venerdì 28 agosto, ore 11
CONSERVARE IL PATRIMONIO CULTURALE
partecipano:
Mario Serio
dirigente generale del ministero dei Beni culturali
Luigina Bortolatto
commissario d’Arti visive della Biennale di Venezia
Conduce l’incontro:
Ivo Colozzi
Il patrimonio culturale è quella straordinaria realtà di manufatti che testimonia dell'intelligenza, della creatività, della capacità operativa dell'uomo di dare forma al senso intuito. La grande questione è come conservare un simile patrimonio comunicandolo, cioè mettendolo a disposizione dell'uomo di oggi perché possa essergli punto di riferimento per la sua avventura umana.
M. Serio
Oggi il problema dei beni culturali è al centro dell'attenzione delle forze politiche, se ne dibatte nel parlamento, nella società, all'interno delle stesse istituzioni, nel settore delle imprese, nel mondo giovanile. Ognuno di questi soggetti cerca di trovare la risposta ad istanze, esigenze che gli sono proprie e i motivi di questa attenzione sono essenzialmente due: il primo è la funzione del patrimonio culturale nella sua immensa varietà, che va dal documento d’archivio al paesaggio, all'ambiente in cui viviamo. Il patrimonio culturale è l'insieme di tutte le modificazioni che i nostri predecessori hanno lasciato sul territorio, tutto ciò che hanno prodotto con il loro ingegno e per noi (ormai è un concetto diffuso chiaro a tutti) conoscere questo passato significa dare al presente uno spessore, cioè capire qual è la nostra identità. Quindi nella risposta alla domanda sociale d’identità sta una delle ragioni primarie dell'interesse che c'è oggi per i beni culturali. Ricerca d’identità significa quindi domanda sociale molto forte, domanda d’uso, domanda di fruizione; la società sa oggi che questi oggetti non sono solo oggetto della ricerca scientifica che fanno gli specialisti, ma sono e devono diventare sempre di più beni di una fruizione allargata, beni perciò sono possibili vari livelli di fruizione, da quello massimo dello specialista che fa il bene oggetto della propria ricerca scientifica, a livello più modesti, quali possono essere quelli non meno legittimi del visitatore frettoloso o del turista che ha solo un giorno per visitare la galleria d'arte moderna. Il secondo motivo dell'interesse che c'è per i beni culturali, e questo è un fatto degli ultimissimi anni, è il ruolo economico. Ci si è accorti che i beni culturali possono anche avere, per usare il linguaggio degli economisti, una ricaduta in termini economici, ossia d’occupazione. Questo è ancora uno dei settori che oggi, secondo delle stime unanimi, può assorbire occupazione intellettuale. In particolare è uno dei settori compatibili con un modello di sviluppo verso cui la società contemporanea postindustriale andrebbe, una società che privilegia il terziario; quindi questa compatibilità con il modello di sviluppo e queste ragioni rendono i beni culturali al centro dell'interesse.
