Costruire la Chiesa per liberare l’uomo

Venerdì 30, ore 15

Incontro con:

Filippo Santoro

Regina Da Silva Nunes

 

Don Filippo Santoro è originario di Bari. Da sette anni è in Brasile dove insegna teologia all’Università Cattolica di Rio de Janeiro. Dal 1988 è responsabile del Movimento di Comunione e Liberazione in America Latina.

Santoro: Vorrei cominciare questa testimonianza col ricordare Don Francesco Ricci. L’esperienza che sto vivendo personalmente, tutta l’esperienza del Brasile, in particolare anche quella della Scuola Agricola, di cui parlerà Regina, hanno la loro origine, l’intuizione, il punto di partenza nella testimonianza di Don Ricci. Anche il mio stare in America Latina è dovuto ad un suo invito, ad una sua discreta suggestione. Era il febbraio del 1984; a Bari stavamo preparando la visita del Papa. Don Ricci venne per una conferenza. A cena cominciò a parlare dei vari succhi di frutta brasiliani e delle loro specifiche proprietà. Poi, tra un succo e l’altro, cominciò a parlare della richiesta del Cardinale di Rio de Janeiro di un sacerdote che potesse insegnare teologia cattolica presso la locale Università Cattolica e di un sacerdote che stesse insieme agli universitari. Tra un succo e l’altro ho capito che la proposta era per me, e ho cominciato a pensarci. Due mesi dopo la stessa proposta mi fu fatta con grande discrezione da Don Giussani e di fronte a questa voce così chiara e inequivocabile risposi con immediatezza (mi meraviglio adesso della disponibilità e della forma immediata con cui ho detto di sì!), con libertà e con letizia, perché sapevo che quello che avevo vissuto in tutti quegli anni a Bari e in Puglia potevo viverlo ugualmente nella nuova situazione, anzi ero convinto che quando la nostra amicizia ci chiede qualcosa è sempre per un guadagno, è sempre per un di più. Perciò dissi subito di sì. Partii insieme con il mio grande amico don Giuliano, di Rimini.

Eravamo preparati ad andare nelle "favelas" di Rio de Janeiro e finimmo a Copacabana, a 20 metri dalla grande spiaggia; la cosa interessante era come immediatamente l’esperienza che vivevamo potesse continuare in questa situazione molto diversa, perché era ritenuto pressocché impossibile far nascere il Movimento in una realtà come quella di Copacabana. Poi cominciò l’esperienza dentro alcune scuole medie superiori, poi in Università, poi il cammino è cresciuto sempre di più.

Voglio in questa testimonianza parlar più che del mio lavoro, dell’esperienza in tutta l’America Latina, di cui dall’88 in poi, in seguito alla malattia di Don Ricci, mi è stata indicata la responsabilità e il compito di seguire le varie comunità. In questo lavoro mi accompagnava prima di tutto l’esperienza di una grande amicizia e, secondo, le provocazioni che la realtà mi faceva continuamente. Ne ricordo due. La prima è legata ad un’opera della nostra parrocchia di Nostra Signora di Copacabana, l’opera di "Dos Pecheninos di Jesus" (I piccolini di Gesù), che accoglie mendicanti, ubriachi, persone abbandonate per le strade di Rio de Janeiro ed offre un caffè, assistenza giuridica, un momento di evangelizzazione. A quei tempi andavo tutte le settimane a questo momento di evangelizzazione. Era una esperienza ricchissima in cui l’aspetto più impressionante era l’essere accolti, l’essere perdonati: persone che avevano fatto e che facevano cose di tutti i tipi ricevevano una parola e una esperienza di perdono, un annuncio di pace. Ma uno di questi ubriachi, un giorno mi ha provocato; tra il lucido e l’annebbiato mi ha detto una cosa verissima: "Lei, padre, viene a parlarci qui, io la notte passata sono stato fuori all’agghiaccio e non è l’unica volta che dormo all’agghiaccio. Lei quante volte ha dormito all’agghiaccio?".

