Tempus templum
Giovedì 24, ore 11.30
Relatori:
Carlo Rusconi,
Docente di Lingue Bibliche e Introduzione all'Antico Testamento presso gli Istituti Teologici di
Bologna e Rimini
Fernando Chueca Goitia,
Architetto
Sandro Benedetti,
Docente di Storia dell'Architettura presso l'Università La Sapienza
di Roma
Maria Antonietta Crippa,
Docente di Storia dell'Architettura al Politecnico di Milano
Moderatore:
Maurizio Bellucci
Rusconi:
Non è per me fonte di piccolo imbarazzo parlare di architettura alla presenza di persone decisamente più qualificate di me sull'argomento e mi sento quindi in dovere di chiedere anticipatamente la loro benevola comprensione per le possibili, forse inevitabili imprecisioni in cui mi capiterà d'incorrere, sperando di avere maggior sorte del calzolaio che, avendo fatto osservazione al grande Fidia sul suo lavoro, si sentì rispondere: "sutor, ne supra crepidam".Un approccio teologico all'edificio sacro
Ciò premesso mi corre l'obbligo precisare che il mio approccio alle strutture edilizie sacre non è quello dell'archeologo, né quello dell'architetto, né quello dello storico dell'arte. Ciò che in passato mosse il mio interesse sull'argomento fu la curiosità di cercare nelle arti figurative riscontri di ciò che a me, per mestiere, era maggiormente familiare, vale a dire l'esegesi biblica. E, posto che avevo trovato particolarmente affascinante l'esegesi biblica monastica ed in particolare quella medioevale, la mia ricerca di riscontri privilegiò la produzione artistica contemporanea a quella esegesi.
Ora nelle riflessioni dei monaci sulla Sacra Scrittura fra gli elementi decisamente più rimarchevoli sono da segnalare da un lato l'insistenza sulla attenzione e la decodificazione dei simboli cui fa ricorso la letteratura sacra e dall'altro l'accento che potremmo definire personalistico, vale a dire l'insistenza sul soggetto sia individuale, il singolo credente, che comunitario, la Chiesa dei credenti, come interlocutore immediato e diretto della Parola e dell'Avvenimento divino. Ora proprio quest'ultimo fatto mi è parso risultare determinante per la chiave di lettura degli edifici sacri cristiani prodotti nel Medioevo maturo. Tenterò ora di spiegarmi, fornendo, ove possibile, dei riscontri leggibili.
Il fondamento dell'esegesi personalistica
Il punto fondamentale della esegesi personalistica medievale mi pare debba essere localizzato in due testi giovannei, fra gli altri: il primo è quello in cui l'evangelista afferma che "...a quelli che Lo hanno accolto ha dato il potere di diventare Figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome" (Gv 1,12); e l'altro è quello in cui Gesù dichiara: "Se uno mi ama osserverà la mia parola, ed il Padre mio lo amerà, e noi verremo a Lui e prenderemo dimora, presso di lui" (Gv 14,23). Ora, questi testi fondano la consapevolezza del credente di essere ad un tempo distinto e unito alla persona di Cristo, Figlio di Dio e Dio egli stesso: distinto in quanto dipendente, salvato ed in itinere, unito in quanto egli pure reso Figlio e fatto dimora della presenza reale, quantunque misteriosa, di Dio. A seguito di ciò il credente entra nella salvezza in primo luogo come salvato, cioè come riscattato dal potere delle tenebre; ed in secondo luogo come operatore di salvezza, secondo le parole di San Paolo: "completo nella mia carne quello che manca ai patimenti del Cristo, a favore del suo Corpo, che è la Chiesa" (Col 1,24). La consapevolezza di questa associazione del credente all'opera della salvezza si traduce immediatamente in una risignificazione del lavoro dell'uomo, che si esercita sul mondo, il quale se è attualmente "tutto posto nel maligno" (1Gv 5,19), tuttavia "attende... di essere liberato dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" (Rm 8,21). E l'esito cui il lavoro umano tende, dopo la salvezza di Cristo, è "Dio tutto in tutti" (cfr. 1Cor 15,28), cioè "la piena maturità di Cristo" (cfr. Ef 4,13), cioè ancora la santità del creato intero come coincidenza di ogni realtà col destino per cui è stata posta in essere, come coincidenza piena e stabile con la propria verità.
