Lunedì 27 agosto, ore 21.15
FIESTA, DOLOROSA FIESTA
Partecipano:
Joaquin Alliende Luco,
cileno, sacerdote e poeta, studioso della religiosità popolare, membro della commissione Fede e Dottrina del Segretariato per l'unione delle Chiese
Pedro Morandè Court,
cileno, ordinario di sociologia presso la Pontificia università cattolica del Cile, studioso di sociologia della conoscenza e della religione Baldo Santi, italiano da quarant'anni in Cile, sacerdote, direttore della Caritas cilena
La festa è un momento fondamentale nella vita di un popolo. E’ il momento in cui l’uomo riguadagna la coscienza di quello che è, e ne manifesta il significato al ai là dei vincoli posti dalle necessità della vita di ogni giorno. Nella tradizione cristiana la festa è il momento in cui accorgersi che c’è qualcuno di più grande di noi che pure dà contenuto alla nostra esistenza. Nella cultura latino-americana la festa occupa un posto di particolare importanza come momento della verità dell’uomo al di là di quelle riduzioni ideologiche da cui tanta sofferenza, tanta umiliazione, tante sconfitte di tentativi generosi sono venute all'America Latina ed ai suoi popoli.
J. Alliende Luco:
Trasferiamoci con l’immaginazione, con uno sforzo di autenticità fraterna, nell’America Latina, ed in particolare cominciamo questo viaggio della fantasia dal deserto di Atacama, nel Cile del Nord Credo che la celebrazione che ivi si svolge ogni anno, a metà luglio, nell’aridità subtropicale della pampa di Tamarugal, presso il santuario mariano di La Tirana, bene illustri la quintessenza della festa dolorosa. La Tirana è un gruppo di case nel deserto che per una settimana esplode al di là dei propri confini. La sua popolazione, un pugno di persone, raggiunge in quei giorni i quarantamila abitanti. Al centro del paese c'è il bianco tempio di Nostra Signora del Carmelo. Lì diciassette anni fa vissi una delle notti più belle della mia vita. Ero il sacerdote di turno. Ai confessionali accorrevano penitenti che imploravano misericordia in seguito a grandi peccati. Fuori, un centinaio di confraternite, in tutto circa 3.000 danzatori, ballavano sulla crosta salina della pampa, ballavano per la Vergine, per la "Carmelita", che il 16 luglio sempre è in festa, ore ore, senza stancarsi, fino all’estasi. E i piedi battevano il suolo, come le bacchette di un gigantesco tamburo. Questo spiegamento fantastico alla luce delle stelle, era per Maria, per il Figlio che tiene tra le braccia. Miei cari amici, ho poco tempo per comunicarvi quanto vorrei dirvi. Se mi permettete di riassumere i contenuti in una serie di affermazioni principali, vi enuncerò ora il mio pensiero in sei punti.
Primo: la religiosità popolare latino-americana, il cattolicesimo popolare, è la più evidente condensazione della cultura latino-americana. E’ lì che il popolo vive più autenticamente, che si esprime con più trasparenza.
Secondo: la religiosità popolare ha il suo culmine nella festa.