Un’altra grande provocazione è stato un incontro fatto in una scuola media superiore di Quito, in Ecuador. Dopo un’assemblea con tutti gli studenti, in cui si era parlato del desiderio di vita e di felicità, un ragazzo mi domanda: "E se mi muere il desejo?" (E se muore il desiderio?) In quel momento ho capito che se noi siamo in missione, in America Latina, è soltanto perché il desiderio non muoia, è soltanto perché la vita non muoia, è soltanto per testimoniare che c’è qualcuno che risponde al desiderio, che è più grande del desiderio, e noi, avendolo riconosciuto, comunichiamo che il desiderio è salvo: fosse abbandonato a se stesso sarebbe disperso, sarebbe reso vano, sarebbe oscurato e dimenticato. La nostra esperienza è l’accoglienza di chi non ha un tetto ed una casa, ma soprattutto la salvezza del desiderio, per cui la missione, prima che discorsi sulla missione, è testimoniare nella mia esperienza che la vita è accolta, e che il desiderio non "se muere e mas", non può morire, non può finire, perché qualcosa ci è accaduto, qualcosa ci accompagna tutti i giorni nei vari incontri, piccoli e grandi.

Voglio raccontarvi un altro episodio. Sono stato a visitare una comunità in Perù, una comunità nella città imperiale degli Incas, che si chiama Cuzco. Sono stato portato a visitare le rovine di uno dei punti più straordinari che si chiama Machupiccu, una grande città inca distrutta quasi totalmente, dove ci sono dei resti archeologici straordinari. Vicino alla grande città c’è anche un’alta montagna. Con chi mi accompagnava, sono salito fin sulla cima della montagna con tutta l’ebbrezza della scalata. In questo punto alto si sperimentava la religiosità straordinaria di questo popolo che aveva costruito quella città fuori dai circuiti commerciali (infatti gli Spagnoli non l’hanno distrutta, è andata da sola in decadenza) in mezzo al verde di montagne altissime dai 3000 metri in su, che era un grande richiamo al Mistero infinito. Mentre ammiravo le rovine di questo luogo religiosissimo che parlava del Mistero, il mio amico ha detto: "Recitiamo insieme le lodi del mattino". Mi è divenuto evidente che quel Mistero che i popoli incas cercavano non era rimasto nascosto dentro le rovine, ma si era fatto conoscere, si offriva a ciascuno di noi, a noi era stato dato di incontrarlo e di riconoscerlo.

Quando sono tornato alla città di Cuzco ho detto ai miei amici (una comunità di venti persone): "Quella storia sarebbe morta, sarebbe pura archeologia, sarebbero pure rovine, come quelle di Pompei o della Grecia, se il Mistero a cui alludevano non fosse stato riconosciuto, incontrato e amato. Allora, più importante delle rovine di Machupicchu è la vostra unità qui, più importante perché voi quel Mistero l’avete visto, lo state sperimentando, lo incontrate, perciò questa è la vera grandezza che salva tutta la storia degli Incas e si apre a una speranza dentro il presente". Così hanno cominciato a raccontare che vivevano una esperienza di caritativa, una cosa semplicissima. Il riconoscimento nella loro unità di questa presenza grande, puro dono, era la fonte di un atteggiamento diverso anche nella situazione difficilissima che il Perù e l’America Latina rappresenta.

Il punto che sostiene tutta la mia e la nostra esperienza è proprio l’unità, una unità molto semplice in comunità di 2 o 3 persone o di 200, 300, 500 e più, ma che ha in questa gratuità il suo punto forte.

