Venerdì, 30 agosto, ore 11.15
ARTIGIANI DI UMANITA’
partecipano:
Bruno Hussar,
ebreo israeliano, cattolico, frate domenicano, fondatore di "Nevè Shalom"
Alessandro Sallusti,
inviato de "Il Sabato"
Padre Hussar:
Vivo in un paese che si chiama Israele. Un paese che è caro a tutti perché abbiamo ricevuto da quel popolo e in quel paese la conoscenza di Dio, e vengo dalla città che qualche volta chiamano la Città Santa. Preferisco la espressione ebraica: la città del Santo, perché solo Dio è santo veramente, dove tutte le religioni monoteistiche sono rappresentate. Una città e un paese anche di divisioni, delle quali la più drammatica è quella fra ebrei e arabi che si disputano questa terra. Ci sono stati conflitti molto forti tra cristiani cattolici latini e cattolici merchiti, greco-cattolici. lo sono arrivato in Israele nel '53, 32 anni fa, abbiamo cominciato a pensare negli anni '60 che bisognava fare qualcosa per abbattere i muri di paura, di pregiudizi, di ignoranza, e costruire dei ponti di rispetto, e di amicizia fra di noi. Eravamo molto pochi ma ho sentito dire alcuni giorni fa, qui, che basta che pochi uomini e donne, magari deboli, scoprano di avere la libertà e la usino per riconoscere la storia e i legami che li uniscono, ed ecco che l'arcipelago è tatto, non siamo più isole. Nel '68 facevo conferenze in USA, nel Canada, e alla fine di ogni conferenza dicevo qualche parola di quello che allora chiamavo il sogno pazzo di Nevè Shalom: portare insieme gente di comunità diverse, che vivono nell'indifferenza totale, a vivere nell'uguaglianza e nell'amicizia. Un'utopia, certo, ma Israele è un paese dove qualche volta l'utopia diventa realtà.... Abbiamo avuto questo terreno di 40 ettari non coltivato né abitato dai tempi dei bizantini, senza acqua e senza alberi per dare ombra. Abbiamo cominciato e vissuto lì, noi, un piccolo gruppo di pionieri, durante 6 anni molto difficili: un'esperienza quasi mistica durante la quale il significato delle parole: "se il Signore non costruisce la casa, i costruttori si affaticano invano", ci è divenuto chiaro. Abbiamo preso il nome Nevè Shalom da Isaia 32,18: "il mio popolo abiterà un Nevè Shalom che vuol dire oasi di pace in mezzo a un mare, a un deserto di guerra". Vivevo in una casa di 2,50 metri, fra la tavola e il materasso c'era un passaggio di 80 cm. e potevo fare alcuni movimenti di yoga alla mattina. Lì dicevo la Messa: mi sedevo su un cuscino e l'altare era una tavola di paglia araba su un altro cuscino e la gente intorno a me, due, tre persone si sedeva sui tacchi: queste sono state le Messe più pregnanti che io abbia mai celebrato. Abbiamo vissuto senza acqua facendo ogni giorno con un trattore 4 Km. per cercarla, senza elettricità, con lampade a petrolio. La cosa più dura era che non avevamo le persone per cui Nevè Shalom era stato pensato. Lo scopo di questo villaggio, infatti, è di essere testimonianza della possibilità di vivere in pace insieme e diventare una scuola per la pace. Anche questo termine viene dal profeta Isaia: "il popolo non innalzerà più la spada contro un altro popolo e non impareranno più la guerra". Volevamo una scuola per la pace dove si imparasse a distruggere le barriere che separano e a costruire ponti che uniscono. Per realizzare questa idea avevamo bisogno di persone del paese, cioè ebrei, arabi cristiani, arabi mussulmani. Ma la gente del paese non veniva. Chi veniva erano giovani con capelli lunghi che giravano il mondo, andavano in India per cercare un Guru e, non avendolo trovato, cercavano un posto dove poter vivere una vita di comunità. Venivano da ogni parte del mondo: Australia, Germania, Olanda, America, Africa. Erano in generale gente buona: ci hanno aiutato ad esistere. lo ero molto inquieto e allora