La musica come educazione
Giovedì 26, ore 18.30
Relatori:
Guido Salvetti,
Direttore del Conservatorio
di Milano
Mirko Gratton,
Direttore Divisione Classica
della Polygram
Angelo Nicastro,
Direttore Artistico Ravenna Festival
Moderatore:
Pier Paolo Bellini
Bellini: Chiediamo ai nostri ospiti di commentare questa intuizione di don Giussani: "Ho sempre usato la musica per educare l’uomo a quella dimensione di bellezza e di verità totale che l’arte richiama. Quando l’arte è vera arte, quando l’arte è veramente la realizzazione del cuore dell’uomo, testimonia, cosciente o incosciente, l’attesa di qualcosa di infinito, di definitivo, di totalizzante. Per questo la musica è sempre stata utilizzata per educare a questo orizzonte definitivo che il cuore dell’uomo aspetta".
Salvetti: Il momento attuale è molto decisivo per le sorti della musica in Italia. Stanno cambiando tutte le regole, le leggi soprattutto; la nuova legge sulla musica è in discussione, pone nuovi problemi e nuove prospettive; c’è la nuova legge sui conservatori; a breve andranno a regime le scuole medie ad indirizzo musicale, e persino scuole medie superiori.
Credo che rispetto a tutte queste novità ci sia un rischio: avere le indicazioni senza avere bene le idee per realizzarle. Da questo punto di vista, pur non essendo cattolico, stimo i cattolici, perché quelli che si sono impegnati nel nostro paese hanno sempre avuto il grande merito di non perdere mai di vista i motivi dell’azione politica.
Per l’esperienza che ho fatto e che vedo fare da tanti altri musicisti nel settore della musica classica, devo dire che si evidenzia una forte disponibilità culturale da parte delle giovani generazioni nei confronti di questa esperienza, soprattutto se è proposta ad alto livello. Qualcosa di molto simile successe nel 1968, nell’area del Nord Italia: si facevano concerti nelle fabbriche, negli stadi, nei palazzetti dello sport. Bach e Beethoven erano molto amati. Dobbiamo essere orgogliosi o comunque coscienti di appartenere ad un ceto culturale comune alla cui base sta anche questa straordinaria ricchezza musicale che non ha l’uguale nell’antichità classica, non ha l’uguale in altre espressioni culturali di altri continenti. Questa è appartenenza: nessuno di noi quando sente una corale di Bach o una melodia di un concerto di Mozart, o un quadro sinfonico di Debussy, ha l’impressione che questi musicisti appartengano ad altre culture, ad altri strati sociali, ad altre generazioni.
In questo senso l’educazione non è aggiungere dall’esterno parti che ci sono estranee, che ci erano estranee e poi magari ci vengono "incollate" addosso; la più bella educazione è conoscere se stessi e tirare fuori quello che siamo nel rapporto con gli altri.
In termini più precisi, ci sono chiaramente due prospettive diverse: la prospettiva di chi viene educato alla musica con scopi professionali e di chi viene educato all’ascolto. Nel primo caso l’aspetto educativo, anche dal punto di vista tecnico-metodologico, è assolutamente evidente. Fare il musicista per professione significa imboccare una strada di rigore e di ricerca lunghissima. Chi deve imparare a fare il triplo salto mortale con caduta libera nel circo deve faticare anni per arrivare alla perfezione e ad un livello accettabile; il musicista di professione ha un iter formativo che è ancora più lungo sul piano quantitativo. Se poi si considera la parte qualitativa, l’educazione musicale è una vera educazione alla perfezione del particolare, che però deve rientrare nel generale.
Chi si abitua all’ascolto ha invece la grande opportunità di imparare, attraverso la musica, grande amore per le differenze: ciò che è bello è singolo, ciò che è bello appartiene alla realtà non ripetibile. Questa abitudine al diverso credo sia una delle poche prospettive di vera sopravvivenza nella nostra civiltà massificante. Platone nella Apologia di Socrate ha distinto la dimostrazione matematica dal processo educativo che porta alla nascita e alla rinascita dell’arte: alone di mistero che permette la sua vita nei contesti più diversi, che permette di essere amata dalle persone più diverse e per le ragioni più diverse. In questo senso non c’è possibilità di educare alla musica in modo dogmatico, in modo autoritario, dimostrando che il significato di una sinfonia è unico. Esistono tante sinfonie di Beethoven, come esistono tante persone diverse che possono essere amate per i loro vizi e le loro qualità, indipendentemente dal fatto che qualcuno vi spieghi che devono essere amate o odiate.
Gratton: Inserire il discografico all’interno di un incontro in cui si parla di musica ed educazione forse può dare modo di chiarire alcuni malintesi e di potere dire come anche il discografico cerchi di operare e di fare cultura.
