Venerdì 31 agosto, ore 15
L’AMMIRATORE FA L’ARTE
Incontro con
Francesco Sisinni
Direttore Generale del Ministero dei Beni Culturali
Thomas Howard
Docente al Saint Johnson Seminary College di Brighton, Massachusetts
Erasmo Leiva Merikakis
Professore di Lingua, Letteratura e Teologia presso l’Università di San Francisco
Modera:
Roberto Barbieri
R Barbieri:
Buonasera a tutti e benvenuto a Mons. Mariano De Nicolò, Vescovo di Rimini, San Marino e Montefeltro, che ci ha onorato con la sua gradita presenza anche questo pomeriggio. "L’ammiratore fa l’arte" è il tema affidato oggi ai nostri tre amici relatori: il professor Sisinni, direttore del Ministero dei Beni Culturali Ambientali in Italia, il professor Howard, docente al Saint Johnson Seminary College di Brighton, Massachusetts, e il professor Leiva Merikakis, professore di lingua, letteratura e teologia all’università di San Francisco. I nostri tre ospiti ci introdurranno in uno dei temi più affascinanti del Meeting ‘90. Ci parleranno, infatti, della genesi dell’arte come ammirazione.
E. Sisinni:
Eccellenza reverentissima, cari sovrintendenti, carissimi amici del Meeting, ho accolto ben volentieri l’invito affettuoso che mi è stato rivolto di parlarvi dell’ammirazione, che nasce dal guardare con meraviglia, con stupore. Ed è interessante questa scelta, in un momento in cui, se vi è una caratterizzazione del nostro tempo, è quella forse di non avere un carattere e di registrare una profonda crisi d’identità. Il mondo in cui viviamo è un mondo che privilegia eccessivamente la razionalità a discapito della ragionevolezza, che ha perduto il senso dello stupore. Ed è proprio lo stupore che va recuperato come momento essenziale di rinascita e come genesi dell’arte. La vera arte nasce appunto dall'ammirazione. Nell’ammirazione gli elementi sono due: il soggetto che vede, che guarda anzi, con attrazione, con interesse, ciò che lo affascina, che lo meraviglia e l’oggetto che si fa guardare in quanto è capace di suscitare interesse, stupore, meraviglia. In questo primo rapporto l’ammirazione comporta un’immedesimazione, cioè l’artista si pone innanzi alla realtà che lo circonda, all’oggetto - e non è detto che debba essere una realtà fisica - e avviene un’immedesimazione che porta a soggettivare l’oggetto: l’esterno diventa interno, in un atto d’immedesimazione. In questo fenomeno il soggetto percepisce l’oggetto e l’oggetto recepisce il soggetto, quindi il prodotto non è mai il solo oggetto perché è l’oggetto più il soggetto. Questo soggetto che trascende l’oggetto è il prodotto stesso, ha del trascendente. Il trascendente dell’oggetto è nell’immaterialità dell'opera. L’opera d’arte ha dell'immateriale: è la sua qualità culturale che l’immaterializza, per cui va al di là della cosa, al di là della materialità stessa. Ma cos’è l'arte? Dell’arte si possono dare infinite definizioni, noi riteniamo di essere sempre sulla strada della ricerca e quindi che è impossibile dare definizioni apodittiche. Possiamo però offrire delle suggestioni, per esempio traendole da Dante. Dante dice che l’arte è quasi nipote di Dio. Perché la chiama quasi nipote di Dio? Perché l’arte, secondo la teologia tomistica, è figlia della natura, la quale è figlia di Dio. Se l’arte è nipote di Dio, significa che l’artista è in stretta relazione, attraverso la natura, con Dio, anzi ha il privilegio di concreare, di creare con lui: l’opera d’arte, se è autentica, è opera di creazione, sia pur umana, ma di creazione. Ed allora vuol dire che esiste un rapporto tra il fisico e il metafisico, tra la storia e la metastoria, reso possibile dall'arte. D’altra parte, in tempi a noi relativamente più vicini, anche Emmanuel Kant, quando vuole considerare la posizione dell’uomo rispetto all’arte, vede che l’uomo artista è l’intermediario tra il bello estetico e il bello di natura. Ancora una volta l'uomo è visto come tramite tra il mondo delle cose e il mondo delle idee, tra il mondo del reale e il mondo irreale, cioè tra il fisico e il metafisico. Tutto questo significa che l’artista deve usare il Mistero. Il Mistero appartiene all’arte perché attraverso l’arte si ascende a qualcosa che va al di là della materialità. Perché tutto ciò avvenga