C’è ancora l’università?
Lunedì 19, ore 11.30
Relatori: Sua. Ecc. Mons. Angelo Scola, Moderatore:
Paolo Mantegazza, Magnifico Rettore della Pontificia Giancarlo Cesana
Magnifico Rettore Università Lateranense e Preside
dell’Università Statale di Milano dell’Istituto Giovanni Paolo II
per Studi su matrimonio e famiglia
Cesana:
Il titolo di questo incontro è provocatorio. Esso prende spunto dalla lettera di uno studente delle scuole medie superiori riportata ne Il Rischio Educativo di don Giussani il quale scriveva: "Ci fanno studiare la storia, una serie complessa e numerosa di date, ma non ci spiegano il senso che collega queste date e così da una parte finisce che ce le dimentichiamo, ma soprattutto non comprendiamo il significato vero degli avvenimenti storici, o meglio non comprendiamo proprio il significato".Questo problema presente nelle scuole medie superiori c’è in misura ancora maggiore nelle Università, perché l’Università, come dice la parola stessa, è nata con una pretesa universalista, cioè col desiderio di collegare le diverse modalità e i diversi contenuti della conoscenza nella ricerca di un senso della vita.
Mantegazza: Come giustamente ha sottolineato il professor Cesana, questo incontro ci propone un quesito provocatorio; non ci chiede che cos’è l’Università oggi, ma se c’è ancora: l’Università ha fatto il suo tempo? Ha senso mantenerla in vita così com’è e così come funziona? Ha senso chiamarla ancora Università? È l’Università un luogo da abbandonare o da conservare innovandolo?
Per alcuni è giunto il momento di pensare ad una istituzione completamente diversa: secondo costoro l’Università tradizionale è superata dagli avvenimenti, e non può, così com’è, sopravvivere. Secondo altri invece, la maggioranza, l’Università può e deve sopravvivere se si procede ad un suo rinnovamento, ad una sua riqualificazione e al ricupero di certi valori che col tempo sono andati perduti. Tra costoro, purtroppo non c’è un accordo su che cosa si debba intendere per rinnovamento e per riqualificazione, né c’è unità di vedute sugli strumenti che servono a far compiere un salto di qualità all’Università. Gli interessi vari e il desiderio di difendere troppi privilegi fanno sì che ci sia una diversità di opinioni e, tutto sommato, molti credono che sia più utile l’immobilismo, il non cambiare nulla.
Per superare questi ostacoli, le polemiche, i contrasti, le varie opinioni, da più parti si invoca la legge; ma il vero rinnovamento non può essere imposto dall’alto, dev’essere sentito e promosso da chi vive nell’Università. Ci si dimentica che raramente le leggi hanno reso un utile servizio al vero rinnovamento dell’Università, anzi, spesso esse si sono rivelate strumenti di pure operazioni di facciata, semplici interventi normativi che hanno inciso più sugli aspetti formali che su quelli sostanziali della vita universitaria, ed è scoraggiante osservare che, in nome del tuttora imperante principio della partecipazione democratica alle decisioni, si sono raggiunti talvolta risultati paradossali. A questo proposito basta ricordare qual è la dimensione di certe facoltà che sembrano veri parlamenti. Ad esempio nella Facoltà di Medicina di Milano sono 600 le persone che partecipano alle sedute dell’organo accademico e paradossalmente l’anno scorso è uscita una leggina che dice che in tutti gli organi accademici gli studenti devono essere presenti per il 15% rispetto al numero di coloro che partecipano all’organo accademico stesso, il che significa che in una facoltà di 500 persone, entreranno presto ben 75 studenti. Il principio in sé è più che giusto: è utile che siano presenti gli studenti. Creando organismi di queste dimensioni si fa però in modo che gli organismi non funzionino più, che non si raggiunga mai il numero legale.
Tutto sommato dunque le leggi hanno finito per ingabbiare l’Università e per renderne più burocratica l’esistenza. Inoltre le leggi sono di difficile lettura, oltre che essere scarsamente comprensibili. Non c’è legge che io abbia visto sull’Università che non abbia dovuto essere poi interpretata mediante una circolare interpretativa, la quale a sua volta poi è stata diversamente interpretata e messa in discussione o dal TAR o dal Consiglio di Stato, e via di seguito nei vari gradini della Magistratura. Tant’è vero che siamo arrivati al risultato paradossale che ormai l’Università è retta più dai Magistrati che dai Rettori.
Qualcuno potrebbe ricordarmi che proprio tramite la legge le Università hanno avuto l’autonomia statutaria, cioè hanno avuto la possibilità di autoregolamentarsi, e dunque la possibilità di cambiare l’Università stessa non partendo dall’alto ma dal basso. Ma se andate a leggere gli statuti delle Università, vi accorgerete che questi sono uno strumento concentrato di norme, un pedante susseguirsi di regole, talvolta anche di pura ispirazione demagogica, un fiorire di mega-organismi. Tramite gli statuti di fatto la gestione dell’Università si è resa più complessa e soprattutto più conflittuale, e si è persa una grande occasione, l’occasione di rinnovare – non da un punto di vista formale ma sostanziale – l’Università. Faccio un esempio: negli statuti non si fa cenno ai compiti e ai doveri dei docenti, né agli strumenti che ne promuovano l’impegno e il senso di responsabilità. Non parlo del controllo dell’attività didattica e di ricerca dei docenti, il che sarebbe una proposta sacrilega poiché lederebbe l’inviolabilità della libertà dei docenti, ma almeno della possibilità di prevedere negli statuti degli strumenti atti ad accrescere l’impegno dei docenti nella ricerca e nella didattica. Così constateremo ancora in futuro che in nome della libertà non si può prendere alcun provvedimento nei confronti di docenti che arrivano tardi a lezione, che sono impreparati, che si fanno sostituire a lezione, che spostano gli appelli già fissati di esame, che non si interessano delle tesi di laurea o addirittura non le accettano, che bocciano per tenere alto il prestigio della propria disciplina o della propria persona.