Questo orizzonte teologico, che ho fin troppo schematizzato mi pare sia adeguato a porci nella posizione giusta per intendere l'assoluta novità portata dal cristianesimo in quella che, con terminologia discutibile ma utile per intenderci, chiameremo 'edilizia sacra'.
La caduta della distinzione tra 'sacro' e 'profano'
Un primo punto: la fede nel Dio incarnato e nella vocazione alla salvezza dell'universo intero, in virtù di quell'avvenimento posto in condizione di realizzare il destino per cui è stato posto in essere, fa cadere la distinzione da sempre e dovunque insuperata tra 'sacro' e 'profano', una distinzione ben presente anche nella religione israelitica. Di conseguenza l'edificio sacro progressivamente elimina quei moduli costruttivi che traducevano in strutture puntuali la distinzione detta, sia che tali strutture si trovassero all'esterno del luogo sacro, sia che se ne trovassero all'interno. L'uomo e ciò che del suo mondo fa parte, del suo mondo soggetto al tempo e alla mutevolezza e per ciò stesso, secondo le condizioni tradizionali, appartenente alla sfera del profano, può entrare nel luogo sacro, non ne rimane al di fuori, animato dalla sola speranza di evadere dalla mutevolezza e dal tempo, proiettandosi nel tempo dell'evento mitico.
Il popolo di Dio è il vero tempio
Un secondo punto: il tempio precristiano non era di per sé luogo di culto, bensì dimora della divinità intorno ai suoi cultori e la divinità abitava nella cella, nel santuario del tempio mediante il suo simulacro e tale abitazione prevedeva una serie di rituali di accoglienza del 'dio' su cui ora non ci soffermiamo. Restava comunque chiara la distinzione fra dimora del Dio e popolo adorante. Per certi versi non si distaccava da questa concezione nemmeno il tempio del Signore in Gerusalemme: ivi la 'presenza' non era legata a particolari riti d'accoglienza ad un simulacro, bensì all'insediamento nel 'Santo dei santi' dell'arca dell'Alleanza, memoria dei prodigi compiuti da Dio per riscattarsi il popolo eletto nonché della forma nuziale del rapporto di Dio col suo popolo.
Nel popolo cristiano invece è chiara la coscienza che luogo della 'dimora' non è l'edificio di pietra, ma il popolo dei credenti e nel contempo il credente stesso. Oltre a ciò è chiara la coscienza che, in virtù di questa dimora l'universo è salvato. Ciò produce un risultato importante nella strutturazione dell'edificio di culto: il tempio, che già era concepito come struttura cosmica — si pensi ad esempio alla struttura del Pantheon, ma anche a quanto afferma Filone d'Alessandria in merito al tempio di Gerusalemme — conserva questa sua concezione, ma nel contempo viene modulato secondo una misura umana. Tale misura umana negli edifici di natura bizantina — vicino a noi la Pieve di S. Michele in Acerboli a Sant'Arcangelo di Romagna — risponde alla sezione aurea, recuperando la tradizione culturale greca; invece dove più forte è il recupero della prospettiva strettamente biblica, la misura umana viene proposta nell'impostazione talvolta dello spazio riservato all'assemblea — ad esempio nella pieve di S. Maria Assunta a S. Leo — talaltra in quella dell'intero spazio chiesastico — ad esempio in S. Piero a Grado — secondo le proporzioni dell'Arca dell'alleanza veterotestamentaria. Con ciò lo spazio viene formulato come proiezione dell'autocoscienza dell'uomo, del credente.
L'utilizzo delle strutture civili
Terzo punto: lo stacco radicale fra la concezione del sacro precristiana e quella cristiana risulta evidente ancora dal fatto che per i propri edifici di culto il popolo cristiano non abbia assunto le strutture precedentemente maturate come consacrate a ciò, bensì le strutture nate in funzione civile. (La Basilica: ess. S. Piero a Grado, S. Angelo in Formis, la Cattedrale di Caserta Vecchia; oppure la struttura termale: S. Giusto a S. Maroto, S. Maria di S. Bubalis, ecc.) e ciò documenta da un lato la persuasione che dopo l'incarnazione nulla è estraneo di per sé al Santo, e d'altro lato la prospettiva apocalittica — s'intenda apocalittica, non millenarista — secondo cui l'esito dei tempi, la Città Celeste è 'già', quantunque 'non ancora' l'attuale città degli uomini.