è necessario lo stupore, è necessaria l’ammirazione, cioè l’immedesimazione. Questo è lo straordinario miracolo su cui dovremmo riflettere sempre più, soprattutto in un tempo che è caratterizzato da segni di contraddizione. Qualche decennio fa, abbiamo più volte parlato della morte di Dio e coloro che proclamavano la morte di Dio dovevano consequenzialmente rilevare, più o meno, la morte dell’arte. Lo stesso studioso, a cui per altro sono molto legato, Giulio Argan, ha delle pagine veramente interessanti sulla morte dell’arte, in questo convulso manifestarsi di prove, quasi di esasperati esercizi di ricerca, che certo, forse, hanno poco a che fare con l’arte. Ebbene, lui rilevava questa morte dell’arte e non poteva non metterla in relazione alla conclamata morte di Dio. Ma in realtà Dio non muore e allora ecco tornano dei segni che ci riportano all’arte, come insieme di valori: l’arte recupera l’umanità integrale, l’umanità nella sua globalità e quindi abbandona le vie di un’analisi troppo asettica, quella della pura razionalità, ritorna alla ragionevolezza, recupera il sentimento come momento essenziale dell’uomo. Se questa dunque può essere la considerazione sintetica per quanto concerne l’ammirazione nel rapporto soggetto-artista, oggetto di meraviglia, vuol dire che l’arte, se è autentica, produce meraviglia: quel che produce non può che essere meraviglioso, perché nasce da un ammirare, da un guardare con meraviglia. La vera arte, dunque, si concreta in meraviglia: mirabile è l’oggetto d'arte, mirabilia la produzione che ne discende. Ma di un altro atteggiamento dobbiamo dire, quello di chi fruisce l’opera d’arte, di chi si pone in rapporto colloquiale con l’opera d'arte. E anche qui deve entrare in gioco l’ammirazione, innanzi tutto riguardo alla conoscenza. Il primo stadio della appropriazione è la conoscenza, una conoscenza chiara, una conoscenza semplice, una conoscenza intelligente. Attraverso la conoscenza l'oggetto diventa soggetto. Ecco la nuova immaterializzazione, immedesimazione, appropriazione. Il fruitore si pone in un contesto sociale. La stessa società si pone come fruitrice. La società chiede oggi servizi e alla civiltà ci rivolgiamo perché ci dia dei servizi, è comunque l’istituzione che si deve incaricare di farsi da tramite fra la fonte e l’utente e la fonte può essere un codice miniato o no - in questo caso non ha importanza - cioè un documento della storia, può essere un atto di archivio, può essere un monumento, può essere un reperto archeologico, può essere un'opera d'arte. Ora l'oggetto, il bene culturale deve essere posto in grado di ricreare le condizioni dello stupore, la società deve garantire l’ammirazione dando determinati servizi, rendendo possibile la lettura del bene. Posto che questo bene non è qualcosa di statico, bensì di dinamico: in quanto non è soltanto un documento della storia, non è soltanto un testimone della civiltà e della creatività dell’uomo nella sua vicenda più volte millenaria, ma è anche un fattore di educazione permanente. Allora, se il bene culturale, se l’opera d’arte educa, forma, è necessario che noi ci impegniamo perché questa azione, questa funzione, il bene culturale la svolga. Allora vedete che la nostra opera non è solo di tutori, di conservatori di un patrimonio della memoria, ma se abbiamo capito che l'opera d’arte è mirabilia, allora avremo capito che le testimonianze sono memorabilia e come memorabilia vanno, non solo tutelate in maniera da conservarle, non solo valorizzate in una concezione più o meno promozionale, ma vanno viste come elemento di crescita, di avanzata di civiltà. Vi renderete allora conto che se si assume questo atteggiamento rispetto all’opera, al bene culturale, il nostro impegno si trasforma in un grande progetto, il progetto che ha per fine l'uomo, perché è il fine che noi intendiamo perseguire attraverso la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, cioè della memoria. Ed è proprio il fine dell'avanzata dell'uomo, della crescita dell'uomo, di una diversa qualità della vita in cui l’uomo sia restituito alla sua integrità di essere umano, figlio di Dio, e in cui l'arte recuperi la sua funzione e la memoria torni alla vera cultura.