Un’unità semplice come quella dei nostri amici che in Paraguay sono 90 nella città di Asunciòn ed hanno allestito una mostra che è stata un gesto, una proposta per tutta la nazione. Una unità che vive nei vari punti del continente Latino Americano, che si manifesta anche nella grandezza e nella complessità di alcune opere, per esempio le "Favelas" di Belo Horizonte nella periferia di S. Paolo, la Scuola Agricola di Manaus: in tutti questi posti c’è un luogo in cui è possibile attraverso l’amicizia sperimentare e vivere la grandezza dell’Avvenimento. In tutti questi posti quello che sempre, fin da principio, mi ha riempito di stupore, è stata l’esperienza di una unità, prima tra i più grandi, tra i miei amici preti, perché è stato come un miracolo, una sorpresa totale, un riconoscimento, immediatamente era come sperimentare che ricercavamo la stessa grandezza e lo stesso cuore, ed è successa per pura grazia, per pura gratuità senza nessun programma, sin da quando sono andato dopo l’invito di don Giussani e dopo quel grande invito del Papa: siamo in missione – questo è il punto che più mi affascina – non è per organizzare la vita in America Latina, ma per la nostra felicità e per la nostra vocazione. Non è per far funzionare le cose, perché saremmo sproporzionati a questo scopo, non è per aggiustare o per pensare una strategia di conquista ma per qualcosa che ci conquista, che è grande per me, che è grande per noi, che è il gusto dell’amicizia, il gusto della risposta sempre più libera, sempre più personale al grande avvenimento. Questo è il dono più grande che mi marca, mi accompagna e sostiene tutto il nostro lavoro. Un cuore, un dono come questo, vale quando siamo in due, quando siamo in venti, quando siamo in duecento persone, è un fatto che accompagna i gesti piccoli e grandi. Una unità così è fonte di fatto della missione per tutti noi e per i nostri amici. Una cosa bella è che non è rimasto il circolo della fraternità dei preti. Attorno a noi c’è una responsabilità di persone adulte che costruiscono le opere, che sono "autonomi" nel senso che assumono la responsabilità e vivono lo stesso gusto di amicizia e di unità che a noi è stato dato, si comunica anche ad altri ed è la continuazione del dono che ha toccato ciascuno di noi. Questo tipo di unità è all’origine della missione. Abituati ai grandi incontri può nascere la tentazione che per fare missione bisogna essere in 200, in 300, in 5.000, in tanti, mentre questa amicizia ci dice che la missione comincia con uno. Quando sono uno, due, tre persone già è l’inizio di una cosa grande, di una cosa che non ha limiti e confini. Se fossimo ricattati dall’esperienza del numero, dall’esperienza delle circostanze, saremmo fermi al punto di partenza; invece l’origine è quella che determina anche dove c’è una persona sola. Ci sono vari nostri amici che per incontrare una o due persone fanno centinaia di chilometri, perché non c’è nulla di più grande dell’annuncio rivolto ad una persona e a ciascuno di noi. Così è anche per me: quando parto per incontrare i responsabili delle varie nazioni, vado per la possibilità di vivere una amicizia. Come vivo l’amicizia qui in Brasile così è grande l’amicizia con la responsabile del Paraguay, con il responsabile dell’Argentina, è un impeto di amicizia e di rapporto semplice, qualcosa che in verità si sperimenta con un gusto sempre maggiore, il gusto di una cosa vera che nasce e che cresce.

Vorrei terminare con una piccola annotazione. Questa grandezza è realmente qualcosa di non immaginato e di non programmato, è una grandezza che ci è donata e che ci portiamo dentro. Dicevo ai miei amici di Bari: "Quello che mi è dato di vivere, perché sono circostanze che mi hanno portato a questa esperienza, è qualcosa che ciascuno di voi può vivere, non è una esperienza individuale e singolare, è un’esperienza che ognuno di noi, stando dove è chiamato ad essere, può vivere con un cuore che abbraccia tutta la grandezza della America Latina. Viviamo una esperienza così grande che supera i limiti e abbraccia tutta la terra, perché noi, tutti noi, apparteniamo a qualcosa di infinitamente grande".

Regina Da Silva Nunes, insegnante di lettere, è responsabile della Scuola Agricola di Manaus.

Da Silva Nunes: Io sono una Cabocla dell’Amazzonia. Cabocla significa originaria. Lavoro in una scuola che dista 40 chilometri dalla città di Manaus. La "Scuola Agricola Regina degli Apostoli" ha 17 anni ed è stata fondata dai Padri del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere). Nel 1984 Don Ricci è stato lì, e ha visto che quella scuola, per le sue dimensioni, poteva essere l’espressione del nostro modo di vivere; la scuola, infatti, serve tutta la regione, perché abbraccia i municipi, le città dello stato e gran parte dell’Amazzonia. Vi studiano ragazzi che vengono dall’interno dell’Amazzonia e che hanno intenzione di imparare a lavorare nell’agricoltura e nella zootecnia. Nella scuola vivono, studiano e lavorano circa 200 ragazzi tra i 14 e i 23 anni. Ciò comporta tutti i relativi problemi: didattici, di alimentazione, di vestiario, di salute, ecc. Questa scuola dal 1985 è mista, offre posti tanto per i ragazzi quanto per le ragazze. Padre Massimo Cenci e padre Giuliano Frigeni, i sacerdoti che fin dall’inizio seguono il movimento a Manaus, sono del PIME, l’istituto che era proprietario di questa scuola dove dal ‘79 alcuni di noi insegnano. Don Ricci la visitò nell’84, gli piacque e cominciò ad insistere perché facessimo noi una scuola così.