Vorrei dire delle parole brevissime sull'iter storico che ha portato alla situazione attuale, un iter che anch'io in parte ho vissuto, perché sono entrato nei Beni Culturali agli inizi degli anni '60 e quindi agli inizi dell'esperienza del centro sinistra. Questo era un settore, nel '60, le mie caratteristiche erano determinate da un modello elaborato in epoca fascista e che aveva trovato un’espressione compiuta nel 1939: questa è una data importante per i beni culturali, una data storica, perché un ministro fascista ma illuminato dell'epoca, Bottai, promosse questa riforma avendo alle spalle una serie d’uomini di cultura come Argan, Longhi, nel campo musicale Ronga e nel campo pedagogico Volpicelli. E’ stata un'epoca di grosse riforme che recano chiaramente l'impronta del fascismo, ma è un errore liquidarle come fasciste, perché durante il fascismo la cultura italiana prosegue le proprie elaborazioni che in parte si raccordano direttamente all'Italia liberale. Qual è la caratteristica? Per quanto riguarda l'organizzazione l'impronta negativa del fascismo è più forte, perché presenta un modello centralistico, configura i sovrintendenti come prefetti del potere centrale e ignora completamente tutta questa grande varietà che c'è in Italia delle culture locali, varietà che adesso emerge faticosamente dopo essere stata coartata per un secolo. Dopo l'unità d'Italia prevalse un modello accentratore e forse allora era inevitabile, ma in questo settore i guasti prodotti dal fascismo sono evidenti. Nel settore della legislazione di tutela il giudizio è un po' più sfumato, perché nei lati positivi c'è l'eredità dello stato liberale; agli inizi del secolo in Italia ancora si esportava Raffaello, mentre l'età giolittiana capì che su questi beni c'era un interesse pubblico e che questo era preminente rispetto all'interesse privato. Questa fu la grande conquista dell'età giolittiana che il fascismo recepisce in questa legislazione grazie alla figura di un grande giurista che era anche presidente del Consiglio di Stato, Romano Santi. L'altro aspetto è la concezione del bene elaborata nel '39; si tutela l'opera d'arte, non ogni prodotto dell'ingegno umano, non l'opera inserita nel suo contesto, ma appunto il capolavoro. E’ stato giustamente detto che questa teoria del capolavoro, che veniva da una matrice culturale molto precisa, ossia dal crocianesimo, ha fatto più guasti della speculazione nel dopoguerra, perché era una concezione selettiva, elitaria. Mi sono richiamato a questo modello perché è stato il modello che ha influenzato fortissimamente la situazione dei beni culturali e la formazione degli operatori, perché i soprintendenti erano allievi all'università di quegli stessi operatori culturali che avevano affermato questa concezione: per cui è un modello molto forte, che persiste nel dopoguerra e per certi aspetti persiste ancora oggi. Sono ancora in vigore oggi le leggi del '39 per la protezione del paesaggio e la legge per la tutela delle opere di interesse artistico storico. Naturalmente nel dopoguerra non è che non accada nulla, accadono una serie di cose. Prima c'è questo evento immane ed importantissimo, cui bisogna pure accennare, della ricostruzione del patrimonio artistico distrutto dalla guerra, e poi c'è l'inizio di un grande dibattito culturale, perché già dalla metà degli anni '50 questo sistema viene considerato insoddisfacente, poiché non tiene conto assolutamente della domanda di beni culturali che emerge dalla società, ossia del problema della fruizione; si pone esclusivamente il problema della offerta, per cui i beni culturali sono qualcosa che deve stare in mano agli specialisti, che li conservano e offrono l'accesso al pubblico che ritengono di offrire. Quindi non c'è nessun sistema di rilevamento e di attenzione per la domanda sempre crescente che viene dalla società. Di questa fase che va dal dopoguerra fino a qualunque anno fa, dico solo che c'è stata l'istituzione delle regioni, che è un fatto importantissimo perché ha attivato un nuovo soggetto istituzionale, proprio quello che, come abbiamo visto, era stato mortificato dall'unità d'Italia. Quindi c'è l'emergere di questo nuovo soggetto e c'è un nuovo soggetto istituzionale anche a livello statale, il ministero dei Beni Culturali.
Il sorgere di questo modello istituzionale è un fatto capitale, così come è importante il sorgere della esperienza degli enti locali. Voi tutti ricorderete le polemiche sull'effimero, gli assessori d'estate, gli assessori d'inverno, ecc. lo non nego che questa esperienza degli enti locali abbia avuto dei limiti, ossia che l'attività culturale sia stata usata ai fini del consenso - posto che questo sia un limite e non una regola connaturata al nostro sistema democratico - comunque complessivamente c'è un bilancio che direi positivo, perché c'è una ripresa molto forte della riflessione sulla storia locale, sulla identità locale, c'è un avvicinarsi dei cittadini a questi problemi che trovano il loro perno non tanto nella conservazione, quanto nella fruizione dei beni culturali: attraverso l'esperienza degli enti locali vengono in primo piano i problemi dell'uso da parte della società di questi beni, e non solo da parte degli specialisti. (...)