Sarei sicuramente ipocrita se dicessi che nel nostro operare quotidiano abbiamo come obiettivo primario quello della diffusione della cultura. L’istituzione nella quale mi trovo ad operare è una istituzione in cui ovviamente la dimensione economica assume un’importanza primaria: una casa discografica è una azienda prima di tutto, anche solo per il fatto che vive di suoi mezzi, quindi senza alcun sostegno, e che deve ogni giorno far quadrare i suoi conti. Questo spiega come è fondamentale che gli investimenti fatti per noi nel campo musicale debbano potere in qualche modo generare dei ritorni economici che ci consentano di sopravvivere in economicità. Il fine di ogni azienda infatti è sopravvivere e avere i mezzi per sopravvivere remunerando, le risorse che vengono adoperate, che sono le persone che come me all’interno dell’azienda lavorano, gli azionisti che forniscono i soldi, i mezzi propri che permettono all’azienda di poter lavorare. Quindi la dimensione economica nel nostro lavoro c’è senz’altro, non va negata ed è assolutamente di tutti i giorni.
La casa discografica che rappresento detiene il 60% del mercato italiano, una percentuale che è quasi preoccupante e che la dice anche lunga sulla situazione della musica classica nel nostro paese. Credo di poter dire che se non si fa cultura non si è in grado di sopravvivere a lungo nel campo musicale e nel campo discografico; le tre etichette che rappresentiamo hanno una tradizione quasi centenaria che noi abbiamo ereditato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di poter mettere l’artista o gli artisti in condizione di dare il meglio, con la migliore tecnologia possibile. In questo senso noi siamo un mezzo per dare all’artista professionale la maniera di esprimere le sue potenzialità.
Trovo abbastanza stucchevole la polemica sul disco, ovvero il domandarsi se faccia più cultura ascoltare musica con i dischi o se sia più educativo andare ai concerti. Io trovo che il disco, a maggior ragione oggi, sia una componente essenziale, ma assolutamente complementare in un processo educativo che deve comprendere vari modi di ascoltare e di fare musica.
Il disco in sé è una espressione d’arte che non va confusa con l’esecuzione da concerto. Il disco è una forma di documentazione a se stante, di importanza fondamentale: se oggi non fossero disponibili le incisioni, buona parte del repertorio non sarebbe ascoltabile in sale da concerto, essendo questo repertorio sterminato
Nicastro: Parlare di musica come strumento educativo si presta ad una tale complessità di argomenti che diventa imbarazzante intervenire, anche perché si rischierebbe facilmente di cadere in dei luoghi comuni. Tenterò di non cadervi dicendo subito che questo momento è molto delicato e particolare perché si sta giocando il futuro dei prossimi anni: molte riforme a lungo attese che riguardano l’ordinamento musicale sono, sembra, in dirittura d’arrivo. Sono passati settant’anni dall’ultima riforma importante e credo ci siano gli stessi vizi di fondo di allora. In particolare, oggi come allora si vuole pianificare troppo, regolamentare in programmi centralmente codificati quello che si deve fare: non si è dato spazio all’esperienza di soggetti vivi che si muovono con maggiore vivacità. In secondo luogo l’impostazione culturale di tipo idealista, dove la musica è considerata come arte in generale, come qualche cosa che appartiene all’area dell’intuizione, sembra ancora prevalere. Non si può non considerare la musica come dimensione che partecipa appieno della razionalità dell’uomo: altrimenti, resta il grande equivoco.
Un’altra tradizione che in qualche modo occorre superare è quella razionalista. Il razionalismo è entrato anche nelle metodologie e nel modo di fruire della musica soprattutto con la metodologia didattica del solfeggio parlato. Nella tradizione italiana è entrato nell’800 derivato dalla Francia durante il periodo napoleonico ed è chiaramente un approccio che ha la pretesa di ridurre la musica a valori numerici. Questo ha seminato negli anni centinaia di vittime, perché nelle scuole dell’obbligo si è identificata la musica con l’apprendimento.
In un paese come il nostro in cui le istituzioni sono assolutamente carenti è stata per me davvero una possibilità insperata quello di trovare un ambito in cui la musica aveva una funzione e una valenza educativa. Assistere ad una funzione religiosa in cui cori di dilettanti e di ragazzi sono in grado di affrontare un repertorio polifonico, dalle Laudi Filippine a Palestrina, in modo normale, perché lo hanno appreso all’interno di un’esperienza, è ciò che mi è capitato. Questo partecipare ad un contesto in cui la musica è parte integrante di un rapporto educativo per me è stata l’esperienza che mi ha fatto innamorare definitivamente della musica e che mi ha fatto fare anche delle scelte di ordine professionale.
Per quanto riguarda l’impegno che professionalmente ho assunto da circa due anni, da quando sono stato chiamato ad assumere la direzione artistica di Ravenna Festival, posso dire che si tratta di un esempio di quello che attraverso la musica si possa realizzare. Si sono dovute superare molte resistenze; solo dopo anni siamo riusciti a mettere attorno al tavolo tutte le autorità cittadini e perché si impegnassero a sostenere l’iniziativa e a rinnovare la stessa città. L’aspetto interessante è che questo Festival ha fatto rivivere una città abituata ad essere deserta alle otto di sera e ha permesso ad alcuni musicisti di avere un punto di riferimento sicuro, anche perché ogni anno sono garantite le incisioni.