Ma indipendentemente da chiacchiere, polemiche, interventi normativi, leggi e statuti, fortunatamente l’Università sta cambiando, e sotto alcuni aspetti il cambiamento è veramente radicale. Vorrei prendere in considerazione tre motivi che stanno rivoluzionando l’Università.
Il primo è il vertiginoso, inarrestabile, imprevedibile espandersi delle conoscenze e quindi del sapere, dovuto sostanzialmente alle conquiste della ricerca; il secondo è costituito dalle pressanti esigenze del mondo che produce in continua rapida evoluzione e che richiede nuove competenze professionali; l’ultimo è il progresso continuo della ricerca e in particolare la competizione tecnologica collegata alla ricerca. Vorrei esaminare con voi a quali conseguenze hanno portato queste tre cause.
Per quanto riguarda l’espandersi delle conoscenze e del sapere, poiché questa espansione delle conoscenze avviene per opera delle discipline sperimentali, ne consegue che nell’ambito dell’Università acquistano un ruolo sempre più preminente le facoltà cosiddette scientifiche nei confronti di quelle umanistiche. Per esempio, nella mia Facoltà di Scienze, accanto agli otto corsi di laurea tradizionali – Biologia, Scienze Naturali, Matematica, Fisica, Mineralogia, Geologia, Chimica e Informatica – se ne sono aggiunti negli ultimi anni tre innovativi: Scienze Ambientali, Scienze dei Materiali e Biotecnologie. Ormai la Facoltà di Scienze ha assunto una dimensione tale da poter costituire un’istituzione autonoma, una Università a sé stante, come è successo per la Facoltà di Ingegneria, che in alcuni casi si è staccata dalle Università fondando i Politecnici. Ci sono anche altri esempi di Università che hanno un fondamento uni-tematico: la Facoltà di Economia, che è in continua espansione, gestisce numerosi corsi di laurea, e ha dato origine a delle Università monotematiche, come la Bocconi di Milano, la LUISS di Roma, o, più recentemente, l’Istituto Cattaneo di Castellanza. Ed è soprattutto la Facoltà di Medicina che ha caratteristiche profondamente diverse dalle altre, ed avendo anche responsabilità assistenziali, potrebbe in fondo staccarsi dall’Università, e far nascere – se ne parla sempre più spesso – Scuole di Medicina o Politecnici di Medicina. Questa è una delle conseguenze dell’espansione delle conoscenze: la tendenza nell’Università alla diaspora.
Ma ci sono conseguenze ancora più incisive. Con l’espandersi delle conoscenze sono nate la specializzazione, addirittura la super-specializzazione, e la frammentazione del sapere: non si possono più seguire le conoscenze nel loro crescere continuo, e quindi il sapere si è frammentato. Per capire cosa intendo per frammentazione del sapere, basta pensare – io sono medico e quindi faccio sempre riferimento alla Medicina a quello che è successo in questo campo – alla Chirurgia: l’insegnamento della Chirurgia, un tempo unitario, è stato frammentato in vari insegnamenti che fanno capo a diverse specializzazioni: la Neurochirurgia, la Cardiochirurgia, la Chirurgia polmonare, la Chirurgia vascolare, l’Urologia e via di seguito. Ma quello che è curioso è che accanto alla frammentazione del sapere è nata anche la frammentazione del fare: si è arrivati, per quanto riguarda il fare, addirittura a quello che un giorno ho chiamato lo "specialisma", la degenerazione della super-specializzazione. Voglio citarvi un esempio tipico. Nell’ambito della Traumatologia, dell’Ortopedia, ormai ci sono dei chirurghi che operano soltanto i legamenti del ginocchio, che sono diventati degli specialisti solo per fare questo e che di fatto fanno solo questo. Altri invece sono diventati specialisti delle riparazioni delle fratture del collo del femore...
Un’altra conseguenza è che si è arrivati alla frammentazione dell’insegnamento: è scomparso il docente enciclopedico che, in alcune facoltà, teneva un corso completo. Ai miei tempi, io tenevo tutto il corso di Farmacologia, sessantadue lezioni all’anno, e credo che in quei tempi io dominassi bene la mia disciplina; ma con l’espansione incredibile e imprevedibile delle conoscenze, ormai non domino più nel modo più assoluto la mia disciplina. Lo stesso insegnamento della mia disciplina è stato frammentato, io non ne insegno se non una minima parte. La mia disciplina ormai è insegnata da colleghi che si sono specializzati in Neuropsicofarmacologia, da altri che si sono specializzati in Farmacologia Cellulare o Molecolare, altri in Immunofarmacologia, altri in Chemioterapia, altri in Tossicologia.
Certamente questa frammentazione del sapere con insegnamenti suddivisi tra specialisti ha portato ad alcuni vantaggi: in particolare, ha consentito di avere un insegnamento più aggiornato e più approfondito, ma ha lasciato e lascia nei giovani l’imprinting della specializzazione. I giovani fanno fatica a mettere insieme tutto quanto imparano dagli specialisti e ad avere anche una visione unitaria della disciplina che stanno studiando. E non solo le modalità di insegnamento sono cambiate, ma anche i contenuti: la vita media di un volume sul quale gli studenti studiano è ormai non più di un biennio: ad esempio il trattato fondamentale della mia disciplina, la Farmacologia, viene rinnovato ogni due anni. La Medicina che si insegnava ai miei tempi non è quella che si insegna oggi, ma neppure quella che si insegnava dieci anni fa è quella che si insegna oggi. Vi voglio citare un altro esempio: io mi sono sempre occupato del linguaggio attraverso il quale le cellule colloquiano tra loro, soprattutto i neuroni, cioè le cellule che compongono il sistema nervoso centrale. Quando io ho cominciato la mia carriera, le parole che questi neuroni utilizzavano per colloquiare tra loro era sostanzialmente quattro, oggi sono più di un centinaio; ma quello che è sorprendente è che si è scoperto che ognuna di queste parole può dare un ordine diverso a seconda del recettore sul quale va ad interferire per trasmettere un ordine. Ci siamo così accorti di quanto meravigliosamente complesso e raffinato sia il linguaggio col quale opera il nostro sistema nervoso centrale.