R. Barbieri:
La ringrazio moltissimo del suo acuto contributo e passo la parola al prof. Thomas Howard.
T. Howard:
In casa mia, a Boston, ho un grosso cane molto bello, il suo nome è Baky, non ha nessun peccato originale e canta la gloria di Dio essendo quello che è. Ora, per noi tutti, uomini e donne, che troviamo cosi difficile glorificare Dio, questo è un grosso mistero: come può Baky - un cane - oppure un’aquila, una grande pianta, il mare, le montagne, i venti, le stelle, esprimere la gloria di Dio unicamente essendo quello che sono? Noi e Dio dobbiamo continuamente lottare, lottare con mille ragioni: con egocentrismo, contro la concupiscenza, sempre, continuamente. Tuttavia sembrerebbe veramente cosi – l’abbiamo letto nella Bibbia, nei sermoni: che l’intero universo grida, grida a Dio la gloria di Dio con un fortissimo benedicite. Noi e Dio siamo stati invitati a unirci a questo grande coro, ma naturalmente non è sempre facile. Io molto spesso guardo Baky, il mio cane, e lo invidio; egli è in grado di compiere il suo destino divino, molto semplicemente, essendo quello che è, senza nessuna lotta. Dio ha creato l'animale - dice la Genesi- e si è detto questo è buono, ma un secondo pensiero mi viene quando io guardo Baky ed è questo: Baky fa le stesse esperienze che faccio io, cioè prova fame, sete, stanchezza o anche esperienze più astratte, come la gioia quando io torno a casa la sera, oppure la speranza quando vede che mia moglie ed io ci prepariamo per uscire per una passeggiata, oppure delusione quando scopre che qualche volta non ci può accompagnare, e anche vergogna o senso di colpevolezza quando scopriamo che è salito su una sedia, poiché sa molto bene che è una cosa che gli è proibita. Baky fa molte esperienze, tuttavia lui non fa niente, non trasforma queste esperienze, non compone mai una musica per celebrare, per esempio, il fatto che mia moglie gli ha dato un bellissimo osso, né scrive mai una poesia consacrata alla cagnolina che vive nella casa accanto, né può mai dipingere un'immagine del mare, anche se lo portiamo con noi a passeggiare lungo la spiaggia. Io ho riflettuto su questo e mi appare chiaramente che io appartengo ad una specie di creature che non soltanto devono passare attraverso delle esperienze, di amore, di bellezza, di vittoria oppure di sconfitta, di gioia o di dolore; io appartengo ad una specie che deve anche dire qualche cosa su queste esperienze; noi, gli esseri umani, voi ed io, a differenza dei cani e di altre creature meravigliose che condividono con noi questo pianeta, voi ed io non soltanto vediamo la bellezza - per esempio del Lago Maggiore, oppure delle montagne del Ticino- noi dobbiamo anche esprimere attraverso un'immagine, oppure scrivere una poesia, che in un certo qual modo esprima in modo articolato questa esperienza della bellezza. E se il nostro nome è Tiziano, oppure Rembrant, ebbene, noi vogliamo catturare quello che abbiamo visto e trasformarlo in un’immagine. Noi ci innamoriamo, ma se il nostro nome è Dante Alighieri o Giuseppe Verdi, ebbene, vogliamo dare una certa qual forma alla nostra esperienza umana di amore, cercando di esprimere la gioia, il dolore dell'amore in una poesia come "La vita nuova" oppure in un’opera come "La traviata"; io scopro che sono affascinato da questo, noi esseri umani siamo la sola specie che possa fare questo, noi siamo i soli creatori di qualcosa, nel senso in cui ha parlato Aristotele quando ha parlato del poeta in quanto creatore. In effetti le formiche fanno le