ho fatto una cosa che non consiglierei a nessuno di fare: ho lanciato un ultimatum a Dio. Ho dato a Dio un anno per darmi due segni: almeno una famiglia, sia araba, sia ebrea, che volesse vivere sulla collina e abbastanza denaro, non solo per mangiare, ma per cominciare a costruire la scuola per la pace. E questi due segni mi sono stati dati dopo alcuni mesi...E’ sempre molto sconfortante che Dio prenda seriamente in considerazione la nostra domanda, perché allora non ci si può più tirare indietro. Una famiglia ebraica di educatori ha deciso di vivere sulla collina e ha creato la comunità di Nevè Shalom; il denaro è venuto in modo molto provvidenziale da persone della Svizzera, gruppi tedeschi ed altri: abbiamo potuto a poco a poco costruire alcune capanne, mettere caldaie solari, legarci al condotto nazionale dell'acqua a 4 km., comprare due generatori per l'elettricità. Oggi Nevè Shalom è un villaggio che comprende 50 persone, ebrei, arabi musulmani, cristiani. Avevamo cominciato a vivere in una forma di vita comunitaria, mangiando insieme, mettendo insieme i guadagni. Ma abbiamo visto presto che non è la forma di vita che conviene a Nevè Shalom, perché non vogliamo fare una marmellata di tradizioni, pensieri, modi di vivere: vogliamo che ogni famiglia sia fedele alla propria tradizione. C'è un modo molto diverso di mangiare tra una famiglia araba di Galilea e una ebrea venuta dagli USA. L'unità adesso è la famiglia: ogni famiglia mangia a casa, educa i bambini ma ci sono molti elementi in comune. Ogni volta che un bambino festeggia un compleanno, invita tutti gli altri bambini con i genitori. Quando c'è una festa religiosa, per noi cristiani Natale e Pasqua, uno della comunità organizza la festa e invita gli altri a prendervi parte. Abbiamo una struttura democratica. Con elezione e comitati. Per ricevere nuovi membri abbiamo una procedura molto complessa, per non fare sbagli ed essere sicuri che è gente che conviene a Nevè Shalom. Bisogna vivere un anno come candidato sulla collina prima di essere ricevuto come membro. Dal punto di vista economico ogni famiglia si guadagna la vita sia lavorando sul posto con un salario molto basso (chi ripara le case riceve lo stesso salario di quello che dirige le attività culturali), sia lavorando fuori. Per le grosse spese, costruire case, comprare attrezzi siamo stati aiutati da amici all'estero, in Francia, Germania, Inghilterra, Svizzera, Belgio, Usa e adesso anche in Italia. Dall'anno scorso per la prima volta in Israele c'è una scuola che prende i bambini ebrei e arabi da 0 a 10 anni e li educa insieme. Qui impararono due lingue, con un rispetto profondo per la tradizione e per la cultura dell'altro. L'idea prima di Nevè Shalom è religiosa: si tratta di comunità di ebrei cristiani di diverse chiese che credono nello stesso Dio, ognuna delle quali vive secondo le proprie tradizioni, rispettosamente aperta agli altri. Nel progetto di costruzione ci doveva essere una casa di preghiera per le tre religioni secondo la parola di Isaia: 1a mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli"...Un giorno, all'alba, ho ascoltato gli uccelli cantare e ho capito che gli uccelli ci insegnano come lodare Dio. Allora ho pensato, invece di fare una casa di preghiera, facciamo uno spazio di silenzio, in ebraico "assenza di chiasso" e "silenzio profondo", la sola lingua comune in cui si può lodare Dio senza dispute teologiche. Abbiamo trovato uno spazio molto bello, isolato, silenzioso, abbiamo invitato 200 amici e abbiamo cominciato, come si comincia sempre in Israele, a piantare alberi. Lo scopo di questa comunità è la scuola per la pace che è un luogo dove vengono giovani alla fine degli studi secondari, tra 15 e 18 anni. Vengono a Nevè Shalom per una