Poiché noi non potevamo farlo, dal momento che esisteva già una scuola, pensammo di aiutarla attraverso un progetto dell’AVSI che ha messo in piedi un’azienda agricola a lato della scuola per sostenere la scuola stessa. Nell’88 il PIME aveva fretta di offrire questa scuola ad un’altra entità, perché non disponeva più di risorse umane per gestirla. Questa fu la prima provocazione. Le realtà interessate all’acquisto della scuola erano tre; la scelta cadde su CL. Il superiore del PIME disse che aveva scelto CL perché conosceva l’esperienza educativa di CL in Italia.

La seconda provocazione per prendere la scuola è contenuta nei due criteri che ci indicò don Giussani: se la Diaconia nazionale del Brasile era d’accordo nell’assumere quest’opera e se quest’opera faceva crescere la comunità di Manaus. Questo ci preoccupò perché noi pensavamo che ci domandasse se c’era gente del mestiere, gente che sa trattare con una scuola agricola. Eravamo quattro professori e un amministratore disposti ad assumere quest’opera e nessuno dell’area agricola, e noi pensavamo che questo avrebbe bloccato lo sviluppo dell’opera. Avevamo una grande paura perché quella scuola aveva una importanza molto grande per noi, e anche oggi non sappiamo calcolare bene la sua grandezza. In quel tempo noi approfondivamo le tre dimensioni del Movimento: la cultura, la carità, la missione. E quel luogo era la provocazione più grande, perché tutto ciò che avevamo ascoltato fosse nostra effettiva esperienza, e si tratta di una ricchezza culturale, tutta ancora da imparare. Sperimentavamo allora, come io oggi sperimento qui, che la paura è vinta dalla compagnia, perché noi non siamo soli. Noi abbiamo preso una scuola che sapevamo fin dall’inizio si trovava in condizioni disastrose: non c’erano alimenti, non c’erano forme didattiche e gli alunni erano stati anche colpiti da una campagna culturale contraria. Dopo queste due provocazioni, non avevamo affatto la maniera per dire di no, perché si trattava di un’occasione per realizzare quello che noi eravamo, cioè professori. E la nostra sorpresa è che abbiamo incontrato vecchi amici, persone che lavorano lì da 10, 12 anni, e loro aspettavano tutti noi, aspettavano questa novità del passaggio di proprietà come una grande speranza. Non c’era nessuna possibilità di tornare indietro.

L’anno scorso è stato il nostro primo anno di gestione. L’unica cosa che sappiamo e che siamo riusciti ad ottenere è stato di sopravvivere economicamente, con l’aiuto di tutta questa compagnia. Siamo stati insieme a questi tecnici che erano totalmente dediti a quest’opera, che amavano quella scuola, e quello che abbiamo fatto è stato affermare sempre che il valore di tutto è l’amicizia tra di noi davanti a tutte le difficoltà. Una volta tra noi c’è stato un malinteso: è accaduto qualcosa con alcuni ragazzi e io dicevo che la colpa era nostra e così abbiamo litigato molto tra di noi. Io sono andata a casa e mentre cercavo di dormire sono giunta ad una conclusione di questo tipo: persino la scuola può terminare, questo non importa molto, quello che importa è che noi siamo amici. Abbiamo guadagnato molta libertà, perché non valeva più il risultato, che tutto andasse per il meglio; valeva che in tutto quello che noi potessimo fare, rimanessimo uniti ed era vero che rimanevamo uniti.