loro case, fanno i loro nidi, e i ragni le loro tele, ma noi siamo i soli che proviamo questo bisogno di fare cose, delle cose completamente inutili per poter cogliere e conservare il grande mistero della nostra esperienza d'amore, di perdita, di bellezza, di adorazione e di ammirazione. Ho appena detto che noi esseri umani sembriamo aver bisogno di far delle cose, poesia, musica, storie, sculture, pitture, teatro: e questa è una cosa molto strana. Ma in ogni tribù, in ogni cultura, in ogni società, in ogni civiltà, fin dall’inizio dei tempi abbiamo sempre trovato e possiamo sempre rivedere questa strana attività che continua, chiunque siano i barbari che stanno premendo contro le porte della nostra città, qualunque sia la pestilenza sia sta mietendo vittime, qualunque sia la povertà della terra in cui l’uomo vive. L’uomo ha sempre comunque poi saputo danzare, cantare, dipingere e fare musica. Questa strana avventura sembra nascere dal centro, dal cuore stesso del mistero di quello che è l'essere umano. Dal punto di vista cristiano, naturalmente, tutto questo è molto valido: ci viene detto nelle Sacre Scritture che quando Dio ci ha creato, ha detto: "Voglio fare l'uomo a mia immagine e questo non viene detto per nessun’altra creatura, per lo meno per quanto ne sappiamo. Noi apparteniamo a questa specie che sola è stata creata ad immagine di Dio e in secondo luogo noi siamo stati quella particella che Dio ha preso e di cui ha fatto
Un’unica nazione. Non abbiamo niente a che fare con gli arcangeli, né con il leone, né con l’aquila, loro non possono pretendere questo, è una dignità che è solo nostra. In un certo senso, il fenomeno dell’arte nasce da quello che è unicamente, esclusivamente umano. Noi siamo dei creatori fatti ad immagine del Creatore, i teologi ci dicono che noi siamo stati creati per adorare Dio e per ammirare le sue opere. Mi sembra che quando guardiamo all’arte, ai prodotti d’arte nei vari secoli, vediamo quello che viene ammirato e come queste persone hanno visto, costruito quello che ammiravano. Per esempio, se andate in un museo, se visitate la sezione egiziana, babilonese, troverete dei reperti che sono molto diversi rispetto a quello che trovate se visitate la sezione che riguarda la cultura bizantina. In una sezione vedrete delle figure, delle statue enormi, impressionanti, in pietra, statue di re, in alcuni casi delle immagini o delle figurine umane, però con una testa di uccello, oppure di cane: non riusciamo a capire completamente la religione degli egizi o dei babilonesi, ma in queste figurine possiamo già vedere che vi è qualche cosa della loro visione, del loro modo di vedere la realtà. Quando arriviamo all'arte bizantina, poi, vediamo che sono molto più vicini a noi: abbiamo in comune la religione, non siamo poi così lontani da loro in termini temporali, e siamo più vicini a loro anche geograficamente (l’Italia non è estranea alla iconografia bizantina, basta andare a Ravenna). Ma riconosciamo tutti che non troveremo un’immagine di donna, nel nostro cinema popolare, che assomigli alla donna che vediamo in un’icona bizantina. E’ perché le donne di Costantinopoli avevano un aspetto cosi diverso dalle donne di Parigi, o di Roma, o di New York? No, certamente no, vi possono essere varie mode fra il XIX secolo e il X secolo, fra Roma e Costantinopoli, ma il viso, il volto umano non può cambiare cosi tanto. Quello che vediamo in qualunque immagine nella presentazione della donna è praticamente quello che il pittore, o lo scultore, o