Questo continuo espandersi delle conoscenze, il continuo superarsi di quanto si conosce e la conseguente necessità di aggiornamento dell’insegnamento, insegnano qualcosa non solo agli studenti, ma anche ai docenti. Insegnano ai docenti che non si possono dare ai giovani delle certezze assolute, e li abitua ad insegnare agli studenti ad apprendere in modo meditato e critico. Io ho vissuto sulla mia pelle questi cambiamenti, e mi sono trovato talvolta ad essere uomo di altri tempi, superato dalle nuove conoscenze; ho visto crollare certezze, travolgere dogmi, cadere miti. Ero convinto che i risultati delle ricerche durassero almeno la mia generazione, che almeno i dati delle mie ricerche potessero resistere per quel tempo in cui fossi sopravvissuto, e mi sono invece accorto, col passare degli anni, che la durata dei frutti delle ricerche è quella dei fiori del campo di evangelica memoria. I risultati di una ricerca talvolta invecchiano in poche ore, e ha ragione Max Weber il quale dice: "Forse l’essere superati sul piano scientifico è non solo nostro destino, ma è anche nostro scopo". Il destino di chi lavora in laboratorio, di chi fa ricerca è quello di aprire la strada ad altri, nella speranza che un giorno qualcuno apra uno spiraglio attraverso il quale si veda un nuovo grande panorama. Quindi, l’espandersi delle conoscenze dovrebbe educare i docenti alla modestia intellettuale e alla consapevolezza dei propri limiti. Coloro che fanno ricerca sanno che spesso imparano proprio quando sbagliano, e che quindi dipendono dagli altri anche solo per sapere solo che hanno sbagliato. I docenti dovrebbero rendersi conto che sono anch’essi dei discenti.
L’ultima conseguenza dell’espandersi delle conoscenze è forse quella più preoccupante, sicuramente la più sconcertante: ogni settore specialistico ha creato un proprio linguaggio, una propria terminologia, per cui è difficile la comunicazione non solo tra discipline diverse, ma anche nell’ambito della stessa disciplina. Io, farmacologo, ho difficoltà a capire quello che dice un immunologo, e viceversa. Questo potrebbe essere, sotto certi punti di vista, naturale: quello che però constato è che io farmacologo non capisco talvolta quello che dicono e fanno certi miei colleghi farmacologi. Il timore è che si vada incontro ad una specie di torre di Babele.
Per fortuna, come vedremo più avanti, in Italia ci sono, o stanno per nascere, dei rimedi, anche nei confronti di questa frammentazione delle conoscenze. Certo è che siamo in un momento cruciale, nel quale ci rendiamo sempre più conto che più conosciamo e più sappiamo di non conoscere. Scriveva Einaudi in proposito: "Chiunque dica o scriva le terribili parole ‘Io so’, ‘Noi sappiamo’, ‘Questa è la verità’, dichiara, così parlando, di essere fuori del mondo della scienza, di non appartenere alla corporazione degli universitari docenti e discenti. Noi sappiamo una cosa sola: di non sapere; la nostra divisa è una sola: noi non conosciamo, ma cerchiamo la verità, noi non siamo mai sicuri di possederla e torneremo ogni giorno a cercarla, sempre insoddisfatti e sempre curiosi (...). La critica chiusa entro confini stabiliti dagli uomini che da sé si sono definiti sapienti, non è critica, è abietta sottomissione alla guida-tiranno. L’Università dei docenti e dei discenti respinge questo tipo di critica. Il suo verbo è sempre e soltanto: la verità si conquista riconoscendo che ogni verità antica, che ogni principio accettato può essere l’errore. La verità vive solo perché essa può essere negata. Essendo liberi di negarla ad ogni istante, noi affermiamo, ogni volta, l’impero della verità".
Passerò ora al secondo motivo di cambiamento dell’Università: le esigenze del mondo del lavoro. L’Università, di fronte alle esigenze di un mondo che cambia con estrema rapidità sta diventando sempre di più un’istituzione professionalizzante, come dimostrano la nascita dei Diplomi e l’espansione delle Scuole di Specializzazione. È importante però che l’Università non diventi una vera e propria scuola professionale, dove si insegna un mestiere: per essere Università deve rimanere un’istituzione di cultura superiore, soprattutto quando si prendano in considerazione i corsi di laurea. L’Università deve dare delle basi culturali tali che i giovani possano affrontare il mondo del lavoro con competenza, ma anche con ampia cultura e spirito critico. Chi esce dall’Università deve avere una cultura adeguata a far sì che la sua preparazione gli consenta di seguire le necessità che il mondo del lavoro presenta. L’Università non deve preparare un tecnico che, per quanto bravo, ha una preparazione poco flessibile: deve invece dare delle basi culturali, dei fondamenti metodologici che facciano sì che chi esce dall’Università possa affrontare nel mondo del lavoro tutti i problemi che in futuro si presenteranno, che gli consentano di sopravvivere pur essendo i progressi del mondo del lavoro travolgenti.