Terzo: questa festa è necessariamente dolorosa. Non intendo dire che tutto nella festa sia dolore, e nemmeno che ciascuno la celebri come se il dolore ne costituisse il tratto più distintivo; non dico questo. Dico solo che la festa del nostro cattolicesimo popolare non sfugge il dolore, e che la celebrazione stessa esige, per la condizione itinerante dell’uomo, una risposta al dilemma del dolore. Risposta che nel cattolicesimo popolare si nutre del soffio evangelico. Da dove, occorre allora domandarsi, viene inferto il colpo doloroso della lancia? Perché ferita umana e festa sono termini correlati? Rispondo: puramente semplicemente perché viviamo fuori del Paradiso; semplicemente perché fra le due venute di Cristo il pellegrinaggio si compie in una valle di lacrime. Dolorosa festa perché festa umana nell’esilio. Dolorosa perché il festeggiante viene dal peccato e va verso la festa. Le persone semplici non filosofano su questo, per loro è un modo di andare avanti. Un indigeno così spiega come vive il processo catartico del suo pellegrinaggio, mentre supera la Cordigliera delle Ande: "Quando andiamo in pellegrinaggio, revisioniamo la vita, saliamo sulle cime, dove ci sono pietre e subiamo i nostri peccati eliminandoli. Quando arriviamo alla vetta, prendiamo delle pietre, ce le strofiniamo addosso per asciugare il sudore; poi le gettiamo alle spalle, le abbandoniamo dietro di noi, assieme ai nostri peccati. La pietra è dura, è graffiante, e restituisce il male alla terra. Andiamo avanti. Però questo non spiega tutto. Dobbiamo aggiungere il carattere cirenaico, il carattere veronico del cristiano. Ogni amico di Gesù che lo ha visto cadere salendo al Calvario riceve come una schioccata nella coscienza, una richiesta che fa tremare: prestami la spalla, che il sangue che schizza sia il tuo ora. Simone di Cirene, e tu, donna, attraversa la marmaglia di soldati, davanti a lui dispiega il tuo velo; Veronica, asciuga il suo volto. Si potrebbero citare molti testi, o ricordare i dialoghi con i sacerdoti. In tutti si vedrebbe come il popolo afferma sostanzialmente la sua condizione, che allo stesso modo di Maria deve situare la propria storia, insieme, vicino alla Croce. Dolore anche perché dalla espulsione dal Paradiso ed a partire dalla Torre di Babele preparare e organizzare la festa esige un lavoro assai duro. Io credo che lo sappiano bene gli organizzatori di Rimini. La musica, perché sgorghi lieve, ha bisogno di un faticoso esercizio. E che dire della coreografia? Il gioco equilibrato dei corpi a La Tirana è il frutto dell’esigente disciplina che per mesi i danzatori s’impongono nelle prove quotidiane, nei quartieri operai di Chiche e Arica. Questo spiraglio sull’armonia, paradisiaca che fulmineamente la festa ristabilisce richiede un prezzo molto alto. Dolorosa ancora perché felice. Quando il cuore si è dilatato nella gioia e si sente in armonia con l’opera, gli è connaturale per origine e destino, allora i toni dell’orchestra cominciano a calare. Già i tini cominciano a svuotarsi del loro vino.
Quarto: si festeggia un dolore pasquale, o il dolore è pasqualmente festeggiato. Sappiamo che la festa, con radici giudeo-cristiane ; non è la mera celebrazione di cicli naturali. Sempre è festeggiare un avvenimento. E’ interessante osservare come il processo di paganizzazione della festa, oggi così percepibile, la faccia invece retrocedere dallo storico al tellurico. Nella festa il dolore si tematizza e si attua. Per esempio, quando ad Atacama i minatori del salnitro ballano per dodici ore nell’arco di un giorno, essi somatizzano la dolorosa condizione umana. Però, nel momento stesso in cui si danza liberamente, si attua il proprio dolore, lo si domina ed in qualche modo si consegue la signoria paradisiaca. (…) Il popolo che festeggia il proprio dolore alla presenza del Padre chiede una tregua, fa una sosta E giusto, necessario, legittimo che Dio offra all’uomo questa sosta ricreatrice. E’ nell’oasi che lo spirito di Dio si rivela, non nell’uragano, ma nel sussurro di brezza soave e refrigerante.
Quinto: Il bagno nell’acqua dell’oasi c’è la rinascita del popolo.