il fotografo vuole sottolineare o mettere in luce sulla femminilità. Quando guardiamo un’icona del X secolo, e poi il volto di una donna, una bellezza del cinema oppure una modella, vediamo non soltanto una differenza in termini di abiti, ma anche un modo di vedere diverso. Ora, la mia domanda è: è possibile, nel nostro tempo onorare quelle cose che sono al centro del mistero umano? Delle cose come, per esempio, la vita normale, quotidiana, la verità, la fedeltà, la purezza, la santità? Il compito dell’artista, è un po’ il compito di tutti noi, cioè di mantenere viva questa consapevolezza squisita che la nostra vita umana è come un sacramento, cioè nasconde e rivela la storia di Dio stesso. Vi ringrazio.
R. Barbieri:
La parola al professor Leiva.
E. Leiva Merikakis:
Cari amici, l’ammiratore fa l’arte. Questa frase la intendo nel senso che soltanto il grande contemplatore, l’ammiratore della realtà, è in grado di creare la vera arte. Essa, quella universale, durevole, non proverrà mai da una persona la cui unica intenzione è esprimere se stesso. Dire questo, da un certo punto di vista, definisce una convinzione estetica che fa a pugni con la teoria romantica del XIX secolo e del XX secolo, -il Romanticismo, che concepisce l’artista come autoammiratore. Il romanticismo ci vorrebbe far credere che è proprio l’autoammiratore che fa l’arte. Che l’arte è uno specchio di se stessi. Ma l’autoammirazione, il fatto di porsi al centro di tutto, il porre se stesso al di sopra di altre realtà, è la fonte di un atteggiamento di violenza, che espande l’ego fino ad imporlo in maniera quasi tirannica sulla realtà. La violenza spirituale di questo tipo è una decreazione, per così dire. Cercando di riordinare la struttura del mondo su se stesso, l’artista sostituisce la realtà con l’illusione privata, e l’illusione privata non può rappresentare la sostanza della grande arte, perché non può essere meravigliosa. Non conosco miglior formula per riepilogare questa verità che la frase di Charles Peguy: il genio non rappresenta se stesso. Perciò il vero genio, contrariamente alla teoria romantica, non viene manifestato dal fatto di essere al centro della realtà, ma dalla scelta chiara di trovarsi in periferia, all’esterno, per potersi porre al servizio della realtà, ammirandola un livello superiore rispetto all'ego. Peguy dice che il genio non rappresenta se stesso: e quindi la formula include non soltanto artisti e le loro creazioni ma anche uomini politici, insegnanti, sacerdoti in una posizione da poter comunicare a tutti la bellezza della realtà. Ma potremmo chiederci: quali sono le motivazioni profonde di questo atteggiamento? Perché il genio non rappresenta se stesso e perché un’illusione privata non può essere splendida? Queste sono soltanto opinioni oppure frasi edificanti? Diamo per un attimo un’occhiata ad uno dei più grandi padri della Chiesa, Sant’Ireneo Egli afferma che è nella struttura del rapporto tra Dio e la sua creazione dobbiamo rintracciare il profilo vivente, che deve guidare l’artista come creatore, creato nel suo rapporto con la Creazione di Dio e nel suo rapporto con le creazioni umane. L’affermazione fondamentale di Sant’Ireneo è questa, che Dio non invidia nulla della sua creazione. Ha creato nella libertà una duplice libertà, la sua, quella cioè di creare gli esseri quando ancora questi non esistevano, e la libertà di poter dare qualche cosa a ciò che aveva creato, la libertà di essere veramente, interamente se stessi. Ecco perché tutto ciò che