L’ultima causa di rivoluzione è il problema della ricerca. È infatti alla ricerca che noi dobbiamo l’espansione delle conoscenze, è la ricerca che crea il sapere, ed è la ricerca una delle caratteristiche fondative dell’Università, svolta o in laboratorio con sofisticati strumenti o seduti dietro una scrivania, usando il più efficiente e raffinato degli strumenti che l’uomo possiede, il pensiero. La ricerca nell’Università deve soprattutto essere una ricerca di base: una ricerca non condizionata, libera, che può anche sembrare in certi momenti astrusa, senza scopi. Ma è proprio questa ricerca di base che ha portato alle conquiste più imprevedibili e innovative, a quelle conquiste che hanno aperto gli spiragli dai quali poi si vedono immensi nuovi orizzonti. La ricerca sta acquisendo un ruolo sempre più preponderante e più necessario nelle Università: insieme alla trasmissione delle conoscenze, la ricerca è l’altro cardine sul quale si fonda l’Università.
Ma c’è un punto interrogativo per quanto riguarda la ricerca: il costo vertiginosamente crescente della ricerca stessa, della ricerca sperimentale. Mi è a questo proposito venuto in mente quanto mi è capitato di dire qui al Meeting vari anni fa parlando della ricerca: dicevo che proprio la ricerca era sottoposta a tre tentazioni che avevano molta affinità con le tentazioni del Vangelo. La prima: "trasforma le pietre in pane"; la seconda: "gettati giù dal Tempio", cioè ricerca, a te è concesso tutto; la terza: "ti darò tutto questo se prostrandoti mi adorerai", è il condizionamento della ricerca al finanziamento. Voglio rileggervi quanto scrivevo allora, qualcosa che forse non è superato ancora oggi.
"Soffermiamoci ora molto brevemente sulla terza tentazione: ‘Tutte queste cose ti darò se prostrato mi adorerai’. Soddisferò, seguirò ogni tuo desiderio, ti darò tutto quello che serve per le tue ricerche, metterò a tua disposizione la potenza di ogni più avanzata tecnologia, ti darò onore e gloria (perché la ricerca avanzata porta anche questo), se prostrato mi adorerai. Questo è in realtà il discorso rivolto oggi alla scienza da parte di chi detiene il potere, e non solo economico, ma anche politico, ideologico, insomma tutto sommato anche scientifico. Questa è realmente la tentazione più preoccupante, poiché la scienza per progredire ha bisogno di tecnologie sempre più sofisticate, sempre più efficienti e costose. Oggi la vita media di un comune strumento di laboratorio è di pochi anni, gli apparecchi diventano completamente inutili quando sono superati da altri più efficienti, essi non servono più perché non sono più competitivi, cioè mettono chi li usa in condizioni di non poter più stare al passo con chi ne possiede di migliori. Per questo motivo il costo della ricerca sta raggiungendo cifre vertiginose. Pertanto, la scienza corre oggi il rischio sempre più preoccupante di essere condizionata e strumentalizzata, di perdere la propria autonomia. Oggi è in gioco la libertà della ricerca, e quindi la stessa sopravvivenza della scienza, in quanto potremmo avere una ricerca non tesa alla conoscenza della verità, ma al servizio di una verità politica, economica, ideologica e via di seguito. Potremmo avere una ricerca non a favore dell’uomo, ma di un uomo, di pochi uomini, di una casta ed ecco allora il monito del Vangelo: ‘Servi il Signore Dio tuo, a Lui rendi conto’, quindi non servire altri se non la verità, cioè Dio. È un invito alla libertà; la scienza non può essere asservita ad alcuno, la scienza in quanto ricerca della verità deve essere libera, se la scienza è asservita, anche l’uomo sarà tale".
Dopo tutte queste mie chiacchiere, verrebbe legittimo a qualcuno il chiedersi: "È così preoccupante che l’Università stia cambiando? Non è forse scontato, naturale che Università cambi? Cosa non sta cambiando in questi tempi? Non sarebbe invece preoccupante il fatto che l’Università non cambiasse, non si adeguasse, se trionfasse l’immobilismo?" E potrebbe anche chiedere: "Trasformata, l’Università potrà sopravvivere così come l’abbiamo sempre concepita, in modo ideale?". Credo che o riveduta o corretta, o totalmente rinnovata, riedificata, l’Università non potrà non chiamarsi, non definirsi, Università, se sarà strumento di trasmissione del sapere e – questo è l’aspetto fondamentale sul quale vorrei insistere – di creazione del sapere. È la creazione della conoscenza, frutto della ricerca, l’elemento che caratterizzerà sempre di più in futuro l’Università.
E l’unità del sapere? Credo che si finirà per ricuperare anche l’unità del sapere: i fatti cominciano a dare indicazioni in proposito. Credo che l’unità delle conoscenze messa da parte, accantonata dalla nascita della specializzazione di cui ho parlato, stia ritornando a galla, e paradossalmente per opera della ricerca, che a sua volta ha fatto nascere la specializzazione. Sta scomparendo la sindrome della "porta accanto"; chi visitava i laboratori di ricerca in passato, aveva occasione di chiedere al collega con il quale stava parlando: "che cosa fa il collega nella stanza qui vicino?" che di solito gli rispondeva: "non lo so, o se lo sapessi non sarei in grado di comprendere ciò che sta facendo". Ma per fortuna la sempre maggiore complessità dei problemi che la ricerca deve affrontare costringe oggi a mettere insieme competenze diverse. Oggi è normale leggere un lavoro scientifico firmato da più autori, venti, trenta e anche di più, o da ricercatori che sono in laboratori diversi, che provengono da discipline diverse, che lavorano in Università diverse in paesi diversi. Questo significa che si comincia a capire che è importante salvaguardare il dialogo intra e interdisciplinare e che è importante avere una visione ampia ed unificata della realtà, se si vogliono veramente far progredire le conoscenze. Il dialogo arricchisce, "infertilisce" – non saprei trovare un verbo diverso – il pensiero, feconda la stessa ricerca: si imporrà quindi sempre di più la necessità del dialogo e il dialogo finirà per porre rimedio alla specializzazione. Credo quindi che si possa ragionevolmente essere ottimisti: sia che sia ristrutturata, sia che sia totalmente riedificata, l’Università continuerà a vivere.