soggiorno dai 4 ai 6 giorni, e durante quel tempo abbiamo una équipe molto brava di educatori ebrei e arabi: insegniamo a questi giovani ad ascoltare l'altro... In Israele ci sono più o meno 3 milioni e mezzo di abitanti di cui gli arabi contano il 14%. Siamo sempre riusciti ad avere come abitanti a Nevè Shalom metà arabi e metà ebrei. Abbiamo un irradiamento al di fuori, nel paese, con un comitato di onore che conta il sindaco di Gerusalemme, un uomo molto popolare nel paese, due vescovi, uno anglicano e uno greco cattolico, musulmani importanti, per darci un po’ di protezione in caso di necessità. I giornali, la radio, la TV, parlano molto spesso di Nevè Shalom e nell'aprile scorso abbiamo avuto una giornata di amicizia, alla quale per la prima volta abbiamo invitato cinque mila amici...Quattro dei nostri educatori, due arabi e due ebrei, uomini e donne, sono stati invitati l'anno scorso nell'Irlanda del nord per insegnare durante due mesi a un piccolo gruppo di artigiani di pace, cattolici e protestanti, i nostri metodi...Alcune parole sul nostro avvenire, materiale e spirituale. Il nostro scopo è di passare da 13 a 40 famiglie perché è molto pesante reggere una comunità così piccola e ci sono molti che vogliono venire....Israele è una democrazia dove, tutti i giovani di oggi, domani saranno elettori o eletti, dunque prepariamo una nuova generazione di cittadini, tanto ebrei che arabi, che siano maturi, che abbiano imparato cosa è ascoltare l'altro, che siano iniziati al dialogo e che possano cercare e trovare soluzioni ai loro problemi senza rivolgersi alla Russia, agli Usa, all'Egitto. La pace è una cosa molto complessa, ha detto uno dei membri di Nevè Shalom: se vogliamo la pace fra noi e i nostri vicini bisogna cominciare a costruirla fra me e quelli che lavorano con me, tra me e i membri della mia famiglia, fra me e me stesso, tra me e il mio creatore, Dio.
A. Salusti:
La mia presenza è giustificata dal fatto che il mio lavoro di giornalista mi ha fatto incontrare, durante i miei viaggi in diverse parti del mondo, persone straordinarie. Dico questo con l'imbarazzo di chi, proprio per il fatto di avere visto e toccato con mano situazioni in cui la sofferenza e la disuguaglianza hanno raggiunto livelli inimmaginabili, si è reso conto di quanto difficile è la strada che porta a fregiarsi del titolo di artigiano di umanità. Nel campo profughi di Maccalè nel nord Etiopia, che ho visitato nel novembre scorso quando ancora vi morivano 600 persone al giorno di fame e malattie, ho visto maiali girare negli accampamenti mangiando cadaveri e corpi di uomini ancora agonizzanti, che non avevano nemmeno la forza di difendersi. Ho visto una madre, cui era appena nato un bambino ormai condannato a morte, dare il suo latte alla capra che, vivendo, avrebbe a sua volta fatto vivere tutta la famiglia. Ho visto gente bere la propria urina perché di acqua non ce n'era più nemmeno l'ombra. Attraversando l'Africa da un capo all'altro sulla rotta del Sael, di queste immagini ne ho viste decine e centinaia e se ve le riferisco non è per il gusto del macabro, ma solo per darvi un'idea di che razza dì realtà sia quella in cui lavorano e operano la maggior parte dei nostri missionari. Ma un conto è immergersi, come ho fatto io, per un periodo limitato di tempo, e comunque avendo in tasca il biglietto aereo per il ritorno, e un conto è fare di questa realtà la propria vita. Non si tratta solo di avversità di tipo sanitario (le epidemie seminano morti a migliaia e i missionari sono colpiti come tutti gli altri), non si tratta solo di avversità climatiche (la temperatura media è di 50°) ma si tratta anche di avversità dei regimi politici nei quali i missionari operano. In Mauritania, per esempio, la piccola comunità