Comunicazione televisiva e responsabilità morale: quali regole?

Venerdì 27, ore 11

Incontro promosso dal Gruppo Marchini

Relatori:

Paolo Liguori

Enza Sampò

Sergio Zavoli

Ettore Bernabei

Enrico Mentana

Moderatore:

Laura Dellicolli

Dellicolli: Ieri il Consiglio di Amministrazione della RAI ha deciso di dare ai giornalisti e al personale una sorta di codice di comportamento, non solo per le trasmissioni che dovranno andare in onda, ma anche per gli operatori dell’informazione e di tutta la RAI. Io credo che questa notizia abbia fatto ripensare, a molti di noi, alle tante battaglie fatte ad una televisione del passato che in qualche modo aveva segnato il problema dei valori etici, con interventi anche censori, o che comunque aveva inteso la responsabilità come intervento diretto sia sui programmi che sugli operatori.

Dottor Bernabei, cosa pensa di questo tipo di regole che la televisione vorrebbe darsi oggi e soprattutto dell’etica di una volta che voleva dire codice di comportamento, censura, intervento diretto sui programmi e sugli operatori?

Ettore Bernabei, Manager Pubblico, Presidente della Lux

Bernabei: Quando a Denver il Papa ha parlato di questi problemi, indicando nei mezzi di comunicazione una delle radici della cultura contro la vita che si sta affermando nel nostro mondo, i suoi ascoltatori non hanno applaudito molto convinti. Subito dopo, ha domandato: "Ma chi ha la responsabilità dei mezzi di comunicazione?" C’è stato un momento di sospensione: nessuno ha saputo rispondere perché la domanda è molto incisiva, ma è difficile trovare una risposta. Cercherò di darvene una attraverso la mia esperienza. Quando ero direttore generale della RAI ero convinto, anche per dovere di coscienza, che la responsabilità di questi mezzi di comunicazione è di chi gestisce il servizio, quindi dei dirigenti; cercavamo – come Zavoli ricorderà, eravamo un gruppo di persone animate da diverse concezioni di vita, ma unite in uno spirito di servizio verso gli utenti – di adeguare la comunicazione allo stato d’animo, di cultura, ai sentimenti degli uomini e delle donne che seguono la televisione. Fu fatto il tentativo, in parte riuscito, di adeguarsi alle capacità di comprensione, di condivisione che aveva il pubblico dell’epoca.

Con il passare degli anni mi sono convinto che il problema delle responsabilità della comunicazione televisiva non è soltanto di coloro che dirigono gli organismi di emittenza, ma si estende molto, fino alle responsabilità degli ideatori, degli scrittori, degli sceneggiatori, dei registi. Questo è un mondo strano, ma che ha una importanza fondamentale specialmente nella cosiddetta "fiction" (i film, i telefilm, le telenovelas), che offre, nella televisione di oggi, i modelli di vita. Tuttavia, chi opera nella ideazione e nella realizzazione di questi modelli non ha la consapevolezza di essere un presentatore di modi di comportamento.

Questo è dovuto soprattutto ad una concezione che è andata imponendosi in tutto il sistema televisivo. La comunicazione televisiva è rivolta soprattutto al momento del messaggio pubblicitario. Inevitabilmente, si ha uno stravolgimento per cui tutto dipende dall’indice di ascolto. Un programma è considerato positivo, valido, se ha ottenuto un certo indice di ascolto, perché da quello dipende l’afflusso della pubblicità. Chi è addetto alla ideazione e alla realizzazione dello spettacolo televisivo deve impedire che l’ascoltatore spenga, e quindi lo tiene agganciato con alcuni espedienti, una sorta di spezia che deve condire un alimento. Questo cibo è la violenza di ogni tipo. Credo, però, che ci siano anche le responsabilità degli ascoltatori. Normalmente ci mettiamo di fronte al televisore come di fronte ad un rubinetto di acqua potabile; si apre il rubinetto e nessuno fa una prova per vedere se è potabile. Invece la televisione non è così: può essere un terribile distruttore dei fondamenti dell’umanità e perciò sarebbe un errore se noi, utenti della televisione, demandassimo agli autori, agli ideatori, agli operatori, ai responsabili della trasmissione televisiva, la tutela delle nostre convinzioni, dei nostri sentimenti, delle nostre concezioni di vita.