Scola: Quando mi proposero, qualche mese fa, il titolo di questa tavola rotonda, oltre a domandarmi cosa c’entrava con il resto del Meeting, mi è venuto in mente che già nel 1870, quando aveva soltanto 25 anni, Nietzsche, pochi anni prima di andarsene dall’Università, aveva scritto ad un amico questa frase: "L’Università è un ostacolo per chi voglia dedicarsi totalmente alla ricerca della verità". La questione è vecchia – si potrebbe anche risalire molto più indietro di Nietzsche –, e non si può rispondere semplicemente dicendo che l’Università oggi è comunque luogo in cui docenti e studenti si incontrano e lavorano per ricercare e trasmettere un sapere, e che sarebbe molto difficile creare rapidamente delle alternative valide. La risposta a questa domanda non sta nella retorica presupposizione di una negazione del valore dell’Università, ma può invece nascere facendo leva sull’avverbio utilizzato da Nietzsche cioè su quel "totalmente". Bisogna cioè prima di tutto domandarsi se l’Università potrebbe essere se stessa se mancasse l’obiettivo di consentire alla communitas dei docenti e degli studenti di perseguire totalmente, cioè con tutte le proprie forze, tutta la ricerca della verità, o meglio la ricerca della verità tutta intera. Questa è la questione intorno alla quale io voglio articolare la mia riflessione: esiste nelle nostre Università un tentativo organico di ricondurre ad unità, ad un principio sintetico – la reductio ad unum dei medievali – tutti i saperi che vi si comunicano? Ma, soprattutto, senza questo principio sintetico, che ne è dell’uni-versitas, di una struttura che è fatta per ricondurre verso l’uni-versitas, verso l’unum tutto ciò che lì si vive, si ricerca, si apprende, si insegna? È possibile, senza una integrazione armonica di un sapere con la totalità dell’io e della comunità delle persone che vivono nelle Università, che esistano maestri capaci di comunicare una competenza?
Voglio fare tre tipi di osservazione: anzitutto, dare un giudizio sulla attuale situazione dell’Università citando qualche antefatto dell’Università laica moderna; in secondo luogo, metterla in relazione a qualcuna delle sfide culturali più determinanti il frangente storico che stiamo vivendo; ed infine, affrontare la questione del rapporto tra Università e verità.
La prima questione suggerisce una lettura in prospettiva storica, che prendo a prestito dal filosofo americano Macintyre, il quale dice che l’Università moderna, pre-liberale – quella che va dal XVIII al XIX secolo – si fondava su una base elevata di omogeneità, sulla quale tutti dovevano ritrovarsi per poter poi ricercare liberamente e discutere liberamente. Questa base omogenea consisteva, secondo me in continuità con la concezione medievale del sapere, nella convinzione che una comunità di ricerca e di studio ha bisogno di una dimensione intellettuale unitaria; il riferimento ultimo era qui la teologia, e una dimensione morale unitaria. Questa unità di dimensione intellettuale e morale che sopravvive nella Università pre-liberale, era comune a tutti i sistemi di elaborazione delle varie scienze, per cui la giustificazione razionale dello stesso lavoro di ricerca, da cui dipendevano i vari insegnamenti, poggiava in ultima analisi su questo centro unitario. Ma in quell’epoca, questo consenso sostanziale era ottenuto anche mediante la forza, cioè mediante un principio di divieti e di esclusioni. Quando le scienze che nascevano rischiavano di minare il cuore sostanziale di questa posizione, allora le nuove prospettive di ricerca venivano escluse dall’Università: così, per esempio, nel Rinascimento l’astrologia è esclusa dall’ambito dell’astronomia, oppure la fisica aristotelica è esclusa dall’ambito della fisica sperimentale. Dobbiamo riconoscere che ogni esclusione rompe l’unum, quindi mina il concetto autentico di Università e in ultima analisi è una ferita inferta alla verità, la quale, come ci insegnavano i grandi pensatori classici, soprattutto cristiani, implica sempre l’unità: ens, verum et unum convertuntur.
Il secondo fatto che segue questa prima fase dell’Università liberale moderna è il tentativo di ovviare al principio delle esclusione forzate. Come? In nome della libertà di ricerca vengono aperte le possibilità di dissenso anche sulle questione sostanziali, quelle più immediatamente connesse alla domanda centrale: "cos’è la verità?". Queste questioni vengono progressivamente discusse, relativizzate, messe ai margini, relegate nella sfera delle opzioni arbitrarie, considerate senza una vera dignità conoscitiva e soprattutto incapaci di una forza scientifica universale. Tutto ciò significa che il consenso che garantisce l’universitas come comunità di ricerca tra studenti e docenti di fatto non è più cercato nell’accordo su tali questioni centrali, o su procedure e tecniche di ricerca. La scientificità non riguarda più l’oggetto della conoscenza, cioè la verità in tutte le sue diverse modulazioni, ma solo la forma esteriore del discorso, la modalità tecnica del suo affermarsi e del suo progredire. Ovviamente, in questa linea di tendenza che propugnava anche la necessità di liberarsi da ogni limitazione imposta da contenuti religiosi e morali per far progredire il consenso e la ricerca, la teologia viene tolta dal contesto delle materie scientifiche in senso pieno, e la stessa filosofia, come la vicenda moderna ci dimostra, va estenuandosi e diventando sempre più marginale all’interno delle Università.