Il cambiamento della concezione del tempo
L'orizzonte teologico sopra sintetizzato, responsabile dell'evoluzione architettonica negli elementi indicati finora, è poi fecondo di una ulteriore innovazione, per ben intender la quale occorre rammentare come presso ogni cultura, eccetto quella prima giudaica e poi cristiana, il tempo sia concepito in maniera ciclica, vale a dire senza un inizio né una fine, ma replicantesi e ritornante su di sé secondo piccoli e grandi cicli. L'idea di creazione come di inizio assoluto e quella coerente di fine del tempo e quindi di tempo lineare è originale della religione ebraica e poi del cristianesimo e, quantunque a noi ora familiare, costituì un vero e proprio scandalo, come documenta Ugo Rahner nel suo Miti greci nell'interpretazione cristiana nonché un ostacolo di difficilissimo superamento per i pagani che si convertivano al cristianesimo.
L'introduzione nel tempio della categoria del tempo
Questa revisione giudaico-cristiana del tempo assunse una sua ulteriore radicale connotazione coll'Incarnazione del Figlio di Dio, una Incarnazione non accaduta in un istante del tempo, bensì in nove mesi di gravidanza, in un tempo congruo d'adolescenza e maturità. Ciò da un lato fa del tempo un luogo santo e dall'altro lato stabilisce il Santo 'come pienezza del tempo', vale a dire che il significato del tempo, non frammentabile nei singoli istanti del tempo, è l'accadere, il farsi della santità. Questo fatto, ancora una volta forse troppo brevemente sintetizzato, si risolve nell'introduzione del 'tempo' come categoria dell'edificio sacro. Sì che, mentre nell'edificio di culto precristiano era completamente assente ogni forma di 'cammino', l'edificio sacro cristiano prevede chiaramente due percorsi: il primo è quello contrario al tempo delle cose, da ponente a levante incontro a Cristo, incontro all'origine; il secondo è quello conforme al tempo delle cose, da levante a ponente, ed indica dell'inveramento dell'origine per l'umanità e con essa per il creato intero. Dice infatti l'evangelista Giovanni nel prologo al suo Vangelo a proposito di Cristo, che "tutto è accaduto per Lui" (Gv 1,3) e S. Paolo nella Lettera ai Colossesi, proclama che Cristo "È l'immagine del Dio invisibile... Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa, il principio, il primogenito di coloro che risorgono dai morti. Perché piacque a Dio di far abitare in Lui ogni pienezza e in Lui riconciliare a sé tutte le cose che stanno... sulla terra e quelle nei cieli" (Col 1,15-20, passim).
Bellucci: L'architetto Cheuca Goitia ci parlerà della storia della costruzione della Cattedrale dedicata alla Vergine dell'Almodena, terminata a Madrid dopo 110 anni di lavori e diverse vicissitudini storiche e architettoniche.
Chueca Goitia: Il problema della cattedrale di Madrid è un problema singolarissimo, per ragioni storiche, religiose, artistiche e di ambiente... perfino per ragioni di urbanizzazione e di paesaggio (l'Almodena, infatti, è inserita nella città in un posto molto importante, a lato del Palazzo Reale).
Ma cominciamo con la storia. Madrid non ha mai avuto una cattedrale, perciò non era una città, perché per essere città occorre avere una cattedrale e una diocesi. Madrid come diocesi dipendeva da Toledo, la diocesi primate della Spagna. Quando Leone XIII, verso il 1890, eresse Madrid come diocesi episcopale, poiché era stata demolita (da una rivoluzione liberale) la piccola Chiesa dell'Almodena, e c'era l'intenzione di costruire un nuovo edificio, si pensò che la nuova chiesa dell'Almodena potesse essere in futuro la nuova cattedrale di Madrid.