La situazione di oggi mi induce a cambiare registro e ad usare il linguaggio degli economisti. Si dice che i beni culturali, oltre ad avere un valore in sé per questa loro funzione che abbiamo ricordato, possono anche produrre reddito ed occupazione. I due obiettivi non devono essere in conflitto. Occorre operare finalmente questa riforma complessiva, non dicendo, per riprendere uno slogan che ampiamente è circolato in questo Meeting, "meno stato più società", ma dicendo "uno stato diverso (e questa frase vale solo in questo settore) al servizio della società": altrimenti sarebbe grave ed inevitabile la privatizzazione, la mercificazione. E la stessa occupazione sarebbe illusoria se non ci fosse questa riforma degli apparati pubblici a tutela e garanzia di interessi che in ogni caso devono prevalere su quello economico e produttivo, se non altro perché il bene culturale ha una funzione diversa e caratteristica di irriproducibilità.
L. Bortolatto
Sui beni culturali mi soffermo soprattutto su due dei tre aspetti indicati dal professor Serio, cioè quello relativo al problema dell'identità e quello della fruizione. Per farlo ho diviso il mio intervento in due momenti: il primo relativo ai tesori pubblici e privati, il secondo della memoria collettiva, cioè al museo. Il primo documento giunto sino a noi di una raccolta d'arte in senso moderno appartiene al trevisano Oliviero Forzetta, che in una nota del 1335, seguita da punti successivi, indica gli acquisti che si propone di fare a Venezia. Che si tratti di un'operazione non salutaria ma programmata, lo conferma il testamento, che stabilisce la vendita della collezione artistica, consistente in "designamenta, pittura et scurtillia", per destinare il ricavato a costituire la dote di ragazze povere. La chiesa cristiana, comunque, rappresenta il primo contenitore pubblico di opere d'arte, qualora si consideri che tra i suoi compiti occupa un posto importante l'inventario dei tesori. Il museo è istituzione recente. (...)
Il museo Capitolino stimola il collezionismo privato e soprattutto la raccolta che il futuro Giulio II, ancora cardinale della Rovere, riesce a costituire in Vaticano dopo la scoperta dell'Apollo. Con l'incarico al Bramante della progettazione del cortile del Belvedere vengono collocate quelle opere che assumeranno un ruolo importante nella formulazione dei gusto in ditta Europa. Il museo di Paolo Giovio, anche se fenomeno isolato è un tempio di protagonisti della storia passata e presente e testimonia a Como, a metà del sedicesimo secolo, la prima forma museograficamente significativa. Straordinario è il museo di Federico Borromeo, attraverso il quale lo stesso cardinale ci conduce, medium uno scritto, arrestandosi di fronte ogni opera per spiegare qualità, difficoltà di reperimento, commissione. Il museo veronese di Scipione Maffei, sorto tra il 1714 e il 1720, pure organicamente annesso alla biblioteca, si distingue in vista della sua funzione pubblica in quanto, per la prima volta, non viene ospitato in casa Maffei, ma trova sistemazione all'esterno, in un progetto architettonico razionale di gusto neopalladiano in pieno rococò, perché meglio corrispondente a una scelta espositiva funzionale. Esemplare, durante la stagione illuminista, è quanto avviene a Venezia nel 1750. le gallerie istituite a fini didattici presso la neonata accademia di pittura e scultura, accolgono opere di maestri veneziani e contemporanei accanto a sculture antiche, a calchi in gesso che le riproducono e a esercitazioni