Questi due antefatti storici rapidamente evocati dell’Università laica contribuiscono a spiegare la situazione attuale di crisi: in essa si evidenzia la notevole sterilità del mondo accademico come tale, che dipende dall’assenza di una ricerca sistematica della verità sostanziale. Questo produce il conformismo: anche la libertà accademica in questa situazione di conformismo viene a perdere il suo valore e il suo significato originario. L’Università è infatti nata per esaminare, indagare e affermare tutto ciò che nella lotta complessa per la verità appare degno di considerazione; quando la verità perde il suo primato, il conoscere tutt’al più può avere solo nell’utile il suo criterio di misura e quindi finisce sempre, come già è stato detto, per diventare subordinato al potere dominante. Qualunque sfida possibile per una Università futura deve accettare di inserirsi con realismo in questa situazione di vuoto creata da una strana alleanza di razionalità puramente tecnica e razionalismo implicito, quasi sempre taciuto, circa le questioni sostanziali. È irrazionale rinunciare a porre la questione della verità dal momento che essa continuamente – anche se si ha la libertà di negarla – si impone da sé.
Questo ci introduce alla seconda osservazione, legata alla possibilità di una nuova Università che ritrovi amore a quell’unum che la fece nascere. Questa seconda osservazione ha a che fare con il clima culturale oggi dominante. C’è una categoria spesso invocata da quarant’anni a questa parte e oggi in maniera più accentuata, che sembra sintetizzare il clima del frangente storico e culturale che stiamo vivendo: la categoria del nichilismo. Secondo taluni caratterizzerebbe l’epoca post-moderna nella quale noi ci troviamo a vivere. Cosa si intende, almeno approssimativamente, per nichilismo? Ognuno di noi quando considera la realtà in ogni sua manifestazione – l’altro, questo momento di incontro che stiamo vivendo, un bel tramonto, un’azione buona, una cosa bella... – la percepisce di primo acchito come un positivo, come un bene. Ma siccome in sé e per sé la realtà è contingente, cioè ora c’è ma fra un po’ può non essere più, il nichilismo conclude da questo fatto che essa è del tutto caduca: siccome la realtà può del tutto finire, allora essa è in se stessa nulla. Questo si potrebbe dire – in termini, come ho detto, approssimativi – che sia il significato del nichilismo: così, per esempio, siccome l’uomo è mortale, il positivo che egli è (come si fa a non dire, guardandoci in faccia, incontrandoci, che l’altro è un positivo?) si svelerebbe nei fatti essere soltanto un sogno, una apparenza, una finzione.
Ci sono tante modulazioni e molte definizioni di questa temperie culturale dominante, che se anche oggi è priva di quella violenza tragica che aveva qualche decennio fa quando veniva a noi sulle ali dell’utopia rivoluzionaria, tuttavia è quasi più oppressiva: come diceva Del Noce, quello di oggi è un nichilismo gaio, che si stende come una coltre leggera su tutta quanta la realtà, e tende, senza che ce ne accorgiamo, a sfigurarla. Nella nostra esistenza di uomini noi alterniamo lavoro e riposo, ma non sembrano trovare più spazio le domande costitutive dell’io, quelle capaci di dare alla vita quel movente per cui alla mattina dopo la strana parentesi del sonno uno si alza e riparte con vigore e con slancio. Ad una rincorsa affannosa sembra essersi sostituita una rincorsa calcolata della soddisfazione individuale, costi quello che costi, una preoccupazione quasi assoluta di rendere la vita più gradevole, dato che in fondo non esiste nulla e perciò non si crede più a nulla. E si pensa perfino di poter uccidere anche la noia, cercando dell’altro calcolato piacere, e alla fine si annullerà la noia con l’oblio radicale della morte. Non importa se questa insopportabile vecchiaia verrà a venti anni. Pensiamo alle scelte anoressiche di molti giovani, pensiamo ai suicidi, non soltanto dei giovani: anche persone sopra gli ottanta anni sono preda della noia e decidono di chiudersi la vita da sé. Di questo nichilismo si possono studiare le radici teoretiche nella filosofia contemporanea... qui, però, voglio richiamarne due caratteristiche salienti, la secolarizzazione e il pensiero debole.
La secolarizzazione è un processo complesso – che io illustro schematicamente – di riduzione dell’evento più clamoroso di tutta la storia, l’evento di Gesù Cristo e del suo protendersi nella storia di ogni tempo che è la Chiesa, a un puro fenomeno della storia, a una cosa tra le altre, a una corrente di pensiero, a uno stile di vita, a una morale, a una pietà tra le altre. L’evento di Gesù Cristo non è più tenuto nella sua originalità assoluta come un fatto che sta sopra la storia, gratuitamente irrompe in essa e viene incontro alla contingenza dell’uomo: è invece ridotto ad un insieme di fenomeni storici, religiosi, culturali, sociali, individuali, politici... Quelli per i quali Croce diceva che un italiano non poteva non dirsi cristiano, ma essere cristiano è ben altra cosa che fare riferimento ad un mondo culturale cattolico, per giunta oggi anche in via di sparizione. Da questo punto di vista, pare logico concordare con Del Noce quando definisce la modernità, nella sua forma sintetica, come l’eclissi del soprannaturale. In questo senso la modernità è secolarizzazione dal momento che la sua vicenda teoretica e storica si concentra nella affermazione di un principio di immanenza al posto dell’evento salvifico soprannaturale di Gesù Cristo.
La secolarizzazione che nasce con la modernità mantiene un solido nesso con quello che si chiama oggi la post-modernità, e quindi con questa variante del nichilismo che con Del Noce chiamiamo gaia. Il post-moderno a prima vista sembra liberare il campo dal più grave ostacolo sorto con la modernità, quello di ridurre tutta la verità solo a storia. Infatti, il post-moderno non si preoccupa di cercare un principio sintetico veritativo per spiegare la storia, e non è più capace di mettere in relazione libertà e verità. Quindi, questi due termini sono sempre più divaricati e divaricanti, e il pensiero contemporaneo oscilla continuamente tra un problematicismo assoluto e radicale – come diceva il mio maestro Bontadini – e il nichilismo vero e proprio.