è stato creato da Dio è meraviglioso, perché esiste, di tutto diritto, ed è libero di seguire le leggi recondite della sua stessa natura; e soprattutto perché quest’esistenza veramente autonoma affonda le sue radici nella libertà infinita della volontà creativa di Dio. Quindi Dio non può invidiare nessuna bontà, bellezza o verità che veda al di fuori di sé, soltanto e semplicemente perché nella sua infinita magnanimità Egli ha voluto che tali cose esistessero al di fuori di sé. C'è un esempio che secondo me è veramente iconografico. Immaginiamo: se un gatto avesse creato il mondo, o un cane, tutto avrebbe l'aspetto di un gatto o di un cane. Solo Dio, in quanto non è parte della Creazione, ma infinitamente al di sopra di essa, può creare l’Universo nella sua bellezza, varietà, molteplicità. Egli crea partendo dalla libertà d’amore, e pertanto può concedere la vera libertà e autonomia a ciò che è di sua creazione. Dio non crea per la necessità di esprimere se stesso: dato che in se stesso è completo, non può invidiare il bene che crea, bensì se ne rallegra. Ammira l’opera delle sue mani, ama la bellezza e la mantiene in vita. Dio è il primo contemplatore, il primo ammiratore e comunque il modello inimitabile per tutti gli altri. Ha visto tutto ciò che ha creato e ha visto che questo era molto bello. Il rifiuto della teoria estetica romantica, che mette l’artista, i suoi sentimenti, le sue intuizioni al centro dell’arte, ci riporta ad un’estetica di tipo medievale. Il miglior simbolo per quest’estetica è il fatto che gli architetti, i costruttori più rinomati delle cattedrali del Medioevo, sono rimasti anonimi, si sono nascosti nell’opera che hanno creato. E quest’opera è una canzone senza fine, un elogio nei confronti di Dio, l'ammirazione di quello che Egli ha fatto, del cosmo che, per altro, le cattedrali incorporano o manifestano in maniera simbolica. Però, vorrei risalire ancora di più, prima del Medioevo, ad un periodo pre-cristiano, non ebraico, per riesaminare la struttura dell’ammirazione. Perché? Ma perché qui non solo ci proponiamo appunto di vedere i tratti fondamentali dell’estetica cristiana, vogliamo anche, come ho premesso, dimostrare che tutta l’arte mirabile, grande, non solo quella cristiana, nasce dall’ammirazione, dalla devozione di ciò che è bello, vero, meraviglioso, che si trova al di fuori della sua soggettività. Ovvero, l’oggetto reale dell'artista non è esso stesso bensì l’altro: sia esso un altro finito, sia la natura, un altro essere umano, la storia, o Dio stesso. Anche in Omero, nella grande poesia d’Omero possiamo ritrovare le stesse intuizioni. L’ammirazione creativa, quindi, è forse, tra tutte le azioni umane, la più completa ma anche più vuota, la più vuota perché l'artista non si colloca al centro, non rende se stesso il suo stesso oggetto. La più completa perché è soltanto per mezzo di questa rinuncia che è possibile creare lo spazio immenso, interno, necessario affinché la bellezza dell’universo possa penetrarci, essere espressa in maniera letteraria.
R. Barbieri:
Io credo che le suggestioni che ci sono state date sul tema "l’ammiratore fa l’arte", siano realmente molto ricche e molto stimolanti. Nel ringraziare i nostri amici che ci hanno accompagnato in modo appassionato in questo itinerario d’ammirazione e hanno cercato di suggerirci che cosa e arte, voglio citare una breve frase di Rilke, riportata nell'ultimo libro del professor Sisinni, "I miei beni". La frase di Rilke dice "L’arte è un cammino verso la libertà".