio è quello di un mendicante serbo il quale regolarmente veniva a chiedere aiuto da me. L’esercito serbo lo aveva criticato. Gli hanno offerto il cibo ed altri aiuti necessari. "È rubato, è maledetto" diceva ai militari serbi. Un giorno venne da me dicendomi così: "Non è dignitoso morire con addosso questi stracci così sporchi". È morto il 12 giugno, quattro giorni dopo essere venuto da me. Io gli avevo regalato un paio di miei pantaloni. È stato sepolto con quelli addosso.
Nel Kosovo la comunità internazionale gioca la propria credibilità, il futuro dei Balcani, in un certo senso, ha la capacità di europeizzare, democratizzare il resto dell’Europa e perché no anche del mondo.
Prima gli albanesi scappavano via. Erano in una via crucis molto specifica, dolorosa, triste e disumana. Adesso in un certo senso si ripete lo scenario nella pelle dei serbi e dei montenegrini, dei rom… Questo ci indica che c’è ancora molto da fare, per non dire tutto da rifare. C’è da costruire e ricostruire soprattutto l’uomo nella sua integrità, la famiglia, la società. Purtroppo molti hanno pensato ed agito nel senso della soluzione esclusivamente militare. La NATO è un’alleanza militare, e ha dimostrato di saper fare abbastanza bene il proprio "mestiere", anche se non è del tutto perfetta e infallibile. Altri pensano che il Kosovo, come anche le regioni dei Balcani, potranno essere risistemate solo economicamente (la fede nel "dio" danaro!).
Se non si lavora insieme per la ricostruzione dell’uomo, soprattutto del senso religioso, culturale, sociale e morale per oltrepassare il concetto della nazione come sacralità, o del nazionalismo, e per oltrepassare il concetto del territorio polito, ci troveremo sempre di più in un circolo vizioso al punto di partenza; la guerra si sposterà da una parte all’altra.
Non vogliamo la pace dei militari, che è piuttosto la pace dei morti imposta con le armi e con la forza. Noi vogliamo la pace dei vivi, la pace della gente che ha il diritto sacrosanto non solo di vivere ma di lavorare, di essere istruiti, di avere tutti quei diritti fondamentali che ci sono stati negati per anni. Questo lo chiediamo non solo per il nostro popolo ma per tutti gli altri popoli. Il pluralismo politico, etnico e religioso ci farà capire che l’altro non è un nemico da combattere e da distruggere come ha presentato il nazionalismo esasperato, ma una persona, un volto umano e fraterno da scoprire e valutare nella luce della solidarietà, nella costruzione dei nuovi rapporti interetnici e interreligiosi. Perciò con profonda convinzione dico a me stesso e dico a voi tutti: come afferma il proverbio latino "hic Rhodus, hic salta" dimostriamo e testimoniamo con l’aiuto di Dio, con la solidarietà e la beneficienza del mondo, con la nostra azione e collaborazione, che dobbiamo vincere questa sfida basandoci sulla riconciliazione, sul perdono, sulla pace, coi mezzi pacifici. Solo così in Kosovo non ci saranno più né vincitori né vinti, ma vincerà la vita, la convivenza, la fratellanza, la pace costruita insieme nela ricerca dell'unità nella diversità.
Minniti: A cavallo della primavera e dell’estate di quest’anno il mondo ha visto il più grande esodo di massa. Un intero popolo scacciato dalla propria terra che rischiava di disperdersi in tutto il mondo. La più grande diaspora dal dopoguerra ad oggi.
Sono stato in Kosovo il giorno di ferragosto. La situazione è molto difficile. 75% delle case distrutto; la cosa più inquietante e più bella era vedere le case con il tetto distrutto, perché il primo gesto che facevano le truppe serbe paramilitari era quella di distruggere il tetto delle case per impedirne del tutto la riutilizzazione, ma da quelle stesse case con il tetto distrutto spuntavano le mani operose di donne, di uomini, di anziani, di bambini che stavano già ricostituendo il loro tetto. Quelle mani ci salutavano, perché con quelle popolazioni si è costruito, io penso, un rapporto che sarà difficilmente spezzato perché è nelle situazioni più drammatiche che si consolidano i rapporti molto forti.