In questa scuola molti alunni vengono da molto lontano. Il metodo per fare conoscere la scuola è semplice: facciamo un bollettino di informazione e lo diamo a ciascun alunno quando torna a casa per le vacanze alla fine di ogni anno. Andiamo anche nelle missioni, nelle sedi dei missionari che si trovano a Manaus e lasciamo anche a loro questi bollettini informativi. Solo quando comincia l’anno sappiamo il numero preciso di iscritti alla scuola. Non c’è altro modo per verificare questo a causa delle distanze, del difficile accesso, delle difficili comunicazioni. Vi porto due esempi per illustrare questo. Una volta ci fu comunicato che la mamma di un alunno era ammalata. Partì subito. Dopo un mese tutti gli amici pensavano che non sarebbe più tornato. Mi ricordo che eravamo nell’aula e lui arrivò con il suo fagotto (nella scuola le aule non hanno finestre per cui si vede chi viene e chi va). Mentre passava tutti applaudivano. Io immediatamente non capii bene perché ero da poco tempo nella scuola. Nell’ora del pranzo io rimasi a parlare con lui. Mi disse che aveva viaggiato 15 giorni per raggiungere sua madre, l’aveva visitata per un giorno ed era subito ripartito. Era contento perché era riuscito ad andare e ritornare con un passaggio. È per questo che tutti applaudivano. In molti casi per mancanza di soldi o per altre ragioni i ragazzi non tornano più a scuola.

Un altro caso. Nella nostra scuola ci sono gli indios. Gli indios quando prendono il raffreddore muoiono. Uno di loro dopo due mesi che era nella scuola prese un raffreddore e insisteva per tornare a casa. Allora gli abbiamo detto: "Ma se tu a causa di questa influenza prendi la barca adesso, in 15 giorni tu morirai e non avrai nessun aiuto medico durante il viaggio: è meglio che tu rimanga qui, così noi ti curiamo". Lui ha capito e ha accettato, sapendo che cosa significa la distanza, pur con tutta la paura che aveva. Questo fu una grande testimonianza perché in seguito altri si sono ammalati e non si sono riempiti di spavento come lui. Lui era il figlio del capo della tribù degli Tusciaua e se lui fosse andato via, insieme a lui sarebbe partita tutta la tribù.

Dalle tribù degli indios vengono solo gli uomini (anche se poi nei campi lavorano le donne), i figli di capi, perché chi può insegnare il lavoro sono i figli dei capi. Chi pensa agli indios come a persone ingenue, romanticamente parlando, sta totalmente errando perché non è così. Non sono innocenti, vi è una grande rivalità tra una tribù e l’altra: una caccia, l’altra tribù prende la caccia e la ruba. Una tribù spinge l’altra ai margini della foresta e rimane vicina alle rive dei fiumi dove è più facile vivere. Questa rivalità arriva perfino nella scuola. La tribù dei Tucano, che è più forte, manda indietro la tribù Macu, più debole, perché non vuole che questi imparino il mestiere. E di fatto quelli di questa tribù apprendono con molta difficoltà, hanno una mentalità ristretta rispetto al nostro modo di pensare. Questo ci sembra dovuto non ad una incapacità di intelligenza e di raziocinio, ma ad una differenza culturale che li blocca. Le due tribù che hanno questa difficoltà agli studi sono gli Aracu e gli Yanomani. Loro sono rivali, però nella scuola sono trattati allo stesso modo e col tempo chissà che anche questa rivalità possa essere superata.

Voglio raccontare la storia di un ragazzo di 24 anni, della tribù Macu. È tornato quest’anno per la quarta volta alla scuola. Era molto timido; quando assisteva alle lezioni, non capiva niente e allo stesso tempo non chiedeva niente. Quando aveva bisogno di qualcosa un’altra persona doveva chiedere al suo posto perché lui non chiedeva. Questo è accaduto per molto tempo sino ad ora. Prima che io partissi, lui ha cercato un nostro amico, Celso, e gli ha detto: "La mia amaca si è strappata". Dopo che ha detto questo Celso era molto emozionato perché era la prima volta che lui chiedeva; ciò era segno che questo indio riconosceva una amicizia perché non si fa una richiesta come questa senza che ci sia un’amicizia vera.