cristiana non è perseguitata ma può rimanere a patto che non facciano proselitismo e non predichino il Vangelo. Allora ho chiesto al Vescovo di questa comunità: "che cosa vi tiene qui se non potete nemmeno esprimere la vostra cristianità? E lui mi ha risposto: "Sì, è vero, noi non possiamo esprimere la nostra cristianità, ma non per questo la nostra è una chiesa che si piega su se stessa; anzi, vogliamo restare aperti al servizio di questa gente, perché sono convinto che c'è una testimonianza di carità che comunque bisogna dare a tutti gli uomini, indipendentemente dal loro credo. Loro rispettano noi perché noi per primi rispettiamo loro. Penso che le nostre suore siano una parabola vivente e che il loro lavoro al servizio dei mauri sia una predica più efficace di qualsiasi omelia che io potrei dire durante la messa". Sono andato a vedere queste suore, in particolare suor Liliana, che lavora appunto nell'ospedale. L'ho trovata indaffarata sul letto di un bambino morente a cercare con l'ago di una fleboclisi una vena per un ultimo disperato tentativo di salvarlo. Il bambino è morto e lei si è messa a piangere e mi ha detto: "Guarda, non spaventarti, non piango ogni volta che muore un bambino, però ti assicuro che è difficile abituarsi a vedere morire i bambini". In questo ospedale non c'è assolutamente acqua, 10 siringhe venivano usate ormai da settimane in continuazione perché non ne avevano più. La promiscuità di malattie creava malattie incredibili, era finito anche l'ossigeno, per cui la camera operatoria lavorava senza più anestesia. Le ho chiesto: "Mi spieghi che cosa stai a fare qui, se materialmente non puoi fare niente?" E lei: "Sto qui per stare vicino a questa gente e per pregare per loro". Ho detto: "Si, ma cosa ottieni?" E lei: "Niente, sto loro vicino e prego". Un'altra persona che ho incontrato in un campo in Etiopia, è un certo Padre Cesare, che mi ha fatto da interprete quando ho intervistato un vecchio capotribù moribondo che era partito dal suo villaggio con 200 persone e dopo giorni e giorni di marcia era arrivato al campo profughi con poco più dì 40 compagni. Questa persona mi ha detto: "Domani io non ci sarò più, forse sarò morto prima di sera. La morte ci ha inseguiti per tutti i 200 km. del nostro viaggio, la morte vuole tutti noi. lo conosco molto bene la morte, voi non potete capire cosa significhi vivere col solo scopo di non morire. Ma ora sono troppo stanco e non combatto neanche più". Sentendo queste parole ho chiesto a Pare Cesare: "Cosa puoi fare per lui?" E lui: "Niente, questa persona è destinata a morire. E come lui, qui, sono destinate a morire 500 persone al giorno". E allora, alla domanda che io continuavo a ripetere: "Che cosa ti tiene qui?", lui mi ha indicato un bambino che camminava da solo, rideva e ci veniva incontro e mi ha detto: "Vedi quel bambino, è arrivato qui un mese fa moribondo, adesso gioca e sorride"." Cos'è il sorriso di un bambino, paragonato ai 500 morti che ci sono oggi qui al campo?" "Niente, se fai un ragionamento in termini statistici. Ma se metti al centro del tuo pensiero, del tuo lavoro, l'uomo, un sorriso che torna sul volto di un bambino è una cosa meravigliosa, e noi siamo qui per questo. Non importa se è solo un bambino su 1000.Quel bambino non è l'un per mille, ma è l'uomo '... Lavorano all'interno di un binario ben preciso che è quello della fede, ma senza un programma e questo vivere alla giornata, nel senso buono della parola, è tipico un po' di tutti. Forse il personaggio più rappresentativo che ho incontrato è Padre Vincenzo, un ormone grosso, napoletano, figlio di uno scaricatore di porto, da 20 anni in Bocchinafaso. Quando è passato a prendermi, erano le sei del mattino, mi ha detto: "Adesso ti porto a prendere due