Noi – la comunità internazionale, l’Italia, i rappresentanti delle organizzazioni politiche del Kosovo – abbiamo innanzitutto un dovere: il dovere di costruire un futuro di pace e di convivenza pacifica non soltanto in Kosovo ma nell’intero teatro balcanico. Questo è un interesse vitale per le popolazioni che operano in quell’area vitale per l’Occidente, perché attraverso una pace stabile noi costruiremo le condizioni di una più ampia e serena convivenza pacifica in tutto il continente europeo. C’è da rimboccarsi le maniche, c’è da ricostruire un paese, c’è da ricostruire un’intera area balcanica, il Kosovo; e c’è anche il problema della Serbia.
Penso con grande franchezza che la comunità internazionale oggi debba fare di tutto per sostenere l’opposizione serba che si sta battendo per costruire un futuro di democrazia e di partecipazione popolare in quel paese. Infatti, la democrazia in Serbia è un punto chiave per la stabilità dell’intero teatro balcanico. La battaglia per la democrazia della quale ha parlato Komnenic, il perdono per le vittime, deve continuare: continuatela uniti, perché è importante in questo momento che innanzitutto possa affermarsi lì un regime democratico. Dopo potrà naturalmente articolarsi dentro le condizioni tipiche di una democrazia, ma oggi sarebbe sbagliato se a quella domanda straordinaria di tanta parte del popolo serbo alla manifestazione del 19 luglio, non venisse una risposta unitaria di tutte le forze dell’opposizione serba.
Il problema del Kosovo è per noi ancora più vicino. Lì ci sono da ricostruire le case, un’economia, le istituzioni, ci sono da ricostruire le coscienze. Il termine "pulizia etnica", a volte nasconde gli aspetti più drammatici di questa parola, nasconde quanto essa evochi la distruzione della ragione, degli affetti, dei principi di convivenza. E quanto sia difficile, dopo quella violenza così primordiale, ricostruire un tessuto connettivo di una società. Questo è il punto essenziale: ritengo ci debba essere una società multietnica, multireligiosa, in cui il principio di collaborazione e di tolleranza fra diverse etnie sia il principio fondamentale. Non sarà semplice perché non è facile chiedere a chi ha subito violenza di dimenticare quella violenza, ma io ritengo – e per questo ritengo molto importante quanto è stato fin qui detto – che a chi subito violenza dobbiamo dire con grande chiarezza che certo la strada più facile può apparire quella della ritorsione e della vendetta, ma è una strada sbagliata perché sulle ritorsioni e sulle vendette non si costruisce nulla. Non c’è dubbio che oggi, in Kosovo, sia la comunità internazionale che le forze politiche kosovare si giocano una partita straordinaria: o riusciremo a garantire una convivenza tra maggioranze e minoranze, una convivenza multietnica, oppure la partita della pace si sposterà ancora più lontano. Noi questo non possiamo permettercelo.
Convivenza pacifica tra popoli, in Kosovo, in Serbia, in Montenegro, in Macedonia, in Albania. Tolleranza, capacità di comprensione perché i nazionalismi esasperati hanno sempre evocato e poi prodotto straordinarie distruzioni. Un grande ruolo quindi spetta a coloro che oggi, in rappresentanza di quell’area, sono qui oggi: ho ascoltato parole convergenti che in qualche modo ci consegnano una speranza. Per quanto riguarda noi, non dobbiamo lasciare solo il popolo kosovaro, e penso al popolo albanese kosovaro ma anche ai serbi kosovari. Non dobbiamo lasciare soli questi popoli. Dobbiamo continuare nell’azione che abbiamo intrapreso e che stiamo, a mio avviso, con grandi capacità svolgendo.
Anche io penso che la guerra non sia uno strumento di risoluzione dei problemi. Non mi ha mai convinto la frase che diceva: la guerra è la continuazione della diplomazia con altri mezzi. Penso che lo sforzo che bisogna far sia sempre e comunque quello di una soluzione diplomatica e che la pace sia un bene prezioso; su questa vicenda, mi permetterei però di suggerire a tutti un supplemento di ragionamento. È possibile assistere per anni a delle violenze che vengono organizzate in maniera sistematica e non intervenire? È possibile chiudere gli occhi e far finta di nulla di fronte alla diaspora di un intero popolo? O non è giusto che in casi così estremi la comunità internazionale si assuma le proprie responsabilità ed intervenga anche con un uso limitato della forza per ricostruire le condizioni di libertà e di vita dei più deboli? Penso che la risposta a questa ultima domanda sia affermativa: questo è un punto essenziale perché senza quell’uso limitato della forza gli 800.000 kosovari non sarebbero mai ritornati nelle loro case. Ho detto con chiarezza e senza ipocrisie la mia opinione, ma è giusto che su questi temi ci si possa fino in fondo confrontare sapendo che le ragioni di un rapporto sono ragioni più forti se consentono di potersi parlare con quelle che io ritengo sia una condizione essenziale: la sincerità.