Architettonicamente parlando, erano i tempi del francese Jean Viollet Le Duc (grande architetto, archeologo, storico francese dell'architettura, restauratore di Notre Dame di Parigi e di altre importanti chiese) e del suo discepolo Francisco de Cubas. Fu quest'ultimo l'architetto che iniziò la costruzione della chiesa dell'Almodena in stile gotico. Con questo progetto egli voleva superare il suo maestro e realizzare un'opera ancor più alla "Viollet Le Luc" di quanto lo stesso Viollet Le Duc avrebbe fatto. Ma il suo progetto contrastava con l'ambiente.
L'ambiente infatti era caratterizzato dal Palazzo Reale, progettato dell'abate Juvara e poi continuato dal suo discepolo più diretto, Battista Sachetti. Il Palazzo Reale di Madrid è un monumento imponente, che dà una forte impronta alla silhouette di Madrid, e mettere una cattedrale gotica accanto a questo Palazzo sarebbe stata una barbarie. Per questo motivo, alla fine del sec. XIX, cominciarono a sorgere dei dubbi, e già nei primi anni del nostro secolo la costruzione della cattedrale andava avanti molto lentamente. Erano morti Alfonso XII, il re che aveva creato l'idea, ed anche la regina Mercedes, sua prima moglie: regnava la regina austriaca — degli Asburgo —, e non c'era una chiara idea su cosa fare con la Chiesa dell'Almodena.
Il marchese de Losoya promosse un concorso affinché la cattedrale fosse ambientata vicino al Palazzo Reale. Fu allora che io e un mio compagno architetto presentammo un progetto per far cambiare l'idea del tempio, da gotico a classicista. Questo progetto era stato fatto senza demolire, togliere o cambiare nessuna pietra di tutto ciò che era stato eseguito anteriormente. Era un progetto teorico, una sorta di saggio di architetti, in funzione del Premio nazionale di architettura di Spagna.
Quando il sindaco di Madrid, José Moreno Torres vide questo progetto volle realizzarlo, e ci disse: "Presentatemi un progetto esecutivo, anzitutto per realizzare il chiostro". Il chiostro, infatti, era sulla strada, e dunque il sindaco in quanto tale, doveva occuparsi della strada. Ma quando cambiò il sindaco di Madrid, il nuovo sindaco espresse la volontà di continuare i lavori dalla parte del tempio. La cattedrale di Madrid già esistente era un tempio gesuitico; anche sotto questo aspetto, c'erano dei problemi; oltre al fatto che una cattedrale del tipo della Controriforma non è liturgicamente adeguata al culto cattedralizio, questa splendida chiesa dei gesuiti era su una angusta strada di Madrid, sulla via Toledo. Per questo, in quel luogo, con tutto il movimento di gente che avrebbe portato una cattedrale, non era possibile realizzare il progetto.
Nell'attuale Almodena c'è una grossa e libera spianata che arriva fino al Palazzo, ed è così possibile realizzare un culto esterno: infatti, il cardinale Suquia, ultimo arcivescovo di Madrid, che ha dato un grande impulso alle opere nella cattedrale, ha realizzato numerose celebrazioni e atti di culto nella piazza. Infine, la facciata della cattedrale è concepita con una doppia loggia, una loggia bassa e una alta per le benedizioni; in questo modo, si ha l'impressione della facciata di un tempio greco, che permette di presiedere le celebrazioni religiosi sulla spianata.
Bellucci: Il professore Benedetti farà ora una valutazione globale di quello che è accaduto nella costruzione di chiese, in generale e soprattutto in Italia, negli ultimi anni, con il riferimento alle problematiche architettoniche che precedevano la guerra, ovvero nel momento in cui l'architettura ha preso coscienza di essere moderna.
Benedetti: L'arte prima del moderno, prima dell'inizio del secolo nostro, era un complesso in cui autonomia ed eteronomia — autonomia dell'artista e influenza della committenza — si intrecciavano in maniera strettissima. L'esempio di Madrid è chiaro: la costruzione dell'edificio religioso emblematico e rappresentativo della capitale spagnola, si intreccia tra esigenze di rappresentatività e di specificità, esigenze quindi che la committenza ha a cuore e che trasmette al progettista.