ragazzi" e mi ha raccontato la storia di questi ragazzi. Un uomo era andato da lui il giorno prima chiedendogli un prestito: "Padre, ho cinque figli, non ho più soldi, sono tre giorni che non mangiamo. Ti chiedo pochi soldi, però ti assicuro che non te ne chiederò più perché so che tu hai cose più importanti da fare. Se entro tre giorni non sarò tornato a ridarti i soldi, vai a casa mia e prendi almeno due dei miei figli, perché vorrà dire che io mi sarò messo per la strada a rubare per poter dar da mangiare agli altri. Così, nel caso che mi arrestino e mi fucilino, sarò sicuro che almeno due dei miei figli sono vivi. "E così, su questo camioncino, abbiamo caricato due bambini che si sono aggiunti alla numerosa schiera di questo cappuccino perché, fra le tante cose che fa, raccoglie i bambini che vengono sorpresi a rubare nei mercati, per evitare che vengano arrestati. Padre Vincenzo ha un tacito accordo con la polizia che li consegna a lui. Li carica su questo furgoncino, a volte ne ha venti, trenta, li porta in giro tutto il giorno e la sera gli dà da mangiare a patto che loro, durante il giorno, non abbiano rubato neanche un chicco di grano. Quest'uomo, dotato di una volontà incredibile, quando gira per le campagne raccoglie le vecchie streghe, così le chiamano, sono le donne. La loro religione è l'animismo e quando l'uomo muore, la sposa diventa una strega; a lei viene imputato quanto succede nei villaggi e viene bruciata viva, o fustigata, o cacciata. P. Vincenzo porta queste donne in una casa, che si chiama appunto la casa delle streghe, e le assiste. C'è una storia molto bella, a proposito di una queste di donne, che P. Vincenzo mi ha raccontato: "Meri è una donna che ho raccolto nella savana, ormai morente, la portai qui, la lavai, la nutrii, la curai e dopo qualche giorno lei mi disse: "ho capito che mi vuoi bene, perché fai tutto questo per me?" "Perché anche tu sei una creatura di Dio", gli risposi. "Dio? Ma chi è?" Le spiegai che Dio era un uomo molto buono e giusto che stava in cielo, e che lei avrebbe certamente incontrato quando sarebbe venuta la sua ora. Dopo qualche giorno, una delle donne venne a chiamarmi, Meri stava molto male, non voleva mangiare, né prendere le medicine. lo corsi da lei, e le dissi: "Meri, ma cosa stai combinando?" Lei mi rispose: "E’ inutile che stia qui a perdere tempo aspettando che Dio mi chiami, se Lui è addirittura più buono di te, lo voglio incontrare subito". E, così dicendo, morì poco dopo". P. Vincenzo cura tutti i lebbrosi di questo immenso paese, ha creato un lebbrosario e ogni giorno porta questi ragazzini che raccoglie per strada nel lebbrosario, dove insegna loro a curare i lebbrosi, a fasciare e spurgare le ferite. Una volta alla settimana tutti i lebbrosi arrivano e lui distribuisce ad ognuno una tazza di riso, una tazza di latte in polvere, e qualche moneta per i loro bisogni; fa l'appello, li chiama uno per uno e sono centinaia, ad ognuno chiede qualcosa, e si ricorda di tutti. Tutto questo P. Vincenzo lo fa con semplicità, senza presunzione, come se fosse normale, ovvio... Ecco, è gente come questa che voi avete aiutato tramite "Il Sabato", con la sottoscrizione "Natale contro la fame, aiutiamo chi li aiuta". E poco importa che la somma che abbiamo raccolto sia stata grande o piccola, perché alla luce di tutto questo non sono importanti i miliardi, ma l'uso che si fa delle mille lire. I soldi che abbiamo raccolto sono stati distribuiti e sono arrivati a destinazione; per cui questa gente potrà tirare avanti, grazie a voi, ancora qualche giorno, poi ci sarà certamente qualche altro che continuerà ad aiutarli. lo mi scuso soprattutto con i protagonisti di queste storie per questa indegna testimonianza, e vi ringrazio di avermi ascoltato.