Enrico Mentana, direttore TG5

Mentana: La violenza, la morte, l’uccisione su mandato, l’uccisione di innocenti, l’uccisione immotivata, sono temi che l’uoma porta con sé dall’inizio della sua rappresentazione letteraria ed artistica, e che porterà sempre.

Il problema della violenza è di portata assai maggiore rispetto al piccolo schermo. Nella realtà e quindi nella rappresentazione televisiva, siamo obbligati a far vedere guerre. Posso testimoniare però che, se si potesse fare una classifica della percentuale di violenza presente nella programmazione televisiva italiana, essa è molto minore di quella di altri paesi. Forse, il problema non è la violenza, ma è come chi fa televisione ha presente i diritti del telespettatore. L’informazione televisiva è sottomessa ai poteri forti: questo è il vero problema, ed è un problema culturale. Il direttore de La Repubblica – è un fatto di oggi – vuole insegnare al Presidente della Repubblica a fare il suo mestiere esortandolo a non venire qui al Meeting... se uno Scalfari va benissimo, due Scalfari sono decisamente troppi. Il problema di fondo è che c’è una monocultura, che ha gestito e servito non soltanto il servizio pubblico, ma soprattutto il servizio pubblico televisivo. Tante realtà importanti – CL come la Lega o il volontariato – a livello culturale non sono mai rappresentate né in televisione né sui giornali.

Tra i colpevoli di Tangentopoli ci siamo soprattutto noi della televisione, che non siamo stati in grado di avere una minima soglia di attenzione non soltanto per i fenomeni perversi che poi sono esplosi, ma per la crescita della rabbia della gente; siamo anche tra quelli che sono stati sorpresi dalla crescita della Lega al nord, il volano indispensabile per la nascita del fenomeno della inchiesta "mani pulite". Ora però noi siamo tutti fra quelli che sono saliti sul carro dei vincitori esclamando: "Che bello, finalmente si purifica l’Italia, si bonifica, a casa questi policiti ladroni etc.". Ma la campana è suonata anche per noi. Adesso è facile fare gli scontri, le Samarcanda, le indignazioni popolari, ma presto si andrà verso una fase grigia, in cui non ci saranno più i grandi giudici che tagliano le teste, i grandi politici che sparano sugli altri e si tornerà alla politica molto noiosa: come si comporterà la televisione, come sarà democratica? Qui si misurerà il suo vero compito morale, per la tutela di tutta l’utenza. Come lo faremo? Bernabei è il portatore di un’esperienza storica in cui, con chiarezza, lo si faceva collegati all’istanza governativa. Veniamo dalla rovina di questo servizio pubblico agli ordini del Parlamento, e questo ha fatto nascere un legittimo, anche se inconfessabile, pianto dell’era Bernabei.

Io sento di svolgere un servizio pubblico pur facendo un telegiornale privato e credo di dovermi porre per primo alcune domande. Dipendo soltanto dalla mia professionalità o devo fare qualcosa d’altro? Noi tutti cosa dobbiamo fare? Da chi dipendiamo? Dall’utenza? Vogliamo rischiare di avere comitati di utenti organizzati che ci dicono: "Parlare meno di quel partito, parlate di più di quell’altro"? Vogliamo creare nuovi gruppi di pressione o c’è invece un livello etico che deve nascere prima?