Questa dimensione è sempre stata propria dell'arte fino all'inizio dell'avanguardia di questo secolo, quando invece si è rotto questo intreccio autonomia-eteronomia in nome della libertà dell'arte: tutta l'arte dell'epoca borghese, dalla metà dell'Ottocento fino alla metà del Novecento, è stata all'insegna di questa richiesta di libertà assoluta. Questa libertà da un lato ha sprigionato grandi creatività, ma dall'altro ha impoverito l'arte del suo nutrimento, cioè il rapporto con la committenza. Prima dell'epoca borghese, gli aristocratici o il grande clero avevano sempre una coscienza ed una conoscenza dell'arte con le quali guidavano l'artista; con la borghesia questo si è perso, per via della specializzazione delle classi sociali, cioè del fatto che ogni classe sociale pensa a costruire solo una parte della società.
Per quanto riguarda l'architettura, la grande guerra è una discriminante fondamentale, perché è da essa che nascono varie esperienze innovative (il movimento moderno dell'architettura, il razionalismo radicale, l'espressionismo...) che segnano l'ultima fase della modernità. Con il moderno, l'architettura è concepita e concepisce se stessa come quell'arte che produce le cose necessarie a costituire l'ambiente dentro cui l'uomo può vivere: è dunque una concezione di tipo antropologico. Prima del moderno invece — pur essendo sempre presente la dimensione antropologica, la classica utilitas di cui parlava già Vitruvio — l'arte, e dunque anche l'architettura, è il modo di esprimere l'umano e di comunicare l'intuizione umana. Il moderno invece in qualche modo nasconde, abbandona, addirittura arriva a negare, questa dimensione a vantaggio della dimensione operativa.
Per esemplificare, basta pensare ad una delle correnti fondamentali dell'architettura moderna, il funzionalismo, che riduce l'architettura a funzione, alle sue possibilità di sviluppare delle funzioni utili all'uomo. Molti teorici dell'architettura del funzionalismo negano esplicitamente che l'architettura sia arte, e vedono come positiva la dimensione dell'architettura come mero strumento, che azzera la espressività in quanto troppo ridondante. Gropius e le sue scelte architettoniche all'interno del Bauhaus — la scuola di architettura da lui diretta — sono la chiara testimonianza di tutto ciò: infatti, Gropius manda via dal Bauhaus Hitten, un pittore antroposofo che coltivava una religione umana personale e che aderiva alla dimensione autonomia-eteronomia dell'arte.
La condizione dell'architettura moderna parte dunque da una scelta di riduzione, ed è sicuramente la condizione più difficile per interpretare il tema religioso perché in esso la fattualità funzionalistica è ridotta a zero. Il primo problema con cui si scontra un architetto contemporaneo quando affronta il tema della Chiesa, è cosa esprimere attraverso l'architettura: è la difficoltà a manovrare un tipo di linguaggio fatto per le cose per affrontare un tema che non si chiude nelle cose, ma che invece tende ad aprirsi ad un di più, ad un trascendente, ad un ulteriore che sta nelle cose ed anche al di là di esse. Per risolvere questo problema, il primo passo fondamentale è il recupero dello spessore espressivo rivelativo; il secondo è la necessità di uscire da una concezione dell'autonomia "secca" dell'arte e recuperare la ricchezza del rapporto tra autonomia ed eteronomia che l'arte precedente alla moderna aveva sempre praticato.
Dunque, anzitutto l'architetto non può essere l'inventore assoluto: il rapporto con la committenza è fondamentale e va quindi mantenuto. Nel tema religioso, è l'esperienza del sacro che l'architetto deve in qualche modo o vivere in prima persona facendo esperienza religiosa diretta, o recuperare, comprendendo l'avventura e la difficoltà dell'architettura sacra e contemporanea.
In secondo luogo, l'architetto deve avere ben presente ed avere a cuore la concezione liturgica del modo in cui la preghiera comunitaria viene svolta dentro la Chiesa. C'è una frase di Gesù Cristo fondamentale a questo riguardo: "Laddove sono due o tre riuniti in mio nome, io sono in mezzo a loro".