Sesto: Questa novità contiene un potente dinamismo culturale, e per questo un’enorme forza di gravità politica. Nella misura in cui è autentica, la festa dà compimento alla vocazione cristiana del popolo, realizza il gratuito del fatto religioso. Però nel medesimo tempo ha un effetto costruttivo, è una forza storica trasformatrice. In questo senso potremmo delineare qui alcuni elementi riguardo al peso politico della festa intesa come sin qui siamo venuti descrivendola La chiesa dell’America Latina è di fronte ad una sfida, deve fare delle scelte: o continua ad essere l’attiva padrona di casa della festa del popolo, o dovrà accontentarsi di diventare guardiana di un museo di vecchi simboli festivi; o è il cuore della celebrazione popolare o si ridurrà ad essere semplicemente una comparsa nell'affaticante chiasso del consumismo; o ha la capacità di convocare i giovani e di essere alla radice dei loro momenti di gioia, soste in un cammino di giuste lotte, o verrà ridotta ad un'eco mal modulata dei messianismi fascista e marxista
P. Morandè Court:
La mia sarà una breve e semplice riflessione sul senso religioso e culturale della festa nella vita della società umana. La festa è un fenomeno universale. Tutte le culture la conoscono, anche se sono assai diversi i modi con cui la si celebra ed i significati che ad essa si associano. Possiamo tuttavia trovare, al di sotto di tale molteplicità, una caratteristica comune che conferisce alla festa il suo significato di fondo. C’è sempre, nella vita dei popoli come in quella d’ogni persona, un momento in cui si pone inesorabilmente la domanda che nel Vangelo di ieri, domenica, ascoltavamo dalle labbra di Gesù: "Chi dicono gli uomini che sia il Figlio dell’Uomo? E voi chi dite che io sia?". Questa domanda, che Gesù riferisce a se stesso, si trova alla base del nucleo stesso di tutte le culture. Dalla risposta che si dà a questa domanda, dipende A senso stesso della vita umana; si tratta, potremmo dire, del giudizio che l’uomo dà della propria vita personale e della storia. t dunque, la festa religiosa, un modo di celebrare questo giudizio sulla storia, sul senso della vita. E’ un momento solenne della vita dei popoli, che si sottrae alla routine quotidiana. La festa è in questo senso un eccesso, un tentativo umano di avvicinarsi al limite, alla fonte da cui sorge il senso della sua esistenza. Per alcuni popoli, gli Aztechi per esempio, questa domanda sul senso della vita occorreva formularla rivolta al passato. Il passato rappresentava Uno per essi il modello o l’archetipo valido d’interpretazione del presente o del futuro. Non il passato storico immediato bensì quel passato lontano indefinibile corrispondente all’origine dei tempi. Soltanto l’eterno ritorno dell’origine poteva placare in loro l’angoscia dinanzi al futuro: futuro che era visto come incertezza, caos, impossibilità d’ambientamento, morte. L’apparizione di un avvenimento nuovo e inatteso poteva contraddire l’identità che li aveva costituiti in quanto popolo. Il tempo costituiva una minaccia per 1’ordine dell’universo e tutte le società dovevano organizzarsi attivamente per difendersi da essa. La festa religiosa era allora il modo privilegiato di difendere l’ordine del cosmo Per altri popoli, invece, il senso della vita personale e sociale va ricercato soltanto nel futuro. Niente è; ogni cosa sarà, qualche volta giungerà ad essere. In questa direzione si è volta, per esempio, e si è sviluppata una grossa parte della moderna cultura occidentale. In certe circostanze ciò assume il volto di un’ideologia del progresso tecnico indefinito ed illimitato; in altre invece quello di una formulazione gnostica esoterica. In casi del genere la festa diventa un modo di sfuggire dal carcere del presente e del passato per attingere in qualche modo a ciò che sarà, ma che ancora non possiamo sperimentare. Diversamente che nel caso descritto in precedenza, qui scopo della festa è non proteggere la società dal caos, ma anticipare il futuro compimento della storia. E in tale prospettiva si deve perciò scalzare, distruggere tutto ciò che è e tutto ciò che fu. La presenza del passato è una minaccia per la consumazione della storia. La festa assume allora il senso di rappresentazione del tramonto; rappresenta il rogo finale dalle cui ceneri sorge infine, su un orizzonte vuoto, l’uomo perfettamente compiuto. Tutto il nichilismo moderno muove in tale direzione. Si può distruggere ciò che esiste, ma non si può, né si deve, fondare nulla in luogo di ciò che è stato distrutto poiché qualsiasi proposta di rifondazione equivarrebbe in qualche modo a restaurare, quale fonte di senso, il passato e il presente. La festa è qui un eccesso di morte. Una terza possibile risposta dinanzi al giudizio della storia è quella data ai dalle culture che si sforzano di salvare il presente contro A passato e contro il futuro. In tale prospettiva il senso della vita umana e sociale consiste piuttosto nell’annullamento del tempo e della storia, e nell’eterna