Con la riduzione dell’evento di Cristo a un puro principio umanistico secolarizzato – anche se oggi appare rivestito da una religiosità naturale neo-pagana molto diffusa – fa la sua apparizione anche l’altro fattore che distingue questo nichilismo, ovvero il pensiero debole. La debolezza del pensiero è legata fin dalle radici al nichilismo, perché se l’essere è destinato al nulla la ragione non ha molto da dire sulla realtà; anzi è meglio che si accontenti di dire poco. Questo è quanto teorizzano i nostri intellettuali dalle pagine di tutti i giornali (ormai tutti consumiamo tutto, e perciò chi si ritiene intellettuale deve concentrare il suo libro in un articoletto, che esca possibilmente la domenica e che quindi venga letto dalle persone che contano... questa è l’intellettualità del nostro tempo!): è meglio accontentarsi di dire poco. Taluni autori cattolici sono del parere che questo sia addirittura meglio per il Cristianesimo, perché quello che non dice la ragione lo può dire la fede. È un tranello, perché la fede in Gesù Cristo non è un pura scommessa: essa, pur non essendo esigibile dalla ragione in quanto tale, essendo il soprannaturale un fatto in sé gratuito, deve comunque essere ragionevole, cioè fortemente corrispondente al cuore dell’uomo. Anzi, oggi essere cristiani implica più che mai una lotta per la ragione. Quindi, è possibile vedere una parentela stretta tra il nichilismo e il pensiero debole, anche nelle sue varianti ottimistiche che non sembrano in sé e per sé contrarie alla fede.
Secolarizzazione e pensiero debole sono in misura diversa espressione dell’opzione nichilista: si tratta infatti di una opzione, cioè di una scelta. Questa opzione nichilista è in se stessa tragica anche se appare oggi gaia: è tragica perché poggia sulla terribile definizione che del nichilismo ha dato Nietzsche, il "desiderio del nulla". Non c’è nulla di più tragico e di più sconvolgente di questa affermazione: il desiderio del nulla. Un’alternativa critica al nichilismo dovrebbe essere oggi alla base di qualsiasi luogo che voglia essere educativo, di qualsiasi luogo che si voglia come luogo di un lavoro intellettualmente serio. Quindi dovrebbe essere alla base dell’Università. È necessaria una alternativa critica al nichilismo per fare l’Università con un minimo di ragionevolezza: infatti, accettare i postulati del nichilismo condurrebbe in modo inevitabile a negare qualunque tipo di fondamento all’istituzione universitaria, in quanto negherebbe la possibilità di conoscere la verità, e quindi produrrebbe quella polverizzazione del sapere che va contro l’essenza stessa della categoria di Università.
L’ultima osservazione è legata alla relazione tra Università e verità. Sempre Macintyre, criticando uno stile di insegnamento che è proprio di talune Università americane, quello legato alla pura lettura di grandi opere, afferma che una buona Università deve soddisfare tre condizioni: fornire agli studenti non una accozzaglia di tematiche e di materie, ma qualcosa di ordinato e di strutturato; far toccare con mano agli studenti che il meglio che è stato detto, scritto o fatto nelle culture precedenti può essere da loro assunto; infine, metterli in condizione di stabilire un legame con queste tradizioni culturali, capendo ciò che esse hanno detto, scritto, e fatto, per potere a loro volta imparare a dire, a scrivere, a fare. È una ovvia e intelligente annotazione di come possa avvenire la trasmissione del sapere. Tuttavia, pone un problema, soprattutto oggi: come conciliare i modi diversi e spesso conflittuali, con cui questo passato viene letto a partire da un presente nel quale si scontrano diverse visioni della vita, spesso acutamente competitive?
Il conflitto delle interpretazioni rivela l’ineludibile domanda sulla verità. Come domanda, essa giace dietro ogni sapere, indipendentemente dalla risposta che si riuscirà a dare e persino a non dare. La verità nel suo nucleo essenziale, quello metodologico, quello che imposta ogni altro possibile livello di percezione della verità, è stata definita da Tommaso come adaequatio intellectus ad rem, come l’adeguarsi dell’intelligenza alla cosa: intellectus esprime la natura razionale dell’uono, e res indica invece uno degli elementi della totalità del reale ed include il fattore possibilità. La verità implica questo rapporto di adeguazione dell’intelligenza al reale: qualsiasi sapere, da quello del senso comune a quello della molteplicità delle scienze di qualunque natura, da quello speculativo – per usare l’espressione di Hegel – al sapere fondato sulle proposizioni ordinarie, non può permettersi di tradire questa struttura elementare della verità, l’intrinseco rapporto tra ragione e realtà. Di conseguenza se un insegnamento o una scienza tradiscono questo dato di base perdono la loro stessa dignità.
La seconda caratteristica della verità era chiamata dai medioevali cumvenentia: è vero quello che conviene con la mia natura oggettiva e profonda di uomo. Non si tratta di una convenienza utilitaristica, ma di quella dimensione per cui ogni verità muove il desiderio di pienezza che costituisce il cuore dell’uomo. Per questo uno riconosce la verità: perché è buona e urge al bene.
La ragione si rivela pertanto come apertura integrale alla realtà totale: adeguandosi a questa, essa incontra la verità che conviene con il cuore dell’uomo. La ragione rettamente impiegata è capace di verità perché è capace di questa apertura, perché sa adeguarsi alla realtà e perché compie la sete di verità oggettivamente costitutiva dell’uomo. In tale apertura la ragione non esercita solo il suo impeto originario di ricerca, ma anche la sua esigenza intrinseca di comunicare la verità conosciuta: pertanto, questa struttura della ragione come capacità di verità nei confronti della realtà è sempre all’origine del sapere e della sua comunicazione.