"Laddove": c'è un dove, e quindi l'architettura sacra ha ragione di esistere perché deve esistere un dove in cui ci si incontra. "Due o tre": due e non uno, perché nel cuore di ciascuno c'è la dimensione della preghiera individuale, che però non è la preghiera comunitaria. Tutte le preghiere che ci ha insegnato la Chiesa, cominciando da Gesù Cristo, sono al plurale: il Padre Nostro è una preghiera che posso recitare in silenzio, ma che debbo dire sempre al plurale. "In mio nome": perché ci si può riunire per fare una conferenza, per parlare di politica, per giocare... ma in questi casi i cristiani stanno insieme non in nome di Cristo, ma in nome della comunità, elevata a sorgente originaria dello stare insieme. Invece la comunità sta insieme se lo fa nel nome di Cristo. "Ci sono io in mezzo a loro": è questo che, purtroppo, quasi sempre gli architetti dimenticano. Il "ci sono io" è drammatico, ma è anche ciò che di più esaltante l'architettura sacra affronta: essa deve in qualche modo esprimere questa presenza, farla intuire, far sentire a chi entra in questo edificio che lì c'è qualche cosa che è diverso dal teatro, dal magazzino, dall'assemblea....
Per cogliere questo aspetto, questo "Ci sono io", occorre innescare una modalità architettonica e artistica che è quella simbolica. Soltanto un linguaggio simbolico riesce in qualche modo ad attivare questo rapporto. Un linguaggio funzionale non è sufficiente, è cosale, e la cosa si chiude in se stessa, non apre verso questo rapporto ulteriore.
Bellucci: La professoressa Crippa ci aiuterà a trarre delle conclusioni e a mettere in luce le cose fin qui dette dal punto di vista dell'architetto.
Crippa: Per rispondere a questa domanda, vorrei chiedervi un piccolo sforzo di immaginazione: mettersi di fronte al problema reale e partecipare all'inquietudine di un architetto che affronta il tema sacro. Egli dovrebbe farlo come facevano gli artisti quando rappresentavano Cristo crocifisso: pregavano e piangevano nel timore di non saper rappresentare veramente l'umanità di Cristo, dell'uomo-Dio che li salvava. Nella costruzione di una Chiesa, c'è per l'architetto lo stesso tipo di drammaticità.
L'architettura, secondo una definizione semplice che io do sempre e che supera la dimensione puramente funzionalistica, non può essere ridotta al fatto oggettivo dell'oggetto: l'architettura è la prosecuzione del mio corpo e nello stesso tempo è qualcosa a cui sto di fronte. Non è un oggetto, sto dentro e sto di fronte contemporaneamente, è prosecuzione del mio corpo ma è l'individuazione di un ordine che mi supera; questo ordine mi detta un modo di vita, regola i miei tempi, indica delle funzioni. L'architettura esprime in questa sua articolazione anche una possibilità di vita comune, mi permette di vivere con gli altri. Questo contro lo sradicamento: noi, di fatto, non siamo mai localizzati precisamente, ma abbiamo nostalgia del luogo.
Nel delineare la figura dell'architetto contemporaneo, mi baserò sulle osservazioni di un giovane architetto comasco, prematuramente scomparso, Cesare Cattaneo.
L'architettura moderna perde il senso orchestrale del fenomeno che essa è, cioè l'architetto si ferma alla dimensione estetica, al processo formale e pensa che per l'architettura le domande fondamentali dell'uomo non siano assolutamente interessanti. Non importano le domande, ciò che importa è trovare un'armonia. Gli architetti si trovano di fronte ad una disarmonia sociale e globale umana, si spaventano e non riescono ad affrontare il problema; allora desiderano creare un esempio armonico nella loro architettura, pensando che questo basterà.
Questa è la loro speranza, vi si rifugiano per crearvi una piccola immagine di quel mondo armonioso in cui sognano immersi i loro edifici, una specie di microcosmo: tuttavia, c'è sempre una rinuncia quasi volontaria e ostentata a quei campi dove la loro forza sarebbe troppo inferiore al compito, un volere giustificare i mezzi col fine, un istinto primordiale di divisione del lavoro, di arbitraria semplificazione dei compiti, di fronte ad una civiltà nuova che sta ancora balbettando.