Dellicolli: Sergio Zavoli è stato alla guida della RAI proprio in quegli anni in cui inevitabilmente la televisione, figlia di un patto politico, ha posto gravi problemi di etica. In quella televisione, etica e politica hanno convissuto, sono cresciuti telegiornali, informazione, operatori: nel frattempo, però il sistema andava degenerando. Vorrei chiedere a Zavoli, che sta preparando una riflessione storica sulla televisione, con una inchiesta dal titolo significativo "Nostra padrona televisione", che cosa è successo in quegli anni e quale può essere il punto di partenza per ricominciare.

Sergio Zavoli, Direttore de "Il Mattino" di Napoli

Zavoli: Saul Bellow ha detto che la T.V. può cambiarci l’animo – non le abitudini, il modo di vivere, i comportamenti, ha detto l’animo, – il che significa che, se fosse vero, la T.V. potrebbe prendere il posto se non di Dio della fede. Ma questo non ci è mai stato assegnato da nessuno: ci è stato semplicemente messo fra le mani uno strumento, uno strumento che ha modificato il nostro animo, perché di fronte alle grandi scelte della vita, dobbiamo chiederci in che modo, in che misura, per colpa di chi e di che cosa siamo così tanto cambiati.

Tornando alla TV di Bernabei, è vero che essa conteneva in sé affidamenti esterni, istituzionali, politici, partitici, ma è altrettanto vero che allora il punto di riferimento eravamo noi stessi. Quando si uccise Luigi Tenco, un cantante molto bravo, un uomo ricco, appagato, apparentemente felice, Bernabei mi chiese un intervento su questo, nell’ambito del Festival di Sanremo. Io andai e conclusi con la citazione di Ungaretti: "La morte si sconta vivendo", sforzandomi di spiegare che non è lecito disporre della propria vita in questo modo, che un disegno della creazione non si rompe all’improvviso perché si cede ad una passione, che la vita è un valore che va speso in ben altro modo, e che il posto che ci viene dato dalla creazione lo dobbiamo presidiare vivendo. Il giorno dopo, sui giornali, la sinistra criticava la tv virtuosa e pedagogica di Bernabei.

Durante una grave carestia, fui inviato in India per tenere vivo nell’animo della gente lo spettacolo della sofferenza, per indurre gli italiani a prendere coscienza di questa tragedia e a parteciparvi in qualche modo con un gesto di solidarietà. Ricordo che andai a fare un pezzo in una scalinata di Nuova Delhi, dove un vecchio stava morendo di inedia. La tentazione di cogliere l’attimo della morte fu fortissima, anche perché si era formato un capannello di persone intorno, che non con l’avidità di un occidentale, che ha sempre una curiosità un po’ perversa rispetto alla morte, ma con la fatale pazienza di un orientale, attendeva che questo vecchio se ne andasse. Noi filmammo la morte di quella persona, ma ci facemmo scrupolo di mandarlo in onda, ed infatti il filmato è rimasto negli archivi della RAI. Non speculavamo sul dolore, sulla sofferenza, come si fa oggi. Certo, c’è uno spettacolo che la tv deve rappresentare, testimoniare e ricordare, quando la morte è ammonitrice. Ma non può essere la mera rappresentazione della morte, per indurci a rifugiare la nostra cattiva coscienza nel dolore e per sentirci più buoni. Lo zoomare sui bambini di Sarajevo, con gli occhi spenti dall’inedia, dalla fame, con le mani protese verso il pane, non è più sopportabile; tuttavia, zoomare sulla morte e sulla disperazione è ancora meno grave di quello che non vogliamo vedere. Ogni giorno che Dio manda sulla terra, nel Sud del pianeta muoiono 45 mila bambini; è come se 400 Boeing stipati di fanciulli precipitassero tutti i giorni: c’è mai su un giornale o in un tg una notizia del genere?

Nell’età della trasparenza, nella civiltà dell’immagine, c’è questa moltitudine di assenti, di invisibili, perché dal momento che non li vediamo, per ciò stesso non esistono.