Una cosa che ha valorizzato tutti questi ragazzi è stata la mancanza di soldi. Ad esempio, avevamo bisogno di tante scope e loro stessi hanno fatto le scope. È stata una cosa grande perché si sono sentiti utili e questo per i rapporti dentro la scuola è stato molto significativo. Siccome è un internato, la nostra scuola richiede non appena l’insegnamento, ma altresì l’attenzione alla salute, all’alimentazione. Per molto tempo la nostra più grande tentazione era quella di lasciarsi determinare dal volume di lavoro, dimenticando tante volte il lavoro di Scuola di Comunità. A poco a poco abbiamo capito che la cosa più importante non era buttarsi nel lavoro, pensare sempre a questo, ma affermare ciò che vale davanti a ciascuna difficoltà, ad esempio l’incendio del pulmino che serve per il trasporto dei professori. Noi non abbiamo soldi per mantenere la scuola, immaginatevi se avevamo soldi per un altro pulmino. Ancora una volta abbiamo capito che non eravamo soli e che eravamo parte di una grande compagnia che era attenta a noi e che ci consolava. Penso che molti tra di voi conoscono questo episodio perché fu fatta una colletta tra di voi per aiutarci. E di fatto abbiamo cominciato l’anno con un pulmino nuovo.

Quest’anno è cominciato in forma nuova per il desiderio di mostrare il nostro volto a questa scuola. Abbiamo cambiato la posizione delle cose nella sala e nell’ambiente. Abbiamo cominciato a fare Scuola di Comunità per tutti gli alunni e per tutti i professori mentre l’anno scorso la facevamo soltanto tra di noi. Abbiamo cominciato solamente e semplicemente per una obbedienza perché non credevamo che fosse questo che si doveva fare. Invece Scuola di Comunità ha definito il nostro volto, il nostro modo di essere. Anche il pregare nel pulmino andando a scuola era totalmente comunitario. Dire l’Angelus prima del pranzo comincia ad essere una cosa non strana. Era per noi ed è il nostro volto. Abbiamo anche lavorato sui manifesti di Pasqua: quello che è accaduto è stato un fatto molto palpabile.

Nel fine settimana rimane sempre un tecnico nella scuola perché noi non siamo qualificati per questo lavoro, soprattutto il lavoro con gli animali. Uno di loro ha preso una ragazza e due assistenti l’hanno visto. Per un po’ di tempo hanno aspettato che lui stesso ci raccontasse perché era nostro amico e partecipava della vita della comunità. Per tre settimane non ha detto niente. Allora, il responsabile è andato dal direttore e ha raccontato quello che è accaduto quel fine settimana. Quando l’abbiamo saputo gli abbiamo chiesto di raccontarci seriamente quello che è accaduto, ma non ha avuto il coraggio di confermare. Dopo abbiamo saputo che temeva di essere cacciato dalla scuola, perché prima il regolamento era così. Allora siamo andati a parlare con il responsabile della comunità, padre Massimo. Siccome noi vogliamo molto bene a questo giovane, volevamo una decisione saggia. Il giudizio è accaduto dentro il clima creato dal manifesto di Pasqua: il nostro metodo è il perdono. Prima, quando parlavamo dell’amicizia, della compagnia, indicavamo un criterio che non era riconosciuto da tutti. Adesso no. Gli è stato detto che lui doveva continuare a lavorare per un mese, partecipare dell’incontro di Rio de Janeiro e poi riconoscere di fronte ai responsabili che aveva sbagliato. E lui ha fatto tutto questo. Quando sono andata a parlare con lui, ha detto: "Ho fatto una cosa grave e seria, vero?" E poi ha proseguito: "Sì, ma è stata buona, perché ha reso possibile fare l’esperienza del perdono e della compagnia. Io avevo sentito parlare di questo ma non l’avevo sperimentato". E quando c’è stato l’incontro delle opere gli ho chiesto: "Come va il lavoro nell’azienda?". E lui: "È la stessa cosa che si vive nella scuola". Questa è stata una cosa grande perché prima si pensava che quel clima buono fosse un clima solo della scuola. Invece lui testimoniava che questo stesso clima da quel momento in avanti è stato possibile viverlo anche fuori, nell’azienda agricola e in ogni luogo, perché il lavoro non è appena un luogo di fatica, ma è veramente un luogo di incontro. È un luogo in cui si può vivere una forma tale che l’esperienza del Movimento possa essere rinnovata.