Dalla nuova stagione del razionalismo che faceva tabula rasa della storia, gli architetti sono passati ad una stagione diversa; c'è bisogno, nello spavento del nulla, di riconoscere l'esistenza di un Dio e di ritrovarlo nel tendere verso l'umiltà; di stringersi vicino ai propri simili e vedere se vogliono lavorare con noi. La finzione, in architettura come in tutti i campi della cultura umana, è quella della censura delle domande fondamentali dell'uomo, la censura del vero in nome del bello, una censura sistematica, una rinuncia dell'uomo ad essere uomo. Questo modo di impostare il problema mi ha fatto venire in mente la frase di Kafka: "Esiste la meta, ma nessuna via", gli architetti pretendono di avere la meta e non guardano alla strada che consente di arrivare alla meta. L'estetico non diventa più il volto del vero, ma diventa fine a se stesso, è un formalismo, per quanto raffinatissimo ed elevato.
Quindici giorni fa, a Lisbona, ho visto una mostra di un genialissimo architetto, Louis Barragan; egli stesso aveva fatto mettere fra le sue opere di formazione alcune vite di santi e L'annuncio a Maria di Claudel; inoltre, tutti i brani di presentazione delle sue opere erano fortemente religiosi (ne ricordo uno in particolare, "senza l'ardore per Dio l'intera Terra non sarebbe che un eremo di bruttezza"). I critici che hanno presentato questa mostra concludono dicendo che Loius Barragan è un architetto cattolico, quindi si ispira a valori tradizionalisti, conservatori; nonostante questo, per talento e per genialità, è da collocare nella linea positiva della modernità.
Noi spessissimo siamo come questi critici: la via di una reale esperienza globale umana e religiosa non diventa metodo per l'opera che ci troviamo a fare, in questo caso per l'architettura. Questo è effettivamente il dramma: non che ci siano soluzioni precostituite, è un'inquietudine da vivere, bisogna avere questa tensione permanente e non essere soddisfatti delle soluzioni formali che si possono inventare facilmente. La chiesa di Ronchamp è una chiesa che Le Corbusier ha progettato con grande passione, in un momento in cui voleva superare dei limiti che vedeva nella sua architettura, ha cercato tutte le dimensioni psicofisiche che potessero dare il senso del sublime, dell'oltre-cosmico, del mistero. Ho letto un libro di un suo allievo innamoratissimo di lui, che dice che quando Le Corbusier si è trovato in cantiere di fronte a queste forme che stavano sorgendo, si è fermato e ha detto: "C'è veramente del sacro qui". Quindi lui stesso si è stupito delle forme che nascevano dalla sua elaborazione. Credo che questo stupore sia un'esperienza che tanti giovani entusiasti di architettura provano davanti a Ronchamp, e che però non giudicano fino in fondo.
Questa chiesa è stata la chiesa in assoluto più imitata nel nostro secolo e la storia ha dimostrato che non era un prototipo per chiese dell'architettura contemporanea. Il metodo che Le Corbusier aveva messo in moto era un metodo che affidava tutto alla percezione psichica e psicologica. Non ha potuto essere un prototipo, e le riprese delle chiese sono nella stragrande maggioranza piuttosto brutte e formali. Allora ci si domanda: "L'opera di Le Corbusier vale o non vale?". Le Corbusier è una delle più alte testimonianze di quello che ci ha insegnato Eliade: il senso religioso è insopprimibile, è una costante permanente dell'uomo. Può essere deviato, alterato, manipolato, ma esplode, ed anche in Le Corbusier è esploso. Che volto e che nome ha questo senso religioso? Mi sento di dire che ha il volto di un suo simbolo — che a lui piaceva molto — un tondo che per metà è sole radioso e per metà medusa. Per metà oscuro, mistero, tenebroso e minaccioso, e per metà radioso, come il sole che illumina. Ma ci sarebbero anche altre considerazioni da fare. Le Corbusier era un calvinista, e ci sono dei passaggi autobiografici molto interessanti a questo proposito, e che sottolineano una sorta di scissione: sostanzialmente, salta la dimensione di visibilità ecclesiale, il fatto che la chiesa è il luogo in cui si vede che la comunità cristiana è un segno ed è una vita dentro la storia.