contemplazione di se stessi. La festa, in questo caso, è silenzio e vuoto: un eterno presente vuoto può placare l’angoscia di un passato che ritorna o di un al futuro che si presenta incerto. Si tratta di una risposta che non è stata praticata soltanto dal quietismo religioso d’altri secoli. In certo modo la pratica anche la moderna società industriale: la società del consumo e del benessere è il grande spettacolo sociale dell’eterno presente. Qui la festa non è più un momento solenne che prepara la risposta sul senso della vita, ma un tema triviale e quotidiano; la società intera diventa uno show che replica eternamente se stesso. Qual è invece il senso cristiano della festa? Per rispondere a questa domanda non dobbiamo fare altro se non guardare all’archetipo d’ogni festa, alla festa per eccellenza nella quale vive la Chiesa, e attraverso la Chiesa, tutto l’universo: l’Eucaristia. Essa è la risposta più profonda al giudizio sulla storia, cosi come al giudizio sulla vita personale di ciascuno di noi. A differenza delle risposte che abbiamo più sopra illustrato, questa non ha carattere d’eccesso nel senso forte del termine, e nemmeno di fuga verso il passato o verso il futuro. E invece offerta totale della vita divina fatta all’uomo. In altre parole il giudizio che Cristo dà sulla storia ne muta lo stesso centro di gravità. Protagonisti della storia non sono più H cosmo o il mondo e le sue forze, bensì tutti e ciascuno gli uomini, i quali non sono più abbandonati a se stessi in una ricerca disperata di liberazione dalle angosce. Il senso cristiano della festa consiste allora nella celebrazione dell’iniziativa di Dio nella storia e nell’accoglimento di essa da parte dell’uomo Non per questo si tratta di un ingenuo trionfalismo ignaro della morte e del dolore. La festa cristiana è festa della speranza in quanto allegria di sapere che l’irruzione di Dio nella storia è capace di vincere la morte La festa non è allora opposizione e resistenza dell’uomo alla storia, al futuro, al passato o al presente, bensì celebrazione più intima di tutto il suo significato.
B. Santi:
Questo mio intervento è in particolare il frutto di un’esperienza. L’esperienza del mio incontro con i Mapuches (‘Gente della terra’, come essi si definiscono), detti anche Araucani, come li chiamarono gli spagnoli riprendendo una parola del quechua, la lingua degli incas, che vuol dire ‘guerriero indomabile’. Devo subito aggiungere che il tema mi è risultato difficile, e che il mio intervento sarà breve perché i miei professori sono stati reticenti con me, non mi hanno voluto insegnare tutto ciò che avrei desiderato apprendere. Chi sono stati i miei professori?, mi domanderete voi. I miei professori sono i poveri, di cui la cultura popolare è la grande ricchezza. Ed in particolare, con riguardo al tema di questa sera, quei poveri che sono oggi gli indios Mapuches che vivono nel sud australe, subartico del Cile, superstiti di un popolo che per tre secoli ha combattuto indomabilmente prima contro gli spagnoli e poi contro i cileni sino ad essere quasi sterminato Conclusasi, dopo immense stragi e spoliazioni di terre, l’aggressione fisica, è iniziata quella culturale. Oggi gli Araucani subiscono duramente le conseguenze di tale aggressione. E di tale stato di cose l’esperienza della festa è un chiaro sintomo. Le feste mapuches sono oggi caratterizzate da una musica triste, ripetitiva, lenta, monotona, a volte lamentosa: espressione di un popolo che si trova di fronte all’invasione di una cultura secolarizzante che gli è del tutto aliena, di fronte all’ingiustizia, di fronte a spoliazioni di terre che malgrado tutto continuano anche oggi. Evangelizzati grazie alla loro religiosità, ed all’opera di missionari francescani cappuccini provenienti dalla Germania, i Mapuches trovano tutta via nella celebrazione delle feste cristiane il luogo in cui manifestare comunitariamente una speranza di totale liberazione Prima di concludere desidero raccontarvi questo episodio, accadutomi di recente, che mi sembra ben descrivere come il seme della speranza cristiana germogli in questo popolo stremato dalle stragi di un tempo e dall’espropriazione culturale di oggi. Pochi giorni fa, in preparazione all’incontro di questa sera ed alla vigilia della mia partenza per l’Italia, mi ero recato a Traiguen, nell’estremo sud del Cile, per raccogliere dalla viva voce dei Mapuches le notizie che desideravo poi comunicarvi. Stavo interpellando un giovane Mapuche quando questi, nel vedersi tempestato da tante domande sul suo popolo, la sua religiosità e la sua cultura, mi domandò il perché della mia curiosità. Al che gli risposi che di lì a poco dovevo partire per l’Italia, per Rimini, dove molte persone si sarebbero riunite per ascoltare quello che avrei loro detto in proposito. Allora questo giovane Mapuche mi rispose: ‘Padre, porti a queste persone anche un nostro messaggio di saluto’. Recitò quindi il Padre Nostro in lingua mapuche ed aggiunse: ‘Il nostro saluto è questo’.