Infine, qual è la prospettiva? Noi siamo impegnati insieme dentro lo sforzo delle Nazioni Unite, dell’Allenza Atlantica, per costruire le condizioni di una rinascita di quella terra. A me ha molto colpito un dato francamente straordinario: Pristina non è una città molto colpita dalla violenza e dalla guerra, è sostanzialmente intatta. I villaggi, invece, sono molto provati. Ma quello che mi ha più colpito è vedere i segni di una volontà di ripresa, di una vita normale. C’è una volontà straordinaria e questa volontà va incanalata nella ripresa di una convivenza comune. È importante che i serbi che sono fuggiti incomincino a rientrare. Penso che l’ipotesi di costruire delle aree serbe, delle enclave protette dentro il Kosovo, sia da evitare: quello che è successo ci deve invece spingere a costruire rapidamente le condizioni per cui i serbi che hanno lascito le proprie case ci possano ritornare. L’unico modo per combattere quella idea di una riduzione ancora più a macchia di leopardo del Kosovo, che io riterrei francamente una soluzione sbagliata, è quella di avere un impegno comune. Nazioni Unite e rappresentanza kosovara possono creare condizioni per cui ognuno possa liberamente e pacificamente vivere nella propria terra.
Noi italiani, in quanto europei, abbiamo una prospettiva di più lungo periodo, e questa prospettiva è necessariamente commisurata ad una integrazione tra i Balcani e l’Europa. L’Europa si gioca sui Balcani. Si è tanto impegnata e sa che la prospettiva per garantire una pace durevole in quell’area, è quella di avere un processo di integrazione. Nelle prossime settimane terremo a Bari una conferenza sulla prospettiva della ricostruzione dei Balcani. Una conferenza europea. Ed è molto importante perché in quella sede noi avremmo modo di verificare i primi passi del patto di stabilità per i Balcani e di verificare l’impegno dei singoli paesi europei. Per quanto ci riguarda, l’Italia si presenterà già con una propria ipotesi di legge italiana per la ricostruzione dei Balcani. Una legge che dia il via al contributo e al punto di vista dell’Italia dentro un’iniziativa europea e multinazionale per la ricostruzione dei Balcani.
Come ultima osservazione, aggiungo che in questa vicenda del Kosovo e dei Balcani c’è stato un aspetto che io ritengo molto importante, che ha visto impegnato il nostro paese in una importante azione umanitaria. L’Italia è stata il primo paese nell’assistere i profughi, nello stare vicino a queste famiglie smembrate che avevano lasciato le loro case, in Albania, in Italia in Macedonia. E questo è un successo dell’Italia, del nostro paese intero. La Missione Arcobaleno ha avuto successo perché siamo riusciti a mettere insieme il ruolo del governo e dello Stato, il cui compito era quello di costruire le condizioni di un intervento assumendosi alcune responsabilità, con l’azione di organizzazioni private, di volontari, di organizzazioni non profit. Nella Missione Arcobaleno abbiamo avuto la pratica applicazione del principio di sussidiarietà: uno Stato e delle organizzazioni private che fra loro collaborano avendo un giusto principio di complementarietà e lavorando per finalità comuni. La Missione Arcobaleno ha prodotto dei risultati significativi, ha fatto crescere l’immagine del nostro paese.
Vittadini: Non voglio limitarmi ad una breve sintesi, ma dire qual è il nostro giudizio premettendo che sugli ultimi punti, sulle prospettive, mi trovo d’accordo con il Sottosegretario alla presidenza del Consiglio Minniti. Ma proprio per essere sincero vi voglio dire come il nostro percorso arriva a queste conclusioni secondo una traiettoria diversa che io voglio ricordare a tutti, per onestà e per sincerità.