Vorrei ora accennare a due figure straordinarie, a due committenti ideali, il domenicano Couturier, francese, e Guardini. Entrambi sono stati circondati da artisti, architetti contemporanei, e partono da due posizioni completamente diverse. Padre Couturier è un artista lui stesso, promotore di tutte le più significative opere di arte sacra contemporanea, ed ha suscitato anche grossissime polemiche all'interno della chiesa. Couturier alla fine della sua ricerca è arrivato a dire che l'arte non era indispensabile per la chiesa, e che quindi non era neanche così importante che ci fosse un'arte che esprimeva effettivamente l'identità cristiana. Quello che era importante è che i grandi uomini del momento si dessero da fare per queste grandi opere, perchè segnassero la tensione religiosa di questo momento storico. Ma questo momento storico è un momento in cui l'identità cristiana non può dire se stessa e non è neanche importante che lo dica artisticamente. In questo modo può — implicitamente, naturalmente — venire negata la teologia delle immagini che nel Concilio Niceno II era stata affermata, secondo la quale l'immagine non veicola in modo idolatrico la divinità, ma è parte del patrimonio che insegna, quindi è il luogo dell'incarnazione. L'atteggiamento di Couturier è stato ripreso da tutti i presidenti delle commissioni di arte sacra; il mondo ecclesiastico è passato dalla negazione all'esaltazione di questo contesto.
Di Romano Guardini voglio dire solo quello che sottolinea Ratzinger nel libro La festa della fede: la celebrazione eucaristica non è solo un evento, è anche una forma. L'estetica cristiana nasce da questo convivere di evento e forma. Quindi la celebrazione eucaristica come tale, nel suo complesso, ha una configurazione unitaria. Allora si tratta di ripercorrere questa configurazione comprendendola, perché l'unità di questa esperienza è da vivere come esperienza, non come fatto estrinseco a me. Da questo nocciolo nasce, dice Ratzinger, tutto il problema della riforma liturgica.
Arriviamo all'ultimo quadro centrale. Mi limito a leggere il brano di Eliot che avrei voluto commentare. Parla del tempio. Abbiamo sentito cos'è il tempio pagano. La parola tempio nel caso del mondo cristiano è da usare con molta delicatezza, perché è comprensibile solo attraverso la metafora del corpo. I primi cristiani negavano il tempio, non volevano il tempio, perché il tempio è il luogo separato in cui sta il dio. Poi, una volta che la cristianità è stata sicura di sé stessa, ha riutilizzato, nel Medioevo, questa parola, ma è una parola da capire all'interno della metafora del corpo. "L'anima dell'Uomo deve affrettarsi alla creazione. / Dalla pietra informe, quando l'artista si unì alla pietra, / Sorgono sempre forme di vita nuove, dall'anima dell'uomo congiunta all'anima della pietra; / Dalle forme pratiche e prive di significato di tutto ciò che vive o è senza vita / Congiunto all'occhio dell'artista, sorge una nuova vita, una nuova forma, un nuovo colore. / Dal mare del suono la vita della musica, / Dalla fanghiglia delle parole, dal nevischio e dalla grandine delle imprecisioni verbali, / Dei pensieri e dei sentimenti approssimativi, delle parole che hanno sostiuito i pensieri e i sentimenti, / Sorge l'odine perfetto del discorso, e la bellezza dell'incanto. // Signore, non porremo questi doni al Tuo servizio? / Non porremo al Tuo servizio tutte le nostre forze / Per la vita e la dignità, la grazia e l'ordine, / E per le gioie intellettuali dei sensi? / Il Signore che ci creò vorrà che noi stessi creiamo / E nuovamente poniamo la nostra creazione al Suo servizio / Che è già Suo servizio creare. / Perché l'Uomo è corpo e spirito congiunti, / E quindi deve servire come corpo e spirito. / Visibile e invisibile, due mondi si incontrano nell'uomo; / Visibile e invisibile si devono incontrare nel Suo Tempio. / Non rinnegate il corpo. // Ora vedrete il Tempio completato: / Dopo molto contendere, e dopo molti ostacoli; / Perché l'opera della creazione non è mai senza travaglio; / La pietra cui è stata data una forma, il crocifisso visibile, / L'altare addobbato, la luce che sale, // La luce // La luce // Il ricordo visibile della Luce invisibile.
Vi chiedo di immaginare una chiesa sulla base di questa immagine, di questa figura.