Dellicolli: Non si è mai tentato di incidere su questi problemi, quando in azienda c’era una attività frenetica sulla programmazione e su molti problemi che interessavano di più, anche per il clima esterno che guidava la RAI di allora?

Zavoli: La riforma della RAI nacque dal mondo dell’informazione: i giornalisti si scelsero la testata attraverso il relativo direttore, per cui il direttore della testata socialista riceveva il consenso e la richista di prendere parte a questa avventura da parte dei giornalisti che si riconoscevano nell’area socialista e altrettanto accadeva per la Democrazia Cristiana e per il Partito Comunista. Meno per il partito comunista, perché allora non c’era ancora il Tg3: ma subito dopo fu in nome del pluralismo che si pensò di dividere in tre faziosità la capacità di essere oggettivi.

Quando io ero presidente della Rai questo meccanismo aveva già fatto tutti i suoi danni, l’informazione si era già impossessata del suo diritto di gestirsi da sola, al di fuori di ogni tutela, l’era Bernabei era "finalmente" finita e quindi i direttori di testata ed il relativo corpo redazionale potevano e dovevano gestire il loro rapporto con il pubblico, con la verità, con l’oggettività, con il pluralismo, nel modo che paresse loro più conveniente. Tuttavia, il Consiglio di Amministrazione fu più di una volta tentato di emanare una sorta di codice di comportamento, e io sempre mi rifiutai. Non credo ai codici calati in nome dei principi, e cadrei in una grave contraddizione se dicessi che sono strumenti efficaci o possono esserlo, dal momento che ho esordito dicendo che il punto di riferimento era la nostra coscienza professionale e non soltanto professionale.

Dellicolli: Enza Sampò ha attraversato una lunga stagione televisiva: mi piacerebbe che ci raccontasse qualcosa.

Enza Sampò presentatrice televisiva

Sampò: Avendo cominciato nel lontano fine 1957, all’età di 18 anni, ho fatto tutto: trasmissioni per i ragazzi – allora si faceva gavetta, cominciando con le trasmissioni del pomeriggio –, trasmissioni per le donne, e dopo alcuni anni sono stata promossa in prima serata. Non ho mai ricevuto vere censure, perché ci si autocensurava, ed erano sempre censure che riguardavano i centimetri di pelle che si mostravano più o meno. In televisione, mi spaventa di più la volgarità della violenza: la volgarità non è il bikini troppo scosciato o la parolaccia, ma la volgarità di sentimenti. Ci sono persone volgari anche se non parlano, e troppo spesso in certi salotti non filtrati dall’ironia di chi sa leggere la commedia umana, questi personaggi sono presentati se non come modelli, come la normalità.

La figura femminile è quantitativamente molto migliorata: in passato noi donne eravamo sempre a fianco di un uomo, non avevamo assolutamente l’autonomia di presentare in prima persona un programma importante. Solo col tempo si è avuta questa autonomia. Il cambiamento del potere della donna in televisione è stato determinato dalla Carrà, che è stata la prima donna che ha avuto potere contrattuale. Tuttavia, penso che il vero passo avanti si farà quando si cercherà di promuovere la presenza delle donne che valgono: non è vero che ci devono essere più donne, ci devono essere le donne giuste, nei posti giusti.

Dellicolli: Si parla molto di codice deontologico dei giornalisti anche per la carta stampata. Vorrei chiedere a Paolo Liguori, che ha sempre dedicato attenzione, come direttore di giornali, ai problemi della RAI, quali problemi pone questo tema.

Paolo Liguori direttore de "Il Giorno"

Liguori: Bernabei paragonava la televisione all’acqua potabile, che si beve senza bisogno di controllo, ma siamo sicuri che sia potabile l’informazione in Italia? Il meccanismo dell’audience è ormai pazzesco, perché rende sempre più difficile non solo capire se l’informazione è potabile, ma anche da che parte sta. Oggi non esiste più la coscienza della differenza tra essere spettatore o protagonista dell’informazione: non sappiamo se siamo spettatori o protagonisti e pensiamo che si possa rendere più democratica e più viva l’informazione allargando la base di quelli che partecipano a farla: si dà la parola a tutti e nessuno ha nulla da dire.