Questo principio elementare della grande tradizione del pensiero classico, soprattutto cristiano, deve essere riproposto con forza, come basilare nel compito dell’Università. Non solo: bisogna aggiungere che non può essere accettata nessuna limitazione di indagine ad una ragione concepita in questo modo, pena la caduta nel dogmatismo critico. Essa funziona per ogni tipo di sapere: per qualunque scienza esatta e per qualunque scienza umana vale ugualmente il principio adaequatio intellectus ad rem, ed anche per la filosofia e la teologia, cioè per ogni indagine rigorosa sul senso ultimo dell’essere. Le questioni sul perché ultimo dell’uomo e dell’essere, che costringono ad affermare il mistero come quid non misurabile, lungi dal limitare l’unità di ricerca, appaiono come l’appassionata garanzia dell’onestà di pensiero, quella che con espressione bellissima S. Agostino definiva castitas animi, la castità dell’anima.
Da quanto ho detto, consegue un aspetto decisivo per il lavoro proprio degli uomini dell’Università, quello che chiamerei sulla scorta di S. Agostino la necessità della moralità di pensiero. C’è una moralità del pensare, come c’è una moralità della persona, che esalta la libertà: scegliere di rispettare la realtà secondo la totalità dei suoi fattori, secondo una gerarchia dei medesimi nel conoscere, nell’indagare, nello studiare, è ciò che rende veramente libero un pensatore. Questo non è senza ascesi: anche nell’esercizio della ragione la creatività implica ascesi e non solo spontaneità. La spontaneità nasce dal miracolo della presenza della realtà come positiva per la ragione, ma questa realtà deve essere accettata, e perché sia accettata la ragione deve a sua volta accettare l’ascesi necessaria per adeguarsi ad essa. Questa è l’esperienza umana elementare: in essa la verità abbraccia l’uomo proprio come una madre fa con il suo bambino.
C’è ancora un’ultima questione, che è sottesa alla questione del rapporto tra Università e verità, e che costituisce un tema centrale del nostro tempo: la questione della libertà. Libertà che è implicata nelle due proprietà adaequatio e cumvenientia della verità e del suo processo di scoperta della realtà. Giovanni Paolo II ha scritto nella Veritatis splendor, circa il rapporto libertà e verità, che oggi sono diffuse tendenze che sotto l’influsso di correnti soggettivistiche si ritrovano a indebolire o addirittura a negare la dipendenza della libertà dalla verità. Alla base di queste tendenze si trova un concetto di libertà di matrice illuministica: la libertà come l’assenza assoluta di vincoli di qualunque tipo. Di conseguenza, libero è l’uomo separato, isolato, etimologicamente parlando "idiota", dato che in greco idios significa esattamente questo. Il dramma della nostra Università non si vede solo nella frammentazione del sapere che entro certi limiti, come è stato detto, è una condizione inevitabile, ma nella frammentazione della communitas docentium et studentium e ancora di più nella divisione interna all’io del membro della comunità accademica. Questo concetto di libertà come assenza di legami rivela in fondo una paura della realtà, e perciò è radicalmente irragionevole. La vera causa del nichilismo è questa paura del reale: Proust usa parole terribili in proposito: "La realtà è il più abile dei nostri nemici".
Come allora l’Università può tornare ad essere un luogo decisivo di educazione e di cultura per la nostra società, cessando invece di essere una specie di teatro dei fantasmi di una oggettività neutrale, in cui il soggetto che fa la scienza si nasconde dietro la presunta oggettività neutrale della scienza stessa? Le Università devono porre una precisa ipotesi culturale e devono essere soggetti che si pongono con identità chiaramente affermate e perseguite. E la propria identità va perseguita con coraggio, fino nei suoi fondamenti, fino alla domanda su cosa c’entra – per esempio – lo studio della zampina del coleottero x con la verità. Non importa se ci saranno conflitti o dissensi, a condizione che essi rispettino diritti e doveri di tutti i singoli e di tutte le componenti delle comunità universitarie. Né un consenso forzato né una neutralità formalistica possono garantire la vita intellettuale autentica, ma solo una libertà che si concepisce come lo spalancarsi della ragione alla realtà per affermare la verità. L’Università per ritornare ad essere vitale ha il compito di sviluppare organicamente nella libertà, nel dialogo pubblico e nel confronto senza reticenze, la ricerca della verità. Ecco perché dei soggetti, dei movimenti che tengano desta nell’Università la domanda sul fondamento dell’esistenza e sul senso religioso rappresentano per la comunità accademica una strada di rinascita. Soggetti che non cessino di porre la domanda sul fondamento, perché consapevoli che essa rappresenta il principio di unificazione delle scienze e quindi la condizione per insegnarle e per impararle: infatti, sempre il sapere viene da un sàpere, da un gusto. Il fondamento che procura questo sàpere non è una idea, è sempre un avvenimento: un avvenimento che nei rapporti e nelle circostanze di ogni giorno irrompe nella vita e rende verdeggiante il grigio prato della teoria e della elucubrazione.
Se siamo cristiani, cos’è alla fine questo avvenimento se non la nuova realtà? La realtà in tutte le sue sfumature, anche le più effimere e impercettibili, come la zampina di un coleottero, o il fugace sentimento di solidale simpatia per chi sta entrando a fare l’esame. La realtà trasfigurata, ricapitolata da Cristo morto e risorto per noi, in cui nulla va perduto. La realtà della quale Paolo fa la grande affermazione che dovrebbe riempirci di responsabile stupore e rendere noi uomini della Università, soprattutto cristiani, consapevoli custodi del reale: "Ma la realtà, invece, è Gesù Cristo" (Col 2,17).
Cesana: La "navigazione ai confini della terra" riguarda anche l’Università, che non è l’unico ambito ma certamente uno di quelli privilegiati di sviluppo della conoscenza.
Sse è vero che non si può sapere tutto, è vero però che non si può rinunciare a prendere coscienza del nesso che il particolare ha con il tutto, essendo il tutto, come dice don Giussani, non la somma di quello che noi sappiamo, ma un’altra cosa.