Mi rifaccio innanzitutto ad un volantino che Comunione e Liberazione ha distribuito durante la guerra dal titolo Per la ragione contro la guerra: questo volantino si ispirava alla posizione del Papa che ha rinnovato l’appello dettato non solo dalla fede, ma prima di tutto dalla ragione. E il volantino si chiedeva: come si va in questa situazione oscura aggrovigliata ad usare rettamente la ragione, da dove partire? Si diceva: dall’esperienza, altrimenti si diventa facile preda delle opinioni abilmente manovrabili dal potere. E aggiungeva che l’esperienza ci dice che l’uomo non vive da solo ma nasce da genitori che appartengono ad una certa storia, cultura, educazione. Questo fa la diversità tra le persone e i popoli, stabilendo anche la possibilità di una collaborazione reciproca in vista di una costruzione comune. Ma se le diverse appartenenza e affermano egoisticamente la libertà come misura di tutte le cose, se cioè gli uomini e i popoli si considerano gli unici artefici della storia, se non riconoscono di provenire da qualcosa d’Altro, né di appartenere ad un potere creatore tanto misterioso quanto reale, generano solo violenza e barbarie e in nome di un tornaconto compiono anche massacri. Il rapporto con il mistero ultimo dell’esistenza è infatti il fattore più costruttivo di civiltà e quindi di pace; e continua dicendo che il Papa richiamava le parti in guerra a riconoscere questo mistero e per la comune appartenenza a cessare il conflitto.
Detto questo, voglio entrare nel merito dicendo un giudizio che evidentemente non è di addetti ai lavori ma che ci compete come uomini del nostro secolo aperti a tutti. La guerra in Jugoslavia ha un’origine antica; quando la Jugoslavia si è disgregata nessuno ha pensato alla convivenza civile. Questo anche per una mentalità figlia della tradizione occidentale del nazionalismo che ha portato alle guerre, contrarie ad una tradizione religiosa, contrarie alle tradizioni religiose. L’Europa, figlia di quel nazionalismo che ha disgregato l’Europa, ha pensato alla disgregazione della ex-Jugoslavia favorendo la nascita di staterelli protettorati delle diverse potenze; lì nasce la guerra in Jugoslavia. Quando si favorisce che ogni etnia si costruisca il suo Stato non si può pensare che nel corso degli anni non nascano le guerre.
Questo è il punto di partenza di quello che è successo in Jugoslavia che ha – ed è il secondo aspetto – l’interesse di penetrazione in queste aree. Perché si è arrivati a questa situazione? Non si può partire prescindendo dalle tradizioni, difendendo i nazionalismi e gli interessi economici, e poi sorprendersi e scandalizzarsi se nascono dittatori e se la guerra è l’unico risultato. Il nazionalismo e l’interesse economico ad esso connesso sono in qualche modo la perdita di un’idea di universalità e della possibilità di convivenze civili.
Sono d’accordo con la diagnosi di Minniti. Come prima osservazione, ritengo che anche dentro la differenza di opinioni su questo, la posizione del governo italiano sia stata la posizione più distinta dalle altre, che ha permesso, forse con mediazioni dirette ed indirette, una fine del conflitto. L’Italia infatti non si è allineata ai guerrafondai, ed è interessante che la posizione di governi pur simili ideologicamente, almeno sulla carta, come quello italiano e altri, siano molto distinti: i paesi anglosassoni, che hanno avuto leaders ex-sessantottini, sono stati più guerrafondai di tutti, l’Italia invece ha cercato una sua strada. Noi siamo per questa strada, perché questa strada continui.
L’Italia – ed è la seconda osservazione – deve continuare quest’azione in difesa delle opposizioni, sia in Serbia che in Kosovo; l’Italia deve perseguire la via che sta seguendo, l’idea di favorire, forse diversamente da altri paesi, la possibilità che queste opzioni moderate si incontrino, come è successo in questo incontro.
Infine, l’Italia deve lottare contro l’allineamento ed i fondamentalismi che purtroppo, la politica americana, in molti casi, ha avuto in tutto lo scacchiere europeo: in certi casi, forse, per indebolire l’Europa.
Un ultimo aspetto: l’Italia deve, come sta facendo, credere nell’Europa, credere che l’Europa è qualcosa che pur essendo nel quadro occidentale, pur essendo amica degli americani, ha una cultura in più, la cultura del dialogo, la cultura della possibilità di convivenza tra i popoli.