Questa confusione di ruoli fra spettatore e protagonista dell’informazione, non solo non è la ricetta per rendere più potabile l’acqua dell’informazione, addirittura per rincorrere la verità, ma non è nemmeno la ricetta per poter dare un giudizio sull’onestà di quello che si sta facendo. Il dibattito di questa mattina mi ha confermato che un giudizio sereno sull’informazione, sulla propria coscienza e sulla propria responsabilità, si può dare solo attingendo da altre fonti, da altre esperienze che non siano interne all’informazione. Dubito che oggi si possa dare un codice, delle regole nuove, oltre quelle che già esistono, che possano migliorare l’informazione in Italia, se ciò avviene a partire da una riflessione sul mezzo; dubito anche che i più deboli dei deboli, quelli che ricevono l’informazione, possano dare un giudizio di onestà e di verità su quanto ricevono soltanto a partire da certe regolette interne al mondo dell’informazione. Il giudizio può solo partire da altro, dalla propria esperienza, da alcuni principi, da alcuni valori.

Sono talmente convinto che bisogna rispettare le regole che sono contrario a tutti quelli che oggi parlano di introdurre nuove regole. Si sente parlare di regole laddove non si rispettano più le regole, e non sto parlando delle regole giornalistiche, ma delle regole di intervento sulla persona e sulla sua libertà. Quanto diceva prima Enrico, a proposito dell’intervista di Scalfari sulla partecipazione di Scalfaro al Meeting, non richiama soltanto ad una questione giornalistica o soltanto ad una invasione di campo di poteri rispetto ad altri poteri, ma ad una consuetudine di violazione delle regole e delle libertà per cui si pretende di dire ad un Presidente cattolico: "Non puoi partecipare ad un raduno di cattolici senza sembrare di parte". Mi colpisce che questa violazione venga proprio da un mondo liberale, laico, che ha fatto della tolleranza un finto caposaldo.

Per quanto riguarda la questione etica, dobbiamo riconoscere che l’uso dell’aggettivo "etico" o "etica" ha sostituito l’uso dell’aggettivo "biodegradabile", in gran voga fino a 5 o 6 anni fa. Non rifiuto di pormi delle questioni morali e credo che ce le poniamo tutti i giorni: ma credo anche che sia importante applicarle alle cose, applicarli sulla questione fondamentale del nostro lavoro, che, come dicevo prima, è il rispetto della libertà, della persona.

Quando si parla di persona singola e di cronaca è facile vedere questo rispetto, ma quando si parla di gruppi, di persone, di appartenenze, di culture, di valori di persone, è difficile vederlo, tanto più oggi, poiché queste violazioni sono sistematiche e culturalmente dominanti. Non sono molto ottimista, e credo che lo sviluppo dei mezzi di informazione in questa totale violazione delle regole e dei diritti rischia di diventare il limite della nostra civiltà.

Mentana: Sono d’accodo con Liguori su molte delle cose che riguardano l’intaccarsi progressivo di tutta una serie di libertà: sarei più lieto se questo partisse sempre dalla nostra autocritica. Non possiamo far finta che ci sia stato un terremoto, politico, giudiziario, sociale, perché quello che è successo interroga anche le responsabilità dell’informazione. Noi non ci rendiamo conto di essere stati anche noi del regime intaccato da Tangentopoli; è colpa anche nostra se i giudici e i magistrati debordano dai loro compiti, esercitando una supplenza che non tocca loro, proprio come i para-giornalisti, editori, proprietari, direttori, fanno i supplenti del Presidente della Repubblica. Proprio per le nostre colpe l’informazione è diventata una vera e propria cassa di risonanza dei provvedimenti della magistratura inquirente.