degli allievi e vanno intese come scuola, sede attiva di un canone didattico e procedimento operante di un metodo critico storico. In questo caso le gallerie si qualificano in un'istituzione nella quale il processo di imitazione dell'antico non è unico. Lo stesso tirocinio scolastico di Antonio Canova, si svolge nell'esercizio del disegno dal nudo e dalle copie delle sculture più celebri dell'antichità della raccolta Farsetti. Il programma accademico, infatti, comprende anche saggi di statue modellate dall'antico. Così quando Winckelmann dà alle stampe la storia dell'arte dell'antichità e l'abate Lanzi pubblica la storia pittorica d'Italia, vengono poste le basi della moderna storia dell'arte e vanno rintracciate nel rapporto che la cultura del '700 ha saputo intrattenere con il grande collezionismo privato. I decreti napoleonici del 1807, con la soppressione degli istituti ecclesiastici, aggiungono anche a Venezia, al nucleo originario delle gallerie, le opere delle chiese e dei conventi soppressi. In questo modo all'attività didattica dell'accademia, come nelle altre scuole, pur con esigenze politico amministrative diverse, si affianca di necessità quella conservativa. La simbiosi fra museo e Accademia di Belle Arti cessa nel XIX secolo, fra istanze romantiche e naturalistiche. Del 1875 è un provvedimento legislativo che decreta l'autonomia del museo nei confronti dell'accademia. La scuola inizia ad attuare una sua politica; nasce nel contempo la scienza storico artistica e la disciplina della conservazione. Il museo si assume il compito di documentare, testimoniare e produrre criticamente e storicamente le vicende figurative. Il museo d'arte moderna ha una sua storia controversa iniziata nel 1882 con il riconoscimento della Regia Galleria d'Arte antica e moderna di Firenze. Questo museo, sorto per primo dopo l'unità d'Italia in una città che dal '70 non è più capitale, ha compiti eminentemente storico documentari e conservativi. Infatti, omologa emblematicamente il periodo civile e creativo dei risorgimento e della rivoluzione pittorica dei macchiaioli. Nell'anno successivo conclude l'esposizione romana dell'83 l'istituzione della Galleria d'Arte moderna di Roma. La galleria, istituto per l'arte contemporaneo dell'Italia unita, riferiti inizialmente agli artisti viventi, si ispira ad un modello francese. In seguito, con un decreto integrativo del 1912, gli spazi del museo si aprono a opere degli artisti fioriti dal principio del secolo XIX in avanti e di quelli viventi. Questa visione retrospettiva, se da una parte recupera un passato culturale glorioso ai fini dell'identità nazionale, in effetti, riduce l'attenzione nei confronti della produzione artistica più recente. Nel frattempo, sulla funzione conservatrice promozionale che una galleria d'arte moderna deve avere sin dall'inizio, si innesta una delle sue antinomie: la separazione dall'accademia, per cui cede una delle sue funzioni, quella didattica. La crisi delle accademie, che l'assolutismo illuminato e le successiva riforme napolconiche avevano dotato di compiti interdisciplinari, come la formazione degli artisti e la gestione dei musei d'arte antica, inizia con la perdita del loro ruolo e conseguente allontanamento dalla realtà sociale, circostanza certamente non ipotizzata da Luigi XIV quando fonda a Roma l'Academie de France con gli stessi intendimenti per i quali, poco dopo, nel 1673, Cosimo dei Medici invia a palazzo Madama, proprietà familiare, un gruppo di studenti capaci per prepararsi.