Dellicolli: A Bernabei chiedo un giudizio sul giornalismo di oggi.

Bernabei: I giornalisti di oggi sono migliori di quelli di ieri: i tempi passati – questa è la mia esperienza – non sono mai migliori dei presenti e futuri. Il giornalismo televisivo è molto migliorato, perché ha acquistato più professionalità, più capacità specifica di usare quel mezzo. C’è ancora parecchia strada da fare perché spesso l’informazione televisiva è un’informazione radiofonica con aggiunta di alcune fotografie. Quando invece si riesce – e spesso oggi accade – a far parlare le immagini, il giornalismo è di grande efficacia, ed è un mezzo di informazione completa.

Come diceva Liguori, bisogna saper rispettare le regole che ci sono. Vorrei, a questo proposito, ricordare un fatto giornalistico. La sera dell’uccisione di Kennedy ero con il direttore del Tg Fabiani. Venne la prima notizia: hanno sparato al presidente Kennedy. Seconda notizia: il presidente Kennedy è morto. Terza notizia: è stato arrestato un certo Lee Osvald che da una finestra dell’edificio dal quale si poteva mirare il corteo ha sparato un colpo. Quarta notizia: questo signore due anni fa soggiornò per due mesi in Unione Sovietica. Era facilissimo poter dire: l’Unione Sovietica ha ammazzato il presidente Kennedy. Io e Fabiani ci chiedevamo cosa fare, se dare o meno la notizia. Decidemmo di chiamare Ruggero Orlando per sentire che cosa ne pensava (Ecco cosa significa rispettare le regole: avere il senso profondo del rispetto della libertà degli ascoltatori). Chiamammo Orlando, chiedendogli se davvero Osvald era stato in Russia, se davvero ci fosse responsabilità della Russia, quindi in qualche modo del Partito Comunista, che era legato all’Unione Sovietica non solo attraverso finanziamenti. Ci disse: "Proprio un minuto fa il portavoce del Dipartimento di Stato ha dichiarato che è da escludere ogni responsabilità internazionale nell’uccisione di Kennedy". Noi trasmettemmo questa telefonata.

Ho fatto questo esempio per far capire cosa vuol dire rispettare le regole, e soprattutto ritenere che i veri destinatari di questi mezzi non sono tanto gli operatori, gli ideatori, i trasmettitori, ma i ricevitori, gli ascoltatori. Questo sembra una banalità, ma non lo è, perché oggi noi siamo tutti spettatori supini e rinunciatari di fronte alla tv. Dobbiamo imparare ad essere partecipanti attivi, e non solo con i comitati di ascolto, che sono fastidiosi, pettegoli, e considerano gli operatori della tv come dei nemici.

Zavoli: Non dobbiamo riappropriarci solo del telecomando, ma anche della politica.

Noi giornalisti, dopo esserne stati complici, di colpo ci siamo convertiti all’idea che la politica fosse tutta infame. Invece non c’è mai tanto bisogno di politica come quando essa sembra volerci voltare le spalle. Una Repubblica così tanto fondata sulla corrutela, sul clientelismo, sul voto di scambio che ha messo in campo un personale politico professionale di un milione e trecento mila persone, non è stata meglio degli eccessi di chi ci ha aperto gli occhi su un potere in cui il cittadino onesto ormai non aveva più il diritto di parola.

Cito spessissimo un giovane liberale, Giacomo Olivi, di 17 anni, che negli ultimi giorni della guerra del 45 distribuiva del materiale di propaganda che inneggiava alla libertà: fu preso e fucilato dai nazisti tre giorni prima che finisse la guerra. Ebbe il tempo di scrivere al padre e alla madre: voglio citare le sue ultime parole, che dedico come un distico ai giovani che sono qui, ai giovani non solo di Comunione e Liberazione, ma ai giovani del nostro paese, ai nostri figli. "E non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere, pensate che tutto è successo perché non ne avevate più voluto sapere".