Vorrei trattare ora del museo come memoria collettiva. La riflessione circa la natura e la nozione del concetto di bene culturale, termine che identifica ogni manufatto, porta come conseguenza la validità e finalità delle istituzioni museografiche che ne sono i contenitori. Una frase di Malraux definisce il Museo "un de lieux qui donne la plus haute idée de l'homme".Per questa ragione il Museo è memoria collettiva in cui si specchiano la storia civile e intellettuale di una comunità, la sua vitalità culturale, la sua capacità di legare la storia alla realtà contemporanea. I Musei, salvo rare eccezioni, sono sempre espressione delle culture che si sono formate in un territorio e forniscono gli elementi per comprendere la storia culturale e sociale di una città, di una o più regioni, chiarendo pure gli aspetti etnografici e antropologici. L'acume critico del Lanzi già fondava la metodologia sulla complementarità fra museo e territorio, poiché si era reso conto che dal museo poteva muoversi un procedimento sicuro per la salvaguardia del territorio stesso. Dall'inizio di questo secolo il museo d'arte impegna sui suoi terni studiosi, storici, critici, artisti e amatori d'arte. Il dibattito museografico, già prima del '75, ha spinto l'attenzione di molti in direzioni diverse; ora monopolizzando l'aspetto funzionale sotto il profilo culturale ed economico qualora la museografia venga intesa come pubblico servizio, ora puntando sull'ottica sociologica. Una museologia più recente, volendo intendere il museo un segno comprendente altri segni, lo considera un operatore semantico che funge da contenitore di altri messaggi. Meditando sulle categorie di Macluhan, con l'individuazione di codici semiologici, anche il museo è considerato medium. Su questa premessa i musei si possono distinguere in media caldi e in media freddi: i media caldi si limitano a informare, quindi sono media centrifughi, perché escludono la partecipazione; i media freddi sono invece i media centripeti, in quanto coinvolgono comunicando. In qual modo la contemporanea museologia può proporsi un attivo consumo dell'arte da parte della società? Non è sufficiente fornire documenti di conoscenza del patrimonio conservato. Per integrarsi al meccanismo museale, il fruitore deve raggiungere un buon livello di lettura delle opere e di capacità critica: il museo vi concorre con ausili tecnici e con soluzioni architettoniche. Tra i primi anche la sollecitante visualizzazione dell'opera con impiego di strumenti propri di un teatro di posa, come è stato proposto a un convegno fiorentino indetto da Radianti nel 1983. Per le soluzioni architettoniche possiamo ricordare il Musée d'Orsay, ultimo gioiello espositivo parigino, dove l’Aulenti ha progettato ogni ambiente secondo un doppio sistema di relazioni: con l'architettura dell'edificio preesistente, la stazione ferroviaria costruita nel 1900, e con le opere da conservare e da mostrare, appartenenti al periodo compreso fra 1850 e 1914. Oppure la nuova ala della londinese Tate Gallery, un museo tutto colorato, inaugurato dalla regina Elisabetta il primo aprile scorso. Stearling, autore del progetto sgargiante e pieno di humor, ha detto di aver voluto adattare la palazzina al pubblico d’oggi, composto di frotte di giovani allegri e informali, tenendo conto che l'incontro con Turner, artista ospitato vissuto tra neoclassicismo e romanticismo, avviene in un edificio che riprende, non replica, spazi e luce degli studi dei pittori dell'800. Ma la considerazione degli aspetti funzionari e tecnologici non è esauriente; anche quelli sociali e culturali sono importanti. Il museo non può essere statico: nella staticità espositiva spesso necessaria può incunearsi una dinamica operativa capace di convogliare possibilità di lettura e/o appropriazione multiforme, sorretta da un corretto rapporto tra museo, critica e pubblico. Quanto al coinvolgimento, impossibile attuarlo in una raccolta d’arte moderna senza la mimica presenza dell'artista, necessaria a volte per avere accesso alla comprensione dell'opera. Ben vengano gli artisti, abbiano libera e ammiccante entrata, non giungano imbalsamati e osannati solo post mortem. Al clima di sacralità delle mostre postume si affianchi la verifica dell'opera in fieri. La bottega medievale, come l'accademia, erano luoghi d’azioni, non di contemplazione. La Bibliotéque National di Parigi, nella sua ristrutturazione, dovendo decidere se conservare l'immenso patrimonio, vera memoria della Francia, o comunicarlo, ha scelto di conservarlo per comunicarlo, usando adeguati strumenti. E’ lecito chiederci come possa avvenire quando non d’incunaboli o libri a stampa si tratta, ma d’opere che parlino, quiete o drammatiche, degli anni, dei sentimenti spazianti dall'estasi naturale all'angustia dolorosa di fantomatiche visioni di dramma interiore singolo o collettivo. Profonde, patetiche, desolate, appassionanti, esse esprimono un’umanità erosa e resistente che comunque sa sopravvivere ad oscuri disastri. E a questo proposito volevo fare una citazione: su cinque milioni d’opere d'arte, quattro milioni appartengono